Sognava.
Era all’interno d’un
antico tempio pagano. Le colonne candide, avvolte di fitta edera,
s’alzavano a sostenere un architrave roso dai secoli. Rivolgendo lo
sguardo in alto, poteva mirare le stelle attraverso un vago intrico
di rovi, di edere, di erbacce, cresciuto sopra alcune colonne quasi
una chioma arborea.
La luna illuminava al
centro del tempio un grande bacino marmoreo, colmo d’acqua limpida.
Com’egli vi pose la
vista, vide un volto a lui noto, ma prodigiosamente mutato.
Una donna appariva,
bellissima, la cui fronte splendeva della luminosità pura, eburnea,
della luna, e i cui capelli, d’un colore tra il castano e il fulvo,
scendevano delicatamente sulle spalle. Gli occhi brillavano, ed erano
grandi e profondi e in essi l’iride mutava a seconda dei raggi che
la colpivano, poiché era costituita da tre colori : intorno alla
pupilla una tinta bruna, scura, attorno a questa un alone giallastro
macchiettato di verde, e l’ultimo alone era grigio. Il viso
rifletteva i lievi raggi lunari e su di esso la morbida bocca
risaltava, rossa e sensuale.
Ma, quando egli, dopo una
pausa di sorpresa e di contemplazione, si rese conto del viso che
aveva dinanzi, non poté non essere colto da un senso di sgomento.
Era infatti quella donna,
pur nelle linee dell’ovale e nelle fattezze del naso e delle
orecchie squisitamente femminili, era in modo straordinario simile,
anzi identica, a lui stesso.
E quando levò il volto
dallo strano incantamento, s’avvide che tra le colonne s’erano
insediati, al pari d’improvvise e mostruose ragnatele, dei grandi
specchi, appannati e inverditi come l’acqua degli stagni e
incorniciati da legno dorato, splendido e radiante.
E poi lunghi rami di
mandorlo, dai fiori candidi quale neve pura, spandevano la viva e
fresca fioritura di contro agli antichi specchi e riflettendosi in
essi creavano l’illusione d’una remota primavera sui campi e sui
ruscelli di paesaggi lontani.
Al mattino spalancò con
un ampio gesto rituale le persiane della finestra, e il sole lo
abbagliò.
Sebbene non fosse tardi,
la campagna era inondata dalla luce, e le piante del giardino e i
prati e le colline in lontananza brillavano, ancora velati dalla
rugiada.
Gli uccelli cantavano,
erano rondini e passerotti che avevano nidificato sul tetto della
casa e frequentavano i rami degli alberi a frotte, rapidi,
intrecciando i loro voli vivaci nell’ebbrezza del giorno nuovo.
Mauro respirò
profondamente l’aria pura e fresca. Si vestì in fretta per uscire
e cogliere l’ora fuggitiva.
Probabilmente Misandra lo
attendeva nel bosco, dove si recava sempre a passeggiare. E forse
egli avrebbe anche incontrato il marito di lei, il conte Oberto. Del
resto, per molti ettari non si potevano incontrare altre persone, a
parte l’esigua servitù.
Mauro si trovava nel
piccolo regno di sua cugina.
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