Sopra la montagna che
sovrastava il paese, scorgevano il disco rosso del sole tramontare
entro un trionfale incendio. Le lunghe lingue di fuoco si libravano
sul mare azzurro cupo e le lontane linee dei promontorii francesi
parevano immergersi lentamente nello specchio ceruleo, quasi dorsi di
mostri marini a raggiungere le oscure profondità.
A oriente s’intravvedeva
la luna pallida.
I pini sul dorso selvoso
del monte Nero fremevano al venticello fresco. Il silenzio regnava
nei cuori.
Loro, i compagni, forse
pensavano al ritorno. Ma lui, lui non pensava. Aveva nell’animo
un’immagine fissa, ossessionante fino al tormento.
E il suo sguardo
perdendosi nella luce morente dell’occaso sanguigno e baluginante
in guizzi ancora e accecanti saette, si socchiuse, come per mirare
oltre.
E oltre vide Misandra.
I capelli aveva pari alle
fiamme del tramonto, e gli occhi simili all’acque di sorgenti
montane, profonde e verdi n’erano le pupille, siccome sui monti le
fontane gelide scorrenti rilucono fra l’ombre degli alti abeti.
E lontano, verso il sole
morente, pareva udire un lamento, un coro unanime di voci, e sembrava
che un corteo lunghissimo s’immergesse laggiù, nel mare, insieme
all’astro rovente. E li vedeva, laggiù, turbinare in una danza
caotica, quasi al ritmo ossessivo d’una musica lugubre,
inesorabile, inestinguibile. Ma essi s’estinguevano, e a poco, a
poco, scomparivano entro l’arco di fuoco e di sangue.
E, mentre procedeva tra
gli alberi, una musica soave ne faceva stormire le fronde profumate e
lo trascinò verso una roccia in direzione del mare. Dall’alto
vide, all’improvviso, l’immensa distesa che sembrava per magia
cingere la montagna, come se il paese sul litorale fosse stato
sommerso.
Dietro di lui lo stradone
s’allargava e una sabbia rossastra riluceva ancora all’ultimo
sole, ma se la cima era spoglia non così erano i lati della
montagna. Donde erano saliti, l’ultima tappa alla volta della
modesta vetta, qui era invece un’altissima selva di pini, tanto
alti nell’abbraccio del monte per l’eccesso dell’ombra, e
pareva un insondabile colonnato che reggesse una volta invisibile
eppure non penetrata dai raggi.
E la selva s’allargava
immensa, si moltiplicava su e giù per le colline oltre il monte Nero
e oltre ancora, sovra le montagne. E la luce traspariva fra le fronde
siccome tra le vetrate d’un tempio.
E il sentiero si perdeva
senza meta, sotto all’altissima navata, di tra le colonne rugose e
profumate del muschio che maculava il legno brunito, innalzantisi
tronchi quasi fossero bronzei a sostenere il peso d’ardite volte.
E quasi una nebbia, una
bruma oscura sulle pianure del Nord, essa selva si stendeva ovunque
quale un’onda cupa, colma d’alghe verdi si plachi sovra il lido,
e tutta empiva dell’abbraccio l’ineguale estensione delle terre,
sì che pareva che innanzi al sole brulicasse un mare di fronde
frementi.
E man mano che avanzava il
suo passo, egli scorgeva nel verde smeraldo brillare le rosseggianti
piccole sfere dei corbezzoli. Ne coglieva qualcuno che gli si
scioglieva nella bocca, dolcemente.
E penetrava tra le fronde
frementi che sapevano il respiro del mare. E poi, come appena uscito
dal flutto che si richiudeva dietro di lui, il cammino continuava e
continuavano i compagni a seguirlo. Non conoscevano essi la meta,
ignari. E ben presto vollero tornare, poi che la notte annunciava la
sera rapidamente.
Allora convenne a
discendere. Ma, quando fu al bivio che conduceva al paese da un lato,
dall’altro si perdeva nella campagna, disse loro l’addio e si
volse incurante alla buia contrada.
Quando giunse al cancello
della villa, l’immenso giardino era immerso in una luce rosata e
tenue, una nube di vapori nunzii d’estasi oltremarine.
Quando suonò il
campanello, gli fu aperto. Un vecchio giardiniere lo condusse sino
alla grande porta di legno lucido.
Entrò.
L’atrio era in penombra.
Un profumo di fiori lo pervadeva. Scorse vicino a una finestra,
attraversata dalla luce crepuscolare, un gran vaso di ranuncoli e
gerbere, di colore violaceo e blu e rosso vivo.
Nella sala, sopra il
pianoforte dalla cassa verticale, c’erano altri vasi di ceramica,
colmi di gerbere rosse e dei pennacchi di canna della Pampa.
E su tutti quei fiori
aleggiava l’alone del tramonto. Così un’unica tinta di cielo
vespertino s’era posata magicamente anche sugli arredi, sopra le
tappezzerie, sui mobili, sui tappeti.
E i quadri parevano
rinnovati da quella luce consueta in quell’ora, eppure insolita per
i paesaggi ch’essi presentavano o per i volti che esigevano una
luminosità diversa. Pure, tutte le immagini sembravano avide di quel
lucore fuggitivo, quasi lo chiamassero a loro pur di non rimanere
oscurate.
E per una finestra
intravvide nel giardino le rose rosse rampicanti che si sostenevano
al venticello intrecciate alla rete sopra il muretto di cinta, e da
un lato tra le foglie notò i piccoli e lucidi frutti del susino,
brunicci, quasi scarlatti.
Si voltò a un improvviso,
lieve rumore. Non era nulla. Ma, mentre percorreva il corridoio,
oscuro, verso la stanza che sapeva essere stata preparata per il suo
arrivo, lo assalì l’onda dei ricordi, dei ricordi più lontani,
quando amava d’un amore infantile quella bambina, un’occasione
per rammentare il viso di colei che più non aveva veduto, e che ora
gli offriva un’ospitalità silente e misteriosa, come appunto per
ricordargli che altro non restava se non il ricordo.
Come fu sulla soglia della
camera, aperse lentamente la porta di legno scuro. Lentamente
s’immerse nell’ombra.
La stanza appariva
smisurata, i mobili sembravano vaghe masse fluttuanti nel fondo.
Il soffitto biancastro era
pervaso da una strana e tenue luminosità. Pareva la superficie
d’un’acqua immota, illustrata dal chiarore delle stelle e dalla
pallida regina della notte.
E quando si coricò nel
letto, i raggi di luna s’insinuarono per le imposte chiuse. E il
bianco lenzuolo lo avvolse come un’acqua chiara.