sabato 26 ottobre 2013
sabato 19 ottobre 2013
Leopardi, Zibaldone, 619.
La disperazione della natura è sempre feroce, frenetica,
sanguinaria, non cede alla necessità, alla fortuna, ma la vuol vincere in se
stesso, cioè coi propri danni, colla propria morte ec. Quella disperazione
placida, tranquilla, rassegnata, colla quale l’uomo, perduta ogni speranza di
felicità, o in genere per la condizione umana, o in particolare per le
circostanze sue; tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il
tempo e gli anni; cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione,
sebbene deriva dalla prima, in quel modo che ho spiegato di sopra p.616. fine,
617. principio, tuttavia non è quasi propria se non della ragione e della
filosofia, e quindi specialmente e singolarmente propria de’ tempi moderni. Ed
ora infatti, si può dir che qualunque ha [619]un
certo grado d’ingegno e di sentimento, fatta che ha l’esperienza del mondo, e
in particolare poi tutti quelli ch’essendo tali, e giunti a un’età matura, sono
sventurati; cadono e rimangono sino alla morte in questo stato di tranquilla
disperazione. Stato quasi del tutto sconosciuto agli antichi, ed anche oggi
alla gioventù sensibile, magnanima, e sventurata. Conseguenza della prima
disperazione è l’odio di se stesso, (perchè resta ancora all’uomo tanta forza
di amor proprio, da potersi odiare) ma cura e stima delle cose. Della seconda,
la noncuranza e il disprezzo e l’indifferenza verso le cose; verso se stesso un
certo languido amore (perchè l’uomo non ha più tanto amor proprio da aver forza
di odiarsi) che somiglia alla noncuranza, ma pure amore, tale però che non
porta l’uomo ad angustiarsi, addolorarsi, sentir compassione delle proprie
sventure, e molto meno a sforzarsi, ed intraprender nulla per se, considerando le
cose come indifferenti, ed avendo quasi perduto il tatto e il senso dell’animo,
e coperta di un callo tutta la facoltà sensitiva, desiderativa ec. insomma le
passioni e gli affetti d’ogni sorta; e quasi perduta per lungo uso, e forte e
lunga pressione, quasi tutta l’elasticità delle [620]molle e forze dell’anima.
Ordinariamente la maggior cura di questi tali è di conservare lo stato
presente, di tenere una vita metodica, e di nulla mutare o innovare, non già
per indole pusillanime o inerte, che anzi ella sarà stata tutto l’opposto, ma
per una timidità derivata dall’esperienza delle sciagure, la quale porta l’uomo
a temere di perdere a causa delle novità, quel tal quale riposo o quiete o
sonno, in cui dopo lunghi combattimenti e resistenze, l’animo suo finalmente
s’è addormentato e raccolto, e quasi accovacciato. Il mondo è pieno oggidì di
disperati di questa seconda sorta (come fra gli antichi erano frequentissimi
quelli della prima specie). Quindi si può facilmente vedere quanto debba
guadagnare l’attività, la varietà, la mobilità, la vita di questo mondo; quando
tutti, si può dire, i migliori animi, giunti a una certa maturità, divengono
incapaci di azione, ed inutili a se medesimi, e agli altri.
(6. Feb. 1821.)
sabato 12 ottobre 2013
Leopardi, Zibaldone, 607.
Cum proelium inibitis, (moneo vos ut) memineritis vos divitias, decus, gloriam,
praeterea libertatem atque patriam in dextris vestris portare. Parole che Sallustio (B. Catilinar. c.61
al.58.) mette in bocca a Catilina nell’esortazione ai soldati prima della
battaglia. Osservate la differenza dei tempi. Questa è quella figura rettorica
che chiamano Gradazione.
Volendo andar sempre crescendo, Sallustio mette prima le ricchezze, poi
l’onore, poi la gloria, poi la libertà, [607]e
finalmente la patria, come la somma e la più cara di tutte le cose. Oggidì,
volendo esortare un’armata in simili circostanze, ed usare quella figura si
disporrebbero le parole al rovescio: prima la patria, che nessuno ha, ed è un
puro nome; poi la libertà che il più delle persone amerebbe, anzi ama per
natura, ma non è avvezzo neanche a sognarla, molto meno a darsene cura; poi la
gloria, che piace all’amor proprio, ma finalmente è un vano bene; poi l’onore,
del quale si suole aver molta cura, ma si sacrifica volentieri per qualche
altro bene; finalmente le ricchezze, per le quali onore, gloria, libertà, patria
e Dio, tutto si sacrifica e s’ha per nulla: le ricchezze, il solo bene
veramente solido secondo i nostri valorosi contemporanei: il più capace anzi di
tutti questi beni il solo capace di stuzzicar l’appetito, e di spinger davvero
a qualche impresa anche i vili.
(4. Feb. 1821.)
sabato 5 ottobre 2013
Leopardi, Zibaldone, 602 – 606, sull’anima.
La mente nostra non può non solamente conoscere, ma neppur
concepire alcuna cosa oltre i limiti della materia. Al di là, non possiamo con
qualunque possibile sforzo, immaginarci una [602]maniera
di essere, una cosa diversa dal nulla. Diciamo che l’anima nostra è spirito. La
lingua pronunzia il nome di questa sostanza, ma la mente non ne concepisce
altra idea, se non questa, ch’ella ignora che cosa e quale e come sia.
Immagineremo un vento, un etere, un soffio (e questa fu la prima idea che gli
antichi si formarono dello spirito, quando lo chiamarono in greco pneuma da pneo,
e in latino spiritus da
spiro: ed anche anima presso
i latini si prende per vento, come presso i greci psuché
derivante da psucho, flo spiro,
ovvero refrigero); immagineremo una fiamma;
assottiglieremo l’idea della materia quanto potremo, per formarci un’immagine e
una similitudine di una sostanza immateriale; ma una similitudine sola: alla
sostanza medesima non arriva nè l’immaginazione, nè la concezione dei viventi,
di quella medesima sostanza, che noi diciamo immateriale, giacchè finalmente è
l’anima appunto e lo spirito che non può concepir se stesso. In così perfetta
oscurità pertanto ed ignoranza su tutto quello che è, o si suppone fuor della
materia, con che [603]fronte, o con qual menomo
fondamento ci assicuriamo noi di dire che l’anima nostra è perfettamente
semplice, e indivisibile, e perciò non può perire? Chi ce l’ha detto? Noi
vogliamo l’anima immateriale, perchè la materia non ci par capace di quegli
effetti che notiamo e vediamo operati dall’anima. Sia. Ma qui finisce ogni
nostro raziocinio; qui si spengono tutti i lumi. Che vogliamo noi andar oltre,
e analizzar la sostanza immateriale, che non possiamo concepir quale nè come
sia, e quasi che l’avessimo sottoposta ad esperimenti chimici, pronunziare
ch’ella è del tutto semplice e indivisibile e senza parti? Le parti non possono
essere immateriali? Le sostanze immateriali non possono essere di diversissimi
generi? E quindi esservi gli elementi immateriali de’ quali sieno composte le
dette sostanze, come la materia è composta di elementi materiali. Fuor della
materia non possiamo concepir nulla, la negazione e l’affermazione sono
egualmente assurde: ma domando io: come dunque sappiamo che l’immateriale è
indivisibile? Forse l’immateriale, e l’indivisibile nella nostra mente sono
tutt’uno? sono gli attributi di una stessa idea? [604]Primieramente
ho già dimostrato come l’idea delle parti non ripugni in nessun modo all’idea
dell’immateriale. Secondariamente, se l’immateriale è indivisibile e uno per
essenza, non è egli diviso, non ha egli parti, quando le sostanze immateriali,
ancorchè tutte uguali, sono pur molte e distinte? Dunque non vi sarà pluralità
di spiriti, e tutte le anime saranno una sola.
Dopo tutto ciò, come possiamo noi dire che l’anima, posto
che sia immateriale, non può perire per essenza sua propria? Se lo spirito non
può perire per ciò che non si può sciogliere, così anche perchè non si può
comporre, non potrà cominciare. Meglio quei filosofi antichi i quali negando
che le anime fossero composte, e potessero mai perire, negavano parimente che
avessero potuto nascere, e volevano che sempre fossero state. Il fatto sta che
l’anima incomincia, e nasce evidentemente, e nasce appoco appoco, come tutte le
cose composte di parti.
Oltracciò non osserviamo noi nell’anima [605]diversissime
facoltà? la memoria, l’intelletto, la volontà, l’immaginazione? Delle quali
l’una può scemare, o perire anche del tutto, restando le altre, restando la
vita, e quindi l’anima. Delle quali altri son più, altri meno forniti: come
dunque la sostanza dell’anima è per natura, uguale tutta quanta?
Ma queste sono facoltà, non parti dell’anima. Primo, l’anima
stessa non ci è nota, se non come una facoltà. Secondo, se l’anima è
perfettamente semplice, e, per maniera di dire, in ciascheduna parte uguale
alle altre parti, e a tutta se stessa, come può perdere una facoltà, una
proprietà, conservando un’altra, e continuando ad essere? Come può accader
questo, se noi pretendiamo cum simplex animi
natura esset, neque haberet in se quidquam admistum dispar sui, atque
dissimile, non posse eum dividi: quod si non possit, non posse interire? (Cic.
Cato mai. seu de Senect. c.21. fine, ex Platone.) V. p.629. capoverso 2.
In somma fuori della espressa volontà e [606]forza
di un Padrone dell’esistenza, non c’è ragione veruna perchè l’anima, o
qualunque altra cosa, supposta anche e non ostante l’immaterialità debba essere
immortale; non potendo noi discorrere in nessun modo della natura di quegli
esseri che non possiamo concepire; e non avendo nessun possibile fondamento per
attribuire ad un essere posto fuori della materia, una proprietà piuttosto che
un’altra, una maniera di esistere, la semplicità o la composizione,
l’incorruttibilità o la corruttibilità.
(4. Feb. 1821.)
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