sabato 31 marzo 2012

Charles Baudelaire, " Le chien et le flacon ", da " Le spleen de Paris "

« — Mon beau chien, mon bon chien, mon cher toutou, approchez et venez respirer un excellent parfum acheté chez le meilleur parfumeur de la ville. »
Et le chien, en frétillant de la queue, ce qui est, je crois, chez ces pauvres êtres, le signe correspondant du rire et du sourire, s’approche et pose curieusement son nez humide sur le flacon débouché ; puis, reculant soudainement avec effroi, il aboie contre moi en manière de reproche.
« — Ah ! misérable chien, si je vous avais offert un paquet d’excréments, vous l’auriez flairé avec délices et peut-être dévoré. Ainsi, vous-même, indigne compagnon de ma triste vie, vous ressemblez au public, à qui il ne faut jamais présenter des parfums délicats qui l’exaspèrent, mais des ordures soigneusement choisies. »



venerdì 23 marzo 2012

Giosuè Carducci, " Alle fonti del Clitumno "









Ancor dal monte, che di foschi ondeggia
frassini al vento mormoranti e lunge
per l’aure odora fresco di silvestri
salvie e di timi,

scendon nel vespero umido, o Clitumno,
a te le greggi: a te l’umbro fanciullo
la riluttante pecora ne l’onda
immerge, mentre

ver’ lui dal seno de la madre adusta,
che scalza siede al casolare e canta,
una poppante volgesi e dal viso
tondo sorride:

pensoso il padre, di caprine pelli
l’anche ravvolto come i fauni antichi,
regge il dipinto plaustro e la forza
de’ bei giovenchi,

de’ bei giovenchi dal quadrato petto,
erti su ‘l capo le lunate corna,
dolci ne gli occhi, nivei, che il mite
Virgilio amava.

Oscure intanto fumano le nubi
su l’Appennino: grande, austera, verde
da le montagne digradanti in cerchio
L’Umbrïa guarda.

Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte
nume Clitumno! Sento in cuor l’antica
patria e aleggiarmi su l’accesa fronte
gl’itali iddii.

Chi l’ombre indusse del piangente salcio
su’ rivi sacri? ti rapisca il vento
de l’Appennino, o molle pianta, amore
d’umili tempi!

Qui pugni a’ verni e arcane istorie frema
co ‘l palpitante maggio ilice nera,
a cui d’allegra giovinezza il tronco
l’edera veste:

qui folti a torno l’emergente nume
stieno, giganti vigili, i cipressi;
e tu fra l’ombre, tu fatali canta
carmi o Clitumno.

O testimone di tre imperi, dinne
come il grave umbro ne’ duelli atroce
cesse a l’astato velite e la forte
Etruria crebbe:

di’ come sovra le congiunte ville
dal superato Cìmino a gran passi
calò Gradivo poi, piantando i segni
fieri di Roma.

Ma tu placavi, indigete comune
italo nume, i vincitori a i vinti,
e, quando tonò il punico furore
dal Trasimeno,

per gli antri tuoi salì grido, e la torta
lo ripercosse buccina da i monti:
tu che pasci i buoi presso Mevania
caliginosa,

e tu che i proni colli ari a la sponda
del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti
sovra Spoleto verdi o ne la marzia
Todi fai nozze,

lascia il bue grasso tra le canne, lascia
il torel fulvo a mezzo solco, lascia
ne l’inclinata quercia il cuneo, lasci
la sposa e l’ara;

e corri, corri, corri! Con la scure
e co’ dardi, con la clava e l’asta!
Corri! Minaccia gl’itali penati
Annibal diro.-

Deh come rise d’alma luce il sole
per questa chiostra di bei monti, quando
urlanti vide e ruinanti in fuga
l’alta Spoleto

i Mauri immani e i numidi cavalli
con mischia oscena, e, sovra loro, nembi
di ferro, flutti d’olio ardente, e i canti
de la vittoria!

Tutto ora tace. Nel sereno gorgo
la tenue miro salïente vena:
trema, e d’un lieve pullular lo specchio
segna de l’acque.

Ride sepolta a l’imo una foresta
breve, e rameggia immobile: il diaspro
par che si mischi in flessuosi amori
con l’ametista.

E di zaffiro i fior paiono, ed hanno
dell’adamante rigido i riflessi,
e splendon freddi e chiamano a i silenzi
del verde fondo.

Ai pié de i monti e de le querce a l’ombra
co’ fiumi, o Italia, è dei tuoi carmi il fonte.
Visser le ninfe, vissero: e un divino
talamo è questo.

Emergean lunghe ne’ fluenti veli
naiadi azzurre, e per la cheta sera
chiamavan alto le sorelle brune
da le montagne,

e danze sotto l’imminente luna
guidavan, liete ricantando in coro
di Giano eterno e quando amor lo vinse
di Camesena.

Egli dal cielo, autoctona virago
ella: fu letto l’Appennin fumante:
velaro i nembi il grande amplesso, e nacque
l’itala gente.

Tutto ora tace, o vedovo Clitunno,
tutto: de’ vaghi tuoi delùbri un solo
t’avanza, e dentro pretestato nume
tu non vi siedi.

Non più perfusi del tuo fiume sacro
menano i tori,vittime orgogliose
trofei romani a i templi aviti: Roma
più non trionfa.

Più non trionfa, poi che un galileo
di rosse chiome il Campidoglio ascese,
gittolle in braccio una sua croce, e disse
Portala, e servi -.

Fuggîr le ninfe a piangere ne’ fiumi
occulte e dentro i cortici materni,
od ululando dileguaron come
nuvole a monti,

quando una strana compagnia, tra i bianchi
templi spogliati e i colonnati infranti,
procede lenta, in neri sacchi avvolta,
litanïando,

e sovra i campi del lavoro umano
sonanti e i clivi memori d’impero
fece deserto, et il deserto disse
regno di Dio.

Strappâr le turbe a i santi aratri, a i vecchi
padri aspettanti, a le fiorenti mogli;
ovunque il divo sol benedicea,
maledicenti.

Maledicenti a l’opre de la vita
e de l'amore, ei deliraro atroci
congiungimenti di dolor con Dio
su rupi e in grotte;

discesero ebri di dissolvimento
a le cittadi, e in ridde paurose
al crocefisso supplicarono, empi,
d’essere abietti.

Salve, o serena de l’Ilisso in riva,
intera e dritta ai lidi almi del Tebro
anima umana! I foschi dì passaro,
risorgi e regna.

E tu, pia madre di giovenchi invitti
a franger glebe e rintegrar maggesi
e d’annitrenti in guerra aspri polledri
Italia madre,

madre di biade e viti e leggi eterne
ed inclite arti a raddolcir la vita,
salve! A te i canti de l’antica lode
io rinnovello.

Plaudono i monti al carme e i boschi e l’acque
de l’Umbria verde: in faccia a noi fumando
ed anelando nuove industrie in corsa
fischia il vapore.

Dal “ Fedro “ di Platone



Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui ricevere di nuovo nascita e movimento.
Una volta stabilito che ciò che si muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura dell'anima è questa; ma se è così, ovvero se ciò che muove se stesso non può essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale.

domenica 11 marzo 2012

da BHAGAVAD GITA

(26) Anche se pensi che esso (il sé) nasca eternamente ed eternamente muoia, anche allora, o uomo dal braccio possente, non devi tu trarne motivo d'angoscia.
(27) Dell'uomo che è nato in verità certa è la morte; e certa è la rinascita per quello che è morto. Di conseguenza, da ciò che è inevitabile non devi tu trarre motivo d'angoscia.
(28) Gli esseri non sono manifesti nel principio del loro esistere, sono manifesti nel loro esistere di mezzo e di bel nuovo non manifesti alla fine del loro esistere, o Bharata. Quale (motivo di) pianto può essere, quindi, in ciò?
(29) L'uno guarda ad esso come a qualcosa di meraviglioso; un altro parla di esso come di qualcosa di meraviglioso; un altro ancora ne sente (parlare) come di qualcosa di meraviglioso; ma anche dopo averne udito, non c'è alcuno che l'abbia conosciuto.
(30) L'Anima (il Sé) (che ha preso sede) nel corpo di ciascuno, o Bharata è eterna e non può mai essere uccisa. Perciò non devi tu trarre motivo di ansia per alcuna creatura.


Rimembranze





Alto come una montagna assolata sopra le valli brumose, il suo cuore s’empiva della luce d’innumerevoli aurore, gl’inni rosei della giovinezza.
Ricordava vagamente le parole di un canto appreso nell’adolescenza : “ Tu sei la mia terra natìa, la tua luce mai mi mancherà.” Ah, sì, non era mai mancata quella luce, che ora lo conduceva per i sentieri solitari d’una vita altrimenti oscura.
Vedeva elevarsi la nebbia sopra la valle, cingere i fianchi del monte, carezzare le cime dei pini, fluttuare, ruotare in su e sperdersi agli sbuffi del vento o frangersi contro le rupi. Sopra il mare di nebbia il suo cuore cercava il sole e la sua ombra si coricava sull’erba. Vedeva intorno a sé la distesa delle montagne e la propria solitudine. Era al mondo, doveva essere nel mondo, ma dov’era il mondo ? Era il sibilo del vento contro le fronde degli alberi, era il lento ascendere della nebbia, era il silenzio della montagna. Non altro era il mondo.

E pensava all’amore di Petrarca per Laura e a quella meravigliosa solitudine di Valchiusa, così immaginava, immersa nel verde degli ulivi, dei castagni e dei pini, una passione incurabile e nello stesso tempo pura come la segretezza d’un chiostro, di un “hortus conclusus”. E ricordava le meditazioni del poeta quando ascendeva, con il fratello, al monte Ventoso, e si riconosceva in quelle parole, perché avrebbero potuto essere le sue.
Così guardava dall’alto del colle la campagna d’intorno e le altre colline digradanti verso il mare, tutte coperte d’una fitta distesa di fronde. E il sole faceva capolino tra i rami degli alberi sopra di lui, mentre il suo manto di luce d’oro si stendeva sui prati ridenti di fiori. Gli uccelli cantavano per la vasta selva.
Ed egli sentiva dentro di sé l’eco d’una musica insistente, suasiva, impetuosa, e che il rullo di mille tamburi esplodesse nello squillo di trombe ad annunciare un evento straordinario. Invaso da una forza sovrumana si volse verso il sole. In alto, invincibile, eterno, il dio egizio gli apparve allora nella sua gloria. Il datore di vita, il re dell’universo forse lo esortava a non temere, a non fuggire più la vita, ad abbracciarla, a viverla in tutta la pienezza, a colmare le vene del suo stesso fuoco ?           Gli occhi gli si riempirono di quella luce. Abbacinato, chinò lo sguardo ed ebbe l’impressione strana di scorgere se stesso o meglio l’immagine se non il fantasma di sé, correre nel buio d’un’infinita foresta, mentre i suoi occhi splendevano nell’oscurità come smeraldi irradiati.
E quella musica, insistente, invincibile attraversava la foresta nell’impeto del vento e la cingeva fragorosa con le onde d’un fiume risuonante.
Ebbe allora la chiara visione dell’Occhio universale. Si librava sopra il vasto lago dell’Essere e lo guardava, con la sua iride trasparente. Brillava della luce del cosmo e pareva, o forse era, il suo stesso occhio, i suoi stessi occhi, la sua stessa intelligenza senza corpo, rilucente del suo proprio lume.
Allora ebbe chiara intorno a lui l’apparizione della volontà senza limiti, della vita rinnovantesi in ogni vana determinazione, ma in realtà rinascente in nuove forme sempre identica a se stessa.
E vide se stesso come affermazione, come “sì” al richiamo della vita, e nella sua giovinezza fugace egli scorse tutta la giovinezza degli uomini, di tutti i secoli, l’eterna giovinezza. E udì attorno a sé un inno di gioia, un inno empire la volta del cielo, un murmure di voci, quali ondate del vasto mare risonante, un fragore di flutti iridescenti, un canto sublime e possente fluire quale un fiume impetuoso senza ostacoli, senza argini, senza confini.

Vagò a lungo per la foresta, in un labirinto di tronchi neri, appena lambiti da qualche raggio di sole, che il fitto intreccio dei rami impediva quando non erano mossi dal vento.
Intravedeva non distante una radura, perché la luce colà si faceva più intensa e il colore era un verde brillante.
Pareva davvero che un qualche essere silvano lo invitasse alla sosta. Affrettò quindi il passo e giunse nello spazio aperto agli influssi del cielo.

Adagiato sull’erba, preda d’un torpore ebbro di sogni, egli guardava fisso davanti a sé, immerso nella visione.
Ella gli appariva, luminosa, leggera sui fiori, avvolta in una veste fragile e fluttuante come un alone d’oro, i capelli erano lunghissimi e riverberanti bagliori di fiamma e le toccavano morbidamente i contorni del corpo sino al tallone, poi parevano fondersi col suolo. I suoi occhi erano tinti del colore del sottobosco d’autunno, belli e variegati, bronzei e vibranti di lingue di fuoco.
Tutto intorno era luce, e gli alberi erano accarezzati da un vento luminoso, una corrente di pulviscolo aureo irradiantesi nella foresta come una linfa vivificante, come un’anima infusa per prodigio in un organo per lungo tempo muto. Il suo viso si fermò su di lui. Ella fissò i suoi occhi morbidamente, maliosamente e a lui parve abbandonarsi a un’onda di luce più forte del turbine tempestoso e più dolce della brezza dell’alba. Ora sembrava che da uno scrigno d’oro gli si offrisse l’essenza della vita, il tesoro che non ha pari. Doveva dunque abbandonarsi.
Ma, quando sollevò il capo dagli steli abbattuti, non più era luce, se non lo stanco raggio del crepuscolo. E già alitava la fresca sera.

Egli era cosciente del proprio transito, della propria debolezza, del proprio passaggio permeato di sogni, di visioni estatiche. Insufficiente piccola parte di un tutto incomprensibile, coglieva in un istante la propria essenza in una mano, una goccia d’acqua dispersa nell’oceano infinito.
Come quando sulle montagne la luce splende sopra le nevi, così il suo sguardo posava estatico sulla vastità circostante. Il silenzio degli spazi sconfinati gli cantava intorno il suo inno di gloria. In quell’attimo coglieva anche la propria eternità.
L’eternità del rito, sempre nascente infante.
L’immagine di sé fra il padre e la madre, un tempo, in un luogo lontano nella valle, su un prato innanzi al sole del mattino. Nel respiro intorno degli alberi, nell’alito del vento luminoso, il suo sé scorgeva estatico e ignaro il mistero dei giorni, ancora nel nido fra i sorrisi dei genitori  pieni di speranze. Ah, anime amate!
La luce attorniava il bimbo, i sorrisi brillavano come aurore, del sole che sempre sorge.

Ah, immergersi nell’alito del mattino, come in una corrente d’acqua gelida, sentirne il brivido e l’impeto !
Come la dea Aurora intesse nel suo velo i canti che sgorgano dalla luce presso i lavacri del mare, così dentro di sé era invaso dal fremito dolce del risveglio delle creature.
E la luce si dilatava in un’onda iridata sopra le giogaie dei monti e sulle rocce e sulle selve brune.
Il mare dell’essere si rivelava nell’immensa distesa.   

sabato 3 marzo 2012

Aulus Gellius, Noctes Atticae, I, VIII