G.
D'Annunzio Terra vergine 1882
“ Fra'
Lucerta” ricorda il romanzo di Anatole France, Thais, 1890.
Qui però si tratta di un povero frate che muore di mal d'amore, uno
sventurato che suscita la nostra compassione, laddove l'eremita
Pafnuzio, che converte la cortigiana Taide e poi se ne innamora,
suscita soltanto ribrezzo.
L'ambiente
de “La gatta” pare proprio quello della Versilia nell'Alcyone,
e invece è in terra d'Abruzzo. Il lido, le alghe, la sabbia, la
pineta evocano subito l'atmosfera sensuale di “Stabat nuda aestas”.
Segno evidente che il futuro D'Annunzio è già tutto qui, nell'opera
giovanile.
Mirabili
racconti, dove eccelle l'arte pittorica e musicale dell'autore, la
sua prosa è già intrisa di poesia, evocatrice di apparizioni che
ammaliano per la ricchezza dei colori, con la seduzione d'un
incantatore di serpenti.
LA GATTA
Quella sera l′Adriatico era violetto,
d′un violetto carico e lucido come l′ametista, senza onde
bianche, senza sbattimenti di vele. Di vele però ce n′era uno
sciame lì su la linea estrema, ritte, acute, fiammanti di colore
alla vampata ultima del sole, sopra un fondo argentino, sotto un
ricamo agilissimo di vapori che parevano profili di case moresche e
di minareti in fuga.
Tora veniva giù per il lido, tra le dune
coperte di alighe e di rottami rigettati dalla burrasca,
canticchiando una canzone di Francaviva, una selvaggia canzone che
non diceva d′amore. Dopo l′ultima nota lunga d′una strofe,
andava innanzi per un tratto in silenzio, con la bocca socchiusa,
bevendo il maestraletto pregno di sale, o ascoltando il mareggiare
sommesso e il grido di qualche gabbiano solitario a volo
nell′immensità. La cagna dietro, a coda bassa, fermandosi a
fiutare le alighe.
– Qua, Vespa, qua! – vociava Tora
battendosi la coscia; e l′animale via di corsa a saetta per la
sabbia fulva come il suo pelo.
Ma quella
voce la sentì anche Mingo che stava seduto dentro la sciàbica
in secco a tagliare un sughero: e il cuore gli diè un guizzo,
perché gli occhi gialli di Tora, due occhi tondi di pesce morto, una
mattina gliel′avevano trapassato. Oh, quella mattina! Se ne
ricordava: era alla pesca delle telline, alta e diritta, con le gambe
tuffate nell′acqua verde screziata di scintille d′oro, tutta nel
sole... Lui passò proprio di lì su la paranza e le pescatrici gli
gettarono un grido; Tora guardava senza pararsi il riverbero con le
palme. Chi sa se la guardò più poi la punta rossa di quella vela
che si perdeva gonfia di scirocco in alto mare!
– Qua, Vespa, qua! – ripetè la voce
gaia squillante vicinissima, tra i latrati, mentre Mingo balzava
fuori dalla sciàbica, scuotendosi via di su gli occhi i capelli, con
un′agilità di giaguaro innamorato.′
– Dove andate, Tora? – le disse; e il
viso pareva un rosolaccio salvatico.
Tora non rispose, non si fermò neanche;
egli la seguì a capo chino, con il cuore che gli batteva forte, con
la gola serrata da un groppo di parole ardenti, ascoltando la canzone
interrotta, sentendosi tutto rimescolare da certe note strane gittate
là improvvisamente come schianti di fiotto in mezzo al romorìo
monotono della marea.
Alla pineta, Tora si arrestò: una folata
di odore acuto fresco sanissimo le passò per la faccia insieme con
gli ultimi bagliori crepuscolari filtranti nei rami.
– O Tora...
– Che volete?
– Vi voglio dire che i vostri occhi li
vedo sempre la notte, e non posso dormire.
C′era nelle parole di quel fanciullo un
accento di passione così selvaggio e nello sguardo un luccicore così
disperato, che Tora ne ebbe un fremito.
– Va, va... – soggiunse poi; e si
perse con la cagna rossa fra le tortuosità dei pini.
Mingo udì
ancóra i latrati laggiù al ponticello, mentre guardava tristamente
sull′orizzonte le paranze ingolfarsi nell′ombra a poco a poco.
Eppure non era bella la Gatta: non aveva
che quelle due iridi gialle, talora verdognole, immobili sul bianco
largo dell′occhio, piene di fascino; e certi capelli corti,
ricciuti, d′un colore di foglia secca, vivi di riflessi metallici
alla luce.
Era sola al mondo, sola con quella
cagnaccia rossa sottile famelica come uno sciacallo, sola con le sue
canzoni e con il suo mare.
Nel mare ci stava dentro tutta la
mattinata a pescar le telline , ci stava anche quando le onde
crescenti le spumavan d′intorno spruzzandole la gonna succinta e la
facevano traballare; e in quei momenti era una splendida figura anche
ne′ cenci, mentre i gabbiani sentendo la bufera le turbinavano sul
capo. Dopo la pesca conduceva al pascolo i tacchini per i prati e per
le stoppie, stornellando, facendo dei lunghi discorsi con Vespa che
stava lì a guardarla pazientemente, accoccolata.
Non era triste però: i suoi canti avevano
una monotonia malinconica, ritmi bizzarri che facean pensare
agl′incantatori egiziani; ma lei li diceva come inconscia, come se
non le vibrasse nulla nell′orecchio, nulla nell′anima, li diceva
guardando una nuvola, un uccello, una vela, con le pupille sbarrate,
quasi attonite, affondando nella sabbia la piccola rete, senza
stancarsi mai.
Le compagne
cantavano anche loro; ma a volte erano vinte da un senso di sgomento,
di solitudine, di angoscia, a quelle note, a quella voce; e tacevano
e chinavano il capo scottato dal solleone, e provavano più gelidi i
brividi su pe′ ginocchi, più doloroso nelle pupille il barbaglio
di quell′incendio; e tendevano le braccia affrante, mentre la
cantilena della Gatta perdevasi nella immensa afa accidiosa, come una
imprecazione, come un singulto.
Le parole, gli sguardi di Mingo la
turbarono un istante; non aveva compreso. Pure sentiva giù giù in
fondo all′anima una inquietudine vaga, sentiva quasi ira contro
quel ragazzaccio audace dai denti bianchi e dalle labbra grosse.
Si fermò agli ultimi pini, chiamò Vespa,
le accarezzò il pelo ruvido; poi risollevandosi era fredda, serena,
canterellava.
Ma in un pomeriggio di agosto alla pineta
ci tornò con un branco di tacchini cercando ombra, e ci trovò
l′amore.
Stava poggiata a un tronco; aveva le
palpebre gravi di sonnolenza, gli occhi pieni di bagliori confusi. I
tacchini pascolavano d′intorno affondando la testa paonazza
nell′erba brulicante d′insetti, due stavano accoccolati sopra un
cespuglio di mortella; il vento alitava per entro alle cupole verdi
bisbigliando; poi fuori a distesa il lido riarso e la linea turchina
del mare animato di vele.
Mingo comparve fra i fusti densi, e
s′avvicinò a poco a poco, trattenendo il respiro, s′avvicinò,
s′avvicinò: la sua maga era lì assopita, in piedi, abbracciata al
tronco.
– Tora!
Ella si scosse, si volse, gli aprì in
faccia que′ due occhi tondi pieni di stupore.
– Tora... – ripetè Mingo tremando.
– Che volete?
– Vi voglio dire che i vostri occhi li
vedo sempre la notte, e non posso dormire.
Forse allora comprese: chinò il capo a
terra, pareva stesse in ascolto o cercasse nella memoria qualche
cosa: quelle parole le aveva udite anche un′altra volta, era la
stessa voce; non si rammentava più dove, ma le aveva udite.
Risollevò la fronte: il mozzo le stava dinanzi, lì incantato, col
volto in fiamme, con le labbra semichiuse, giovine, forte; e il vento
portava via buffi d′odore dall′erbe selvagge, e l′Adriatico era
tutto un barbaglio di faville, fra i tronchi torti de′ pini.
– Ehi, Mingo! – urlò una voce aspra
di lontano in quel momento.
Egli si scosse, afferrò a Tora una mano,
la strinse con tutta la sua forza, e poi via per l′arena di corsa,
come un forsennato, verso la paranza che aspettava nell′acqua
dondolando.
– Mingo! –
susurrò la Gatta con un accento strano, figgendo lo sguardo nella
vela latina che si allontanava rapidamente. E rise come una bimba; e
al ritorno cantava una canzone dalla movenza vivace di tarantella,
cacciandosi innanzi con la canna i tacchini sazii, mentre il sole
tramontava sanguigno dietro Montecorno in mezzo ai nuvoli cacciati
dal garbino improvviso.
Ma col garbino quella notte venne
burrasca, e il mare arrivava fino alle case con certi urli da far
rabbrividire, e tutta quella povera gente della spiaggia stava
rinchiusa ad ascoltare la raffica o a pregare la Vergine Santissima
per i pescatori.
Soltanto la Gatta vagava nel buio come una
fiera, a testa bassa, rompendo la furia del temporale, ficcando nel
buio que′ suoi occhi gialli pieni d′angoscia, tendendo l′orecchio
se le giungesse un grido umano... Nulla. Non si udiva nel frastuono
che il latrato rabbioso di Vespa perduta là, in lontananza, chi sa
dove!
Ed ella s′accostava, s′accostava al
lido, abbarbagliata dai lampi che scoprivano tutto un tratto di mare
sconvolto, tutto un lembo di spiaggia desolata. Si accostò troppo:
un′onda la investì e la rovesciò bocconi, un′altra onda le
passò sopra e la ghiacciò tutta, mentre, inferocita dall′istinto
vitale, ella si contorceva come un delfino arenato, tra l′acqua
incalzante che le empiva di amaro la bocca aperta all′urlo, su la
sabbia che cedeva ad ogni aggrappo, disperatamente.
Si drizzò
in ginocchio alla fine, si sottrasse carponi alla furia della bufera;
e rientrò nel suo covile, grondante, diaccia, con i denti stretti,
pazza di terrore e d′amore.
La mattina
l′Adriatico era calmo, viscido come nafta, senza l′anima d′una
vela, muto, spietato. Alla Gatta parve come di destarsi dalle angosce
di un incubo, provò nell′anima un senso nuovo di solitudine, sentì
paura del buio... Poi in que′ grandi occhi gialli tornò lo sguardo
immobile di pesce morto. Ed ella va ancóra con le compagne a
frangersi le braccia, a farsi ghiacciare i piedi dall′acqua,
bruciare il cranio dal sole; e le sue cantilene seguitano a
dileguarsi nell′aria splendida e triste, a scendere nel cuore di
quella gente che spasima per un tozzo di pane, senza speranza, senza
conforto, senza riposo, mentre i gabbiani passano e ripassano a
folate gittando i loro liberi gridi alle tempeste ed ai sereni.