Ai
confini della terra s'ergeva un'altissima torre.
Sfidava
il cielo, cilindrica, come una colonna, cinta da un cinghio
vorticoso, e il suo vertice vaniva tra vapori di tempesta.
Nemrod
aveva voluto quella torre, il gran cacciatore al cospetto di Ilu.
Egli
aveva istituito un tempio per il suo proprio culto e sacerdoti e
sceltissime ostie. Nel tempio era una statua d'oro che lo raffigurava
in proporzioni naturali, ed ogni giorno era rivestita di quella veste
che egli stesso portava. Le vittime a lui predestinate erano
fenicotteri, pavoni, galli cedroni, galline di Numidia, galline
faraone, fagiani, che volta a volta gli venivano sacrificate secondo
la specie.
E
nelle notti la piena e fulgente luna egli assiduamente invitava ai
suoi amplessi, e talvolta parlava in segreto con il Sommo Dio, ora
sussurrandogli, ora bestemmiando. E spesso ripeteva : “ O tu
sollevi me o io solleverò te. “
E
come lo divorava un ardore inestinguibile, i nervi lo spingevano ad
atti di sfrenata crudeltà o a momenti d'inaudita clemenza.
Talvolta,
mirando l'orizzonte ove moriva ogni giorno il suo invidiato ed eterno
fratello, l'occhio si abbeverava alla luce sanguigna e si saziava di
pensieri malinconici. E come egli pensava alla morte, per lui
indegna, un rancore profondo lo agitava e gli faceva maledire il
destino degli uomini. Quelli, quali greggi di pecore condotte di
pascolo in pascolo dal latrato dei cani e dalle nerbate del pastore,
trascinavano una stanca esistenza, fatta di esili speranze, di
difficili guadagni, di duro ed ingrato lavoro, di meschine invidie,
di bestiali bramosie e di gioie materiali, per terminare il loro
ciclo di vita dalla culla alla tomba, animali inutili una volta che
hanno elargito il seme della progenie.
E
così egli guardava sempre più spesso dall'alto delle mura del
palazzo i tramonti che si succedevano sempre uguali, sempre immerso
in pensieri malinconici.
Quanto
il suo occhio avrebbe desiderato poter raggiungere il punto più
lontano dell'orizzonte ! Ma la luce anche fievole del crepuscolo lo
feriva e gli impediva di sfidare l'infinito. E solenne e silente
scorreva l'acqua dei grandi fiumi, modellandosi in lunghi indugi
canuti che, quasi impercettibilmente, enfiandosi di una lieve brezza,
si riversavano pigramente sulle rive.
E
il tedio implacabile della vita lo tormentava con strane ossessioni,
rendendolo ora frenetico, ora raggelandolo in un torpore immobile. Le
parvenze innumerevoli, che gli si agitavano intorno, erano per lui
motivo di disgusto, non era fra esse né un amico né un'amante che
potesse amare del suo amore.
Talvolta
la disperazione lo conduceva per sentieri solitari per i quali errava
senza meta, desideroso di sfuggire gli sguardi degli uomini. E più
s'inoltrava, più il suo odio cresceva.
Un
bosco sorgeva attorno al letto asciutto di un torrente. Grandi rocce
erano sparse, sulle quali erano crollati scheletri d'alberi divelti
dalle tempeste. La luna traluceva attraverso le branche rinsecchite e
acute come picche, simili a lunghe mani ossute.
Il
regno delle tenebre si rivelava piano piano una dimora degna della
sua angoscia.
E
mentre il piede incontrava le radici dei grandi alberi e il fogliame
putrido del sottobosco, il suo occhio scoverse non molto discosto un
vasto edificio circolare, la cui cupola di cristallo riluceva d'una
luce smeraldina, quasi fosse ricoverta d'uno strato di muschio
irrorato dalla rugiada notturna. Essa emanava dall'interno lo
splendore, quasi emulasse il candore della luna effondendo il raggio
del grembo fertile della terra.
Alte
mura adornate di bassorilievi in forma di tori alati e di teste di
leone rendevano inaccessibile e inviolabile il tempio, cui soltanto
una porta di bronzo pareva custodire l'ingresso. E quella, lentamente
cigolando sui cardini massiccia, s'aperse.
Un
atrio interminabile e fitto di colonne, come di fusti arborei il seno
delle foreste, si dilatava sotto la volta dove aerava un vapore carco
d'un aroma marino che saliva da una voragine aperta nel pavimento.
Una scala marmorea, a spirale, illuminata da torce ruggenti infisse
nella parete, si smarriva a perdita d'occhio nell'abisso.
Per
quella scala si mise il sovrano orgoglioso. E poi che fu giunto molto
innanzi, scorse un corteo grigio, d'uomini incappucciati, donde si
levavano preghiere tra nubi d'incenso.
Un
veglio di gigantesca statura li precedeva, avvolto da una veste
bianca che gli ricadeva dalle spalle in pieghe così rigide e
numerose che sembravano pendere non da un corpo vivo ma da un mobile
scheletro. Una copiosa capigliatura argentea s'arricciava per la
schiena sì che la pelle del cranio, tesa, lasciava sporgere le
orbite e il naso appariva adunco come il becco d'un rapace. Una barba
fluente si confondeva con la tunica e a tratti, sollevandosi, alcuni
filamenti si libravano nell'aria quasi raggi lunari.
Ed
egli diceva discendendo nel baratro : “ Dov'è colei che ci attende
? Per lei nascemmo, per lei rinasceremo. “
E
posero il piede su un vasto dorso scaglioso, di mille colori.
Come
un manto innervato di arabeschi e di inarrivabili labirinti era
disseminato di tutti i lumi dell'iride. E s'attorceva in innumerabili
spire, sovra le quali essi incedevano inesorabilmente. S'invorticava
in circuiti che suscitavano schiume d'onde sull'oceano plumbeo.
S'intravvedeva talora il suo capo crestato emergere e scindere la
distesa e di nuovo scomparire nell'oscurità. Ché l'abisso era colmo
d'un mare immenso ed essi navigavano ora sul leviatano.
Navigavano
in un deserto di correnti furiose che si frangevano contro le squame
argentee, dorate, bronzee e rubescenti del mostro dai grandi globi
dardeggianti un fulgore glauco, simile ai flutti che s'erano tinti
d'alghe. Sopra loro la volta celeste sembrava crollare in masse
informi di nubi grigie trafitte da folgori, cui seguiva un rombo che
inneggiava per tutto, fin dove l'occhio potesse giungere,
all'uragano.
E
tra neri vapori e i bagliori subitanei essi scorsero in lontananza
un'altissima rupe ove invano cozzavano gli urli del mare, e su di
questa apparve una grande croce che univa la terra e il cielo.