domenica 10 maggio 2020

G. D'Annunzio, La Gloria


G. D'Annunzio, La Gloria (1899), in Tragedie, sogni e misteri, Milano, Meridiani Mondadori, 2013


La tragedia è ambientata a Roma, ma si tratta di una città immaginaria che richiama la Roma imperiale o Costantinopoli, quindi il motivo già rilevato da Mario Praz (1) della città mostruosa e decadente ( come Cartagine nella Salammbô di Flaubert ). Nelle prime scene già sentiamo alitare la fama della donna fatale, Elena Comnèna, il cui cognome indica l'erede dell'antica dinastia bizantina dei sovrani di Trebisonda. Ma la vicenda sembra fuori della storia, circondata da un alone di leggenda.
Atto I, scena III (p. 349-356). Continui richiami alla filosofia superomistica di Nietzsche e al mito napoleonico. Secondo i Mèmoires di Laure Junot, marchesa di Abrantes, Napoleone sarebbe stato imparentato con la dinastia imperiale dei Comnèni ( vedi nota a p. 1164 ).
Atto I, scena V, entra la Comnèna. Ecco la donna fatale in tutta la potenza del suo fascino, ella incarna la Gloria ! E' una ripresa della figura già delineata nel personaggio della Dogaressa Gradeniga nel Sogno d'un tramonto d'autunno (1898), opera che rievoca le tragedie senecane, caratterizzata da un'enfasi asiana e che risente senza dubbio dell'influsso di Swinburne. Altro influsso certo è il mito bizantino che vede in Teodora, sposa di Giustiniano, la femme fatale perversa e crudele, dedita a pratiche di stregoneria e ai veleni. La fonte di questo mito di Bisanzio, splendidamente analizzato da Mario Praz, è Procopio di Cesarea con le sue Storie segrete, ma il mito aveva avuto la sua divulgazione con Irène et les Eunuques di Paul Adam e con Teodora di I. Fiorentino, opere contemporanee a D'Annunzio e da lui conosciute.
P. 384, l'apparizione della madre di Elena, Anna Comnèna, richiama il mito, rievocato da Flaubert, di Salomé ed Erodiade. A p. 385, infatti, Cesare Bronte si rivolge ad Elena come alla donna fatale simbolo di lussuria e di perfidia, vera e propria Lilith o Salomé, che è ormai un tòpos culturale, basti pensare all'Apparition di Gustave Moreau.
P. 396, atto III. Si delinea più chiaramente la prospettiva storica. Si tratta certamente di un'epoca immaginaria ma vi sono riferimenti alla situazione politica e ideologica attuale. Gli “Inviati delle Federazioni rurali” sembrano alludere ai movimenti rivoluzionari anarchici contemporanei. Tutta la trama politica del dramma rispecchia la situazione storica del 1898, però sembra anticipare gli avvenimenti e i protagonisti della prima metà del XX secolo.
Atto III, p. 407. Tra i misfatti della Comnèna si riconoscono alcuni attribuiti da Procopio a Teodora o, meglio, al suo protetto Pietro Barsime, cioè il commercio fraudolento di grano marcio. D'Annunzio vi allude con “putridume” e “merci avariate”.
P. 418. Superomismo della Comnèna tra Nietzsche e Oscar Wilde. L'immagine del mezzogiorno, “l'ora della gran luce“, è chiaramente di Nietzsche, ma la scena immediatamente seguente richiama il sadismo di Salomé, esemplarmente rappresentato nell'opera omonima di Wilde (1896) :

La donna ha posato su gli omeri di lui le sue mani micidiali, e s'inclina verso di lui con mollezza. A un tratto, con un gesto appassionato, ella gli caccia le dita nei capelli, su le tempie, come per baciarlo; ed egli si scolora rovesciando indietro la fronte.
LA COMNENA
quasi ebra, sommessamente, lentamente.
Ah il tuo coraggio che canta ! Il tuo sangue è pieno di melodia … Non hai ora in te tutta la melodia del mondo ? Nessuna cosa ha tanta musica quanta il coraggio che sale. Io la sento, io la sento …
Ella gli sorregge il capo e lo sfiora con l'alito. Una pausa.
Tu tremi ?
RUGGERO FLAMMA
con la voce spenta
Di te …

Come si può notare, la scena rievoca immediatamente quella di Salomé, quando bacia ebbra di voluttà la testa mozza del Battista (2).
Atto IV, p. 427, l'espressione “un immenso desiderio di vivere tutta la vita” riecheggia un pensiero di Nietzsche, il n. 249 del libro III de La gaia scienza : “Oh, questa mia bramosia ! ... un io che vorrebbe avere tutto, che vorrebbe vedere e afferrare per mezzo di molti individui come fa con i suoi occhi e le sue mani, anche un io che va a riprendersi tutto il passato, che non vuol perdere niente di quanto potrebbe accadergli ! Oh, questa fiamma della mia bramosia ! Oh, se potessi rinascere in cento esseri !” ( Nietzsche, Opere 1882/1895, Roma, Newton, 1993 ).
P. 434-438, ecco la donna fatale in tutta la sua potenza felina, ella è “pieghevole e possente” e s'impadronisce facilmente di Ruggero Flamma, lo domina, lo rende suo schiavo. Ella è del tutto priva di sentimento, invasa com'è da un'ambizione sfrenata e dalla brama di dominio. Anche il sesso è per lei un'arma al servizio della sua tirannia. Ella non prova amore, ma suscita soltanto brame lussuriose.
Atto V, p. 444. Ruggero Flamma in procinto di morire, pugnalato dalla Comnèna, durante la rivolta del popolo di Roma, dice : “Sei sterile. Tutta la vecchiezza del mondo è nel tuo grembo. Tu non puoi generare se non la morte. …” Il motivo della sterilità della donna fatale e dell'ovvia sua associazione all'immagine della morte è un tòpos che si trova già perfettamente ne “La belle dame sans merci” di J. Keats e che giunge sino e oltre l'Hérodiade di Mallarmé. Lo svolgimento storico di questa figura peraltro è stato mirabilmente delineato da Mario Praz.
Il dramma è tutto incentrato sul tema della femmina dominatrice e del maschio asservito dal suo fascino perverso, e in questo certo non c'è molta originalità, ma l'opera riesce comunque suggestiva per la magistrale forza evocativa e la ricchezza d'immagini, che seguono in un indubbio dinamismo.



1) Cfr. La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, Sansoni, 1976, p. 216 ( e a p. 199, Praz dedica alcune righe a questa tragedia e alla Comnèna “... una figura che diresti tolta di peso dalla Décadence Latine del Péladan, mena alla perdizione gli uomini che le si accostano, e finisce per dare, insieme con l'ultimo bacio, la morte al vile Ruggero Flamma.” )
2) Lo stato d'animo dal quale nacque la tragedia non era certo momentaneo perché sembra scaturire dalla medesima vena anche il sonetto “Il vulture del Sole” del 1903, compreso nella raccolta Alcyone (1904), in particolare si notino i versi seguenti :

o Gloria, o Gloria, vulture del Sole,
che su me ti precipiti e m'artigli
sin nel focace lito ove m'ascondo !

Levo la faccia, mentre il cor mi duole,
e pel rossore de' miei chiusi cigli
veggo del sangue mio splendere il mondo.

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