Un'arena immensa era
divorata su un fianco da maree incanutite che si squamavano sul
pietrisco con croscii scissi.
Le sabbie, arse dal sole,
barbagliavano accecanti. Il calore invetriava l'aria.
Molto lontano su di una
collina si discerneva una casa bianca.
Un cavaliere montava un
destriero d'ignota razza, dall'orbite di fuoco, che nitriva agitando
il fortissimo collo velloso. Il cavaliere, ammantato d'una pelle di
lupo montano, faceva roteare una mazza ferrata, serrandone
l'impugnatura nella destra. Sulla sella era cinghiata saldamente una
spada pesante.
Dietro lui rompeva le
dune, ammorbando di fiotti di polvere, un esercito interminato, irto
di picche e di bandiere, che sprigionava un frastornìo metallico.
Giovani dai biondi cimieri
e dalle corazze scintillanti agitavano gli scudi, che ondavano come
per i venti i campi di messi d'oro, in tutta la schiera gridando, e
colpendoli con le aste impennacchiate presso la punta o annodate di
orifiamme. Essi gridavano e inneggiavano al sole, e gioivano di
forza, eccitandosi all'acre escrezione del sudore equino, che si
mesceva al respiro salso del mare, e alla vista dell'interminabile
legione di rossi vessilli crepitanti.
Essi avanzavano al rullo
dei tamburi e allo squillo delle trombe che annunciavano la prossima
battaglia. I loro cavalli, bianchi o fulvi o pezzati o neri,
innitrivano e scotevano le criniere lanose e dilatavano le froge
umide, gli oculi oscuri, lucidi e venati di sangue, indovinavano lo
scontro devastatore.
Di fronte già si
profilava una selva di picche, negra sovra le sabbie, e ormai un
manto di morte si propagava con nubi grigie sospinte dal vento.
Sovra una rupe, che
svettava come un pinnacolo, una donna contemplava gli eserciti
avversi.
Da lontano i suoi occhi
tenevano la sterile piana e si posavano sui gonfaloni di guerra. Ella
era triste come avesse perduto per sempre un incanto di sogni e di
gioia.
Una bianca stola aveva
indosso e fluenti capelli fiammei, innanzi a lei ardeva un tripode
ove bruciavano essenze. E mentre recitava preghiere in una lingua
sconosciuta, rivolta al cielo minaccioso, le schiere nemiche
s'affrontarono.
Un urlo insostenibile
rimbombò sotto la volta funerea e uno schianto atroce straziò
l'aria, un urto di lame squarcianti e di spietati arnesi bellici,
mossi da mani bramose di vendetta.
Le file serrate
sobbalzavano, s'arrestavano, assaltavano, cozzavano fra loro quali
onde eccitate da spiri contrari, e tutta la pianura era invasa da
un'alluvione assordante di colpi di maglio, di fragore di scudi, di
grida orribili, un boato simile a quello d'un mare in tempesta.
E su quella tempesta
traspariva, dietro il velo mortuario della nuvolaglia plumbea, il
disco del sole, puro nel suo giro perfetto, in un candore lunare,
quasi un sole notturno che sorga su regioni di tenebra, quasi un sole
maligno che nutra dei suoi effluvi una terra di male.
E le apparve il principe
sul cavallo nero.
Il suo volto dal rilievo
marcato non sembrava rivelare alcuna emozione. Il sangue della vita
non colorava il suo volto, pallido, dalle labbra serrate e violacee,
dagli occhi grandi e impassibili quali d'un alato rapace, immobili,
fissi nell'orizzonte infinito. Ogni passione era trascorsa senza
infine mutare quella espressione aspra, implacabile e granitica,
donde soltanto le pupille parevano dardeggiare un fuoco interiore,
inestinguibile.
Egli brandì la rutilante
spada insanguinata ergendo le braccia, e calò un fendente che
sibilando sfiorò le ciocche castane riposanti sulla spalla della
fanciulla.
E come il principe vide se
stesso in lei ed ella si specchiò nell'oscurità dei suoi occhi, la
luce pallida della luna attraversò la notte entro la sua pupilla
senza fine.
La fanciulla era innanzi a
lui, nella luminosità della bellezza. Egli guardò a lungo il corpo
giovane e forte e ricco di vita, avvolto dalla tunica che aderiva
alle forme nel soffio dei venti. Il petto si sollevava nel respiro, i
capelli le ricadevano sovra le spalle robuste. Negli occhi egli
scorse la sottomissione alla sua volontà e la fermezza
dell'adempimento, vide la forte madre della progenie, non una femmina
ribelle e proterva, invida della virilità, ma una donna degna di
stare al suo fianco.
Ed egli ricordò d'averla
già vista nel tempo della giovinezza trascorrere veloce, le chiome
al vento, quando si era dileguata nell'ora del sole.
E vide la forte madre
delle generazioni, la partoriente nel dolore, e chinò il volto.
E lo invase una grande
pace, e l'oblìo calava sopra di lui come le ali della notte. E il
suo cuore dolente lo allontanava.
E vide sovra il mare
tempestoso, sovra l'innito delle ondate dilaniantisi, sull'oscuro
ventre dell'abisso, la forte madre delle generazioni che lo chiamava
a sé, e i suoi capelli erano aspidi nella tormenta.
E sotto il piede suo vide
il serpente che s'attorceva in infinite spire, e tutte le vite umane
prese dagli artigli del drago.
E pronunciò il santo nome
di Proserpina, e s'appressò alla notte.