I
Giunto
a quarantasei anni, aveva ormai raggiunto l’acme. Ed era nel pieno
della giovinezza e della creatività.
Sovente
gli appariva l’immagine d’una montagna assolata durante una gita
fatta subito dopo gli studi, molto tempo prima, e aveva la sensazione
che il tempo non fosse trascorso, ma fosse sempre quello presente.
E
quando osservava da casa sua il panorama tra i due promontori,
rivolto verso il mare, rivedeva i sogni passati come i ricami di un
ampio manto che coprisse la sua dea, la dea sorta dalle acque e dalla
brezza e dalla scorza degli alberi e dal cielo azzurro, dal sole e
dalla luna incantatrice.
Aveva,
negli anni della prima giovinezza, conosciuto il figlio d’un
pittore, un ragazzo ammirato dalle fanciulle per l’avvenenza del
portamento, un misto d’introversione e d’arditezza, sì che la
sua ritrosia attraeva, quasi un cavaliere misterioso le cui eclatanti
imprese sono velate da improvvise fughe in foreste impenetrabili.
E
aveva conosciuto un giovane artista, coetaneo di costui, ambedue
erano più giovani di alcuni anni, il quale frequentava l’Accademia
di Belle Arti ed era entusiasta della filosofia estetica. Egli aveva
nella fisionomia, nel contempo forte ed elegante, nella sicurezza e
nell’intelligenza dello sguardo, nell’energia che da lui
promanava, la sembianza di Leonardo in età novella.
E
la memoria lo attraeva nella corrente sinfonica di Bruckner, che lo
incantava più di altri, in un viaggio senza meta, in una dolce
ondata di malinconia, e alternandosi i momenti di abbandono al
vigore, alla forza maestosa che interpretava la lotta incessante,
universale, si smarriva in un labirinto, in un mondo irreale, ma
assai più autentico di quello in cui vivono le ombre sicure degli
uomini, un mondo di impeti ciechi e funesti, di esaltazioni sublimi,
di vera vita. Quella vita che, pur fatta di passioni, non appartiene
alla volgare folla delle brame né alle deviazioni e agli smarrimenti
propri alle condizioni del corpo, ma, tramata di sogni e di desideri
luminosi come luci dell’alba o raggi di sole fulgente in un chiaro
giorno di giovinezza, ci seduce senza requie e ci sprona a inseguire
le sue irresistibili, incantevoli visioni.
Procedevano
allora, egli e i suoi amici, per un sentiero nella campagna, e
discorrevano d’argomenti seri o futili, a seconda dell’estro. I
due gli erano in realtà compagni in rari momenti e più per
curiosità che per ammirazione sincera. Ognuno infatti percorreva la
propria strada nella vita, senza badare troppo agli eventuali
incontri. Ma certo la curiosità non poteva che condurli, in quei
rari momenti, a cercare la sua presenza. Egli infatti pareva sancire
un misterioso patto e appariva quale un antico idolo peruviano, il
suo incarnato olivastro dava risalto agli occhi grandi ma spesso
socchiusi, infastiditi dalla luce. La bocca era sovente serrata in
un’espressione di disprezzo. La fronte era ampia e lucente e i
capelli neri la coronavano; le palpebre, quando non offese dai raggi
diurni, sotto i neri sopraccigli, si rilassavano e si aprivano,
lasciando scorgere il colore dell’iride, che non era nerastra, ma
chiara e fulva e macchiata di verde, con un alone cinereo.
Suggeriva
l’idea d’un Montezuma avvezzo a sacrificare vite sugli altari
delle piramidi, sacre a divinità sanguinarie. La rigidezza dello
sguardo sembrava tradire un profondo rimpianto e nostalgia per un
bene perduto o un amore inesplicabile. Nella statura mediocre, ma
protesa in atti nervosi per la tensione interna, era talora temibile,
sempre all’erta. Egli era circonfuso da un’aura di autorevolezza,
che stimolava a cercarne l’assenso o a contrapporgli un’azione
che in qualche modo potesse intaccarne l’orgoglio. Quel suo volto,
sia nel bene sia nel male, era un punto di riferimento cui ci si
volgeva con un moto spontaneo del cuore.
E
così, parlando, i giovani si voltavano verso di lui, ma non
ricevevano la risposta desiderata. Egli avvolgeva in digressioni o in
preamboli il deciso rifiuto del pensiero altrui, lo calpestava anzi,
sotto una maschera di falsa modestia, incolpandosi di scarso acume.
Perciò,
alla fine della passeggiata pomeridiana, tra gli ulivi e tra i lauri
e i canneti del vicino rivo a lato del percorso, lo salutarono
congedandosi, ed egli si trovò solo.
E
così da allora la vita scorse solitaria, per tutti gli anni della
giovinezza. Ma non avvertiva la solitudine. La ricchezza della
fantasia, gli orizzonti del mondo interiore non avevano confini,
erano vasti quanto l’oceano.
Egli
si recava spesso alla riva del mare, ove le onde irrompevano, e il
vento, gelido nell’inverno, lo scuoteva sino alle ossa.
L’agone
marino non aveva requie. Gli alitava contro il suo respiro sferzante,
una lama di ghiaccio. La massa plumbea s’agitava, pesante,
intorpidita dalla senescente stagione. Cavalloni s’avviluppavano in
spire serpentine e si struggevano sulle rupi sibilando e aprendosi in
un ventaglio di spume, subito risucchiate insieme ai ciottoli e alle
sabbie.
Ma,
nonostante anche per lui fosse prossimo il freddo e l’autunno della
vita, riusciva a rinascere insieme al flusso impetuoso della
primavera e ancora, chi sa però per quanto ancora, s’esaltava
nell’ardore dell’estate.
Così
egli pensava, nella propria solitudine, al suo corpo avido d’amore
che s’immergesse nel vasto abbraccio del mare, per la carezza della
madre marina, dell’amante marina, unito a lei come Peleo, a lei
devoto come Achille. Sentiva che le membra del suo corpo s’aprivano
come le scorze degli alberi eruttando resina nella primavera, e che
era veramente un albero abbarbicato alla terra, era quell’albero
che salutava sempre con lo sguardo, laggiù verso la montagna,
durante le sue passeggiate abituali.
Non
mai la potenza generatrice gli si era rivelata così forte, in tutta
la sua terribilità, come in quell’anno. Era egli quasi in preda a
un invasamento bacchico, a un’ebbrezza sensuale mai provata prima,
come se lo stesso Diòniso, tornato sulla terra, avesse voluto
scegliere per primo proprio lui tra i suoi misti.
E
nell’ardore dell’estate, puntualmente ogni anno, si recava sulla
spiaggia non lontano da casa sua e nell’ebbra freschezza del
mattino s’immergeva nel mare e s’inoltrava fra le spume, che un
tempo avevano cinto e carezzato le membra splendenti della dea sorta
dalle acque. E poi, riposandosi sulla spiaggia, contemplava la
distesa placida e luminosa delle onde che si avvicendavano
quietamente, morbidamente sulla battigia, e allora ricordava la
stessa scena ( quante volte vissuta ! ) di anni ormai remoti e
coglieva l’eternità dell’attimo.
Gli
si poneva allora innanzi un frammento di vita altrui, di quel Foscolo
che amava tanto. Esso diceva : “ Io cerco il mio cuore ma non lo
trovo più – Oh ! mia giovinezza ! “
Così
aveva scritto un giorno il poeta dell’eterna bellezza. E lo stesso
altrove aveva scritto :
“ O
voluttà madre della natura
Bella
Venere, …”
Quanto
aveva invidiato il sentimento profondo di quell’uomo prodigioso !
Sentiva di non esserne all’altezza, di essere immensamente più
basso e volgare, ahi, sentiva di non sentire, ma di essere tratto in
ogni direzione, e perciò distratto, da ogni sensazione, da
qualsivoglia lusinga dei sensi. La sua sensualità lo intimoriva, gli
dispiaceva. Ne coglieva la colpa.
Eppure
dentro di lui s’agitava non meno l’ardore della lotta,
dell’agone, della gloria, e quando alzava lo sguardo verso la
montagna, mentre camminava non lontano da casa sua, i suoi pensieri
volavano subito verso solari olimpi o nebbiose cime solcate dalle
folgori di Zeus e gli alberi si trasformavano in dimore di dei. E
sognava allora, quando il mare era in tempesta e il vento devastava
le colline e travolgeva le nuvole che s’inseguivano forsennate nel
cielo, sognava il cupo canto delle fanciulle guerriere planare sui
loro cavalli alati e inalzarsi come un inno sopra le onde vorticose.
Egli
udiva la voce profonda della natura che lo chiamava dalle vette
lontane, brillanti ancora di neve, dalla montagna sacra degli avi,
donde l’inverno franavano a valle enormi massi travolgendo selve di
pini. Laggiù, in un tempo remoto, colava sulle rocce il sangue dei
tori, offerto al tonante dio dei monti.
Sognava
allora la riva di un fiume. Intorno sotto i pioppi s’estendeva un
mosaico di piante multicolori, la corrente spumeggiava tra i sassi e
lanciava spruzzi e gocce d’acqua montana, le libellule svolazzavano
sopra l’acqua sfiorandola e soffermandosi sulle foglie di menta. I
fiori dei ranuncoli acquatici sorgendo a fior dell’elemento,
laddove il fiume stazionava in ampie conche, apparivano quali minute
sfere di cristallo, avvolti in bollicine d’aria, e accanto
galleggiavano le lenticchie palustri. E quando il fiume s’allargava
e si riposava in curve e dolci insenature sì da formare quasi un
lago, la luce del sole vi si specchiava liberamente, e il riverbero
delle acque, unendosi alla luminosità aerea, si versava sui fianchi
arborati dei monti, più vivamente rilucendo nelle zone spoglie e
rocciose, e così l’acque e le foreste parevano d’oro e gli abeti
meravigliose vampe ardenti. E la terra assolata ammutoliva nel vasto
silenzio di Pan.
Sulle
rive crescevano cedri giganteschi che protendevano le fronde sulle
acque mormoranti e adombravano larghe foglie verdecupo di piante
ignote dal fiore violaceo, profumato, schiuso come una coppa pronta a
ricevere la pioggia del cielo, alte canne ondeggiavano alla brezza e
nascondevano nidi di alati pescatori. Gigli variopinti, bianchi,
rossi ornavano il prato, mentre dove la corrente cessava e si
formavano piccoli porti d'acque quiete, le ninfee mostravano i fiori
bianchi e gialli accanto alle larghe foglie natanti. Ma più innanzi
il fiume precipitava per cascate aperte sull'abisso, e come
sprigionanti scintille dal colpo del maglio, le spume si frangevano
su rocce millenarie nell'urto incessante, fragoroso e possente,
quindi il corso scendeva inesorabile per canali maggiori e minori,
scavati nei macigni e qual fiume di lava incandescente si gettava a
capofitto di rupe in rupe fino a gorgogliare alla base della montagna
e a placarsi in un diverso e solenne cammino.
E
nella selva fitta, oscura e cieca si mise dentro, in segreti meandri.
Un'aria greve inumidiva i tronchi e si diffondeva l'odore della
vegetazione putrescente, quasi il sudore della foresta, e i vapori si
mescevano alla nebbia che s'estendeva sulla valle e che, ruotando su
se stessa, veniva inghiottita da un'apertura inattesa della roccia
muschiosa, e che, precipitando nel gorgo, si condensava sulle pareti
petrose in gocce pesanti come un balsamo. La grotta echeggiava, a
intervalli, di un mugolio rabbioso, un ruggito, proveniente
dall'oscurità. Seguiva un rantolo sommesso, un respiro minaccioso, e
l'immane belva usciva all'aperto in una luce opaca, sotto un cielo
plumbeo, foriero di tempesta. Gli occhi fulvi e lucidi risaltavano
nella penombra, colpiti dai raggi che penetravano fra le cime degli
alberi, simili a bagliori di fiamma, la pupilla si dilatava nell'ira,
e l'iride era un vortice di voluttà crudele. Il leone si posò
innanzi, immenso, con le fauci aperte in un ruggito, pronto a
dilaniare. Le zampe poggiavano sul suolo potenti, gli artigli protesi
come uncini.
II
Mai
come in quel periodo della sua vita egli era stato sorpreso e
catturato dalla brama d'amore. Più volte si era immerso nei sogni
dell'arte, ma ahimé sembravano non bastare.
La
vita intorno a lui proseguiva il suo corso nell'indifferenza ed egli
sentiva la propria solitudine e l'esclusione da un mondo cui non
apparteneva.
Era
dentro di lui una forza misteriosa che lo spingeva a procedere
nell'oscurità, nel deserto dell'esistenza, senza una ragione, senza
un qualsiasi fine, senza alcuna gioia. Sul suo volto si scorgevano i
segni dell'inquietudine, come una febbre che accendeva i suoi occhi
di un'acuta ansia. Il suo pensiero s'aggirava intorno alle macerie
dei sogni e vorticava ossessivo, ingoiando nelle onde melmose gli
estremi fiori dell'illusione.
E
immagini grottesche lo assillavano talvolta, figure di disfacimento e
di morte che si intrecciavano in una ridda ossessiva con delicate
forme di bellezza. Il ricordo di rari incontri, di visi amati, di
avventure amorose vagheggiate ma vissute tutte dentro di sé, di vite
sognate, tornava continuamente alla memoria e lo tormentava. Spesso
aveva la sensazione di avere smarrito la via, e di essere come una
nave che ha perduto la rotta nel mezzo di una tempesta.
Lo
tormentava il rimpianto di una vita irrimediabilmente trascorsa, e la
fuga di giorni lontani, vissuti nell'attesa. Nell'attesa di cosa, o
di chi ? Forse nell'attesa del momento in cui sarebbero stati
rimpianti, quando la vecchiaia, anche se lontana, pure si avvicina a
lenti passi e tutta la perduta giovinezza si circonda d'un benevolo
alone di luce. Allora si rivela il destino beffardo e trasforma i
desideri della giovinezza in occasioni mancate, cambiando
semplicemente nella vita il punto di vista e la prospettiva, ma il
resto, l'anelito e la brama, non muta.
E
poiché siamo uomini, inevitabilmente soggetti alla tirannia delle
speranze e delle illusioni, non rimane che arrenderci.
Tra
le illusioni quella che più tormentava Mauro era senza dubbio la
bellezza. La bellezza in quanto armonia e giusta proporzione,
raffinatezza delle sensazioni, elevazione del gusto artistico e del
sentimento. La bellezza delle linee, delle forme, dei colori e dei
suoni ha il potere di riempire l'animo umano di dignità e di nobili
aspirazioni, di trasformarlo in una persona sensitiva, attenta ai
fenomeni che la circondano, attenta a se stessa e al proprio modo di
essere, in un uomo proteso alla conoscenza e al miglioramento di sé.
E
insieme a questa aspirazione cresceva in lui l'ideale dell'eroismo,
della vita protesa a nobili azioni colme di gloria, in cui ogni
istante della giornata fosse consacrato ad energici gesti. Lo aveva
affascinato la fiera educazione di Giugurta, del giovane africano che
tanto aveva amareggiato i Romani :
“ … equitare,
iaculari, cursu cum aequalibus certare; et cum omnis gloria anteiret,
omnibus tamen carus esse; … “
E
distogliendo la pupilla dalla pagina illuminata, si era volto a
sondare l'oscurità dell'animo e aveva con disappunto scorto il peso
della propria ignavia e la tristezza dei tempi. In un secolo che
sempre più pareva preludere ad una riviviscenza dell'antica bestia,
egli s'avvedeva con mestizia della sua stessa desolazione. E, innanzi
all'assoluta nullità della propria esistenza, pensava agli eroi
defunti eppure immortali di un'umanità archetipica e irripetibile,
che si stagliava all'orizzonte della storia quale una stirpe di
giganti rispetto a un mondo di nani.
E
ricordava vagamente il mito di Platone :
“ Una
volta nata la discordia ciascun gruppo di razze divenne procacciator
di guadagno, quello di ferro e di bronzo ad ammassare denaro e
possesso di terra e di casa e d'oro e d'argento, mentre al contrario
quello d'oro e d'argento, poi che non era povero ma ricco per natura,
le anime alla virtù e all'antica costituzione traeva; … “
E
così pensava agli eroi omerici la cui unica ragion d'essere è
l'aspirazione alla gloria, la cui vita è tutta protesa al
conseguimento di essa, per i quali sia la ricchezza che il potere non
sono nulla se non si accompagnano alla gloria.
E
così pensava anche alla grandezza della patria e all'assoluta
fedeltà ad essa. “ O cittadini d'Atene, due qualità deve avere il
buon cittadino, perseverare nella scelta per la città della dignità
e del suo primato, e in ogni circostanza e azione nella lealtà. “
Così aveva scritto il grande oratore. E tutti gli uomini della
Grecia avevano anche sempre fatto a gara per la grandezza della
propria patria nei divini giochi di Olimpia e nelle altre feste degli
eroi.
Né
tralignava da quei grandi l'ultimo dei Greci, l'italiano Foscolo, il
quale aveva detto ai giovani : “ O miei concittadini ! Quanto è
scarsa la consolazione d'esser puro e illuminato senza preservare la
nostra patria dagl'ignoranti e dai vili ! Amate palesemente e
generosamente le lettere e la vostra nazione, e potrete alfine
conoscervi tra di voi, ed assumerete il coraggio della concordia; né
la fortuna né la calunnia potranno opprimervi mai, quando la
coscienza del sapere e dell'onestà v'arma del desiderio della vera
ed utile fama. “
Ma
volgendo lo sguardo al proprio tempo Mauro osservava sgomento il
trionfo dell'ingordigia e della stupidità e si chiedeva : “ La
patria è la terra dei padri. Si, ma quali padri ? “ Poi che più
non vedeva intorno a sé nulla che continuasse il passato, ma tutto
mutato irrimediabilmente e senza speranza.
I
discorsi degli oratori s'erano ormai trasformati in frasi fatte,
semplici e brevi per non offendere lo scarso raziocinio del popolo,
ormai impantanato nella mollezza e nelle comodità, preoccupato del
proprio cagnolino come una vecchia zitella. Ormai aveva davanti agli
occhi una massa di snervati Sibariti, schiavi dei piaceri più
volgari e dei passatempi più insulsi, una vera massa di poltroni.
E
la patria, la nazione, il popolo erano solo i nomi venerandi di
un'età passata, parole vuote buone per riempire la bocca di qualche
rètore annoiato o di ancora qualche filosofo invecchiato nelle
biblioteche.
Il
mondo era cambiato, era grande, unico, universale e magnifico. Era il
mondo globale dei consumatori, la società ideale a cui per secoli
avevano mirato le menti sublimi dei politici. Ormai era fatta, non si
poteva più tornare indietro.
Risaltava
su questo sfondo assai fosco la nobile semplicità e la quieta
grandezza dell'arte antica e delle statue dei Greci, la cui scoperta
entusiasmava ancora o perlomeno incuriosiva la folla dei selvaggi.
Questi
avevano ancora in sé un barlume di umanità, né avevano del tutto
dimenticato che esiste qualcos'altro oltre al brillare dell'oro, sì
che ben si addiceva il detto del poeta :
“ Que
la beauté du corps est un sublime don
Qui
de toute infamie arrache le pardon. “
Era
senza dubbio l'unico valore rimasto in tanta miseria morale e sebbene
l'estetismo non fosse mai stato considerato prima un fondamento
dell'etica, ora invece lo era, in quanto unico segno distintivo nei
confronti della bestia.
Il
regno della bellezza, il regno di Venere lo seduceva ormai, lo
accomunava nella sorte a Tannhäuser,
dividendo il suo animo fra tensioni opposte, fra inclinazioni spesso
nemiche fra loro : l'eroismo e l'amore. Ma ormai l'amore era divenuto
una sorta di eroismo, in tanta volgarità e mancanza di sentimento,
sì che poteva ben abbandonarsi all'abbraccio delle sirene nel loro
richiamo : “ Qui alle beate – Piagge approdate. “
Spesso
lo confondeva proprio il sogno musicale, ed egli s'immaginava immerso
nell'atmosfera dell' Hörselberg,
nella vasta grotta rischiarata da una luce fantastica.
Egli
osservava spesso, in fotografia, la Venere del Tiziano, detta
dell'Amorino. Quell'opulenza carnale lo traeva in un vortice di
desiderio profano, lo ammaliava, ma lo empiva anche d'una malinconia
profonda per la consapevolezza d'un mondo perduto di verde gaiezza,
per una sensualità ancora vergine di aberrazioni dell'istinto. E
naturalmente pensava anche a Misandra, la cui bellezza indubbiamente
più spirituale sembrava un ammonimento a non godere troppo dei
piaceri della vita senza tuttavia negarne l'incantesimo, che anzi
veniva aumentato dal suo fascino, come Calipso sapeva irretire i
naufraghi.
Ma
da molto tempo non ne aveva sentito più nulla. Ora però gli
giungeva notizia della sua presenza non molto lontano, nel convento
sulla montagna. Evidentemente era sfuggita all'incendio e si era
salvata all'insaputa di tutti.
III
Avvolto
in una nebbia azzurra il convento giaceva nella valle. Il vento
fresco del mattino recava da lontano i canti dei frati. Il sole
sorgeva tra le montagne, brillava tra gli alberi e le gocce della
rugiada cadevano dai rami sui nugoli di ali cristalline degli insetti
che si destavano al calore del giorno. Gli uccelli svolazzavano per
il bosco cinguettando. L'abetaia in quel luogo era fitta e solo qua e
là s'apriva, rotta da alte rupi.
Salì
a fatica su un'alta roccia e si pose a guardare.
Rinchiuso
fra due montagne nere, aride, circondate in tutta la loro altezza da
orribili precipizi e da abissi profondi, sulle cui vette le nuvole
erravano lentamente fra pochi alberi funebri dove sembravano sospese
sui loro sterili rami, il monastero s'allungava nero e rigido come
una bara.
Laggiù
l'attendeva. Era tornata, dopo tanto tempo. Come già in un tempo
lontano, ora lo aspettava ancora una volta, forse perché insieme a
lei potesse meglio ricordare. Scese dunque dalla rupe e s'avviò per
il sentiero attraverso la selva ombrosa qua e là avvolta ancora
dalle nubi dell'umida notte, che si diradavano, s'allungavano, si
disperdevano lentamente verso le alte montagne.
La
mole massiccia e oscura del convento si stagliava alta nel cielo.
Quattro grandi torri s'ergevano ai quattro angoli dell'edificio e un
imponente archivolto sormontava un enorme portone di legno cosparso
di borchie di ferro.
Mauro
percosse col batacchio una di queste più volte e aspettò. Venne ad
aprire un monaco, tutto coperto dal cappuccio, e come un'ombra,
scivolando lungo i corridoi, lo introdusse in un'ampia sala dove gli
fece il gesto di attendere.
Dopo
circa un quarto d'ora la porta in fondo alla sala cigolò, s'aperse
completamente, e lasciò scorgere una figura di donna. Costei
s'avvicinò, quindi entrando nell'alone di luce di un'ampia finestra,
mostrò il suo aspetto.
Era
lei, proprio lei, Misandra. Così la rivide dopo molto tempo. Ma era
sempre lei, più bella di allora, e la sua lunga chioma si distendeva
sulle morbide spalle senza un capello bianco. Il suo sguardo si
volgeva pieno di malìa verso Mauro, ma rimaneva stranamente freddo e
distaccato. Il ricco abito bianco le copriva per metà il seno e le
spalle, le ampie maniche a sbuffo le lasciavano libere le braccia.
Era sempre più bella e affascinante. Sul braccio reggeva un lungo
scialle nero, che usava evidentemente per coprirsi dinanzi ai monaci.
Era così bianca che il candore che la copriva si fondeva con il
pallore della sua carne, sotto il tenue raggio dell'aurora.
Avviluppata in quel fine tessuto che rivelava ogni forma del suo
giovane corpo, si sarebbe detta più il ritratto marmoreo d'un'antica
dea, che una donna viva. Ma, morta o viva, statua o donna, ombra o
corpo, la sua bellezza era sempre la medesima, solo il verde bagliore
del suo sguardo era lievemente smorzato, e la sua bocca livida. Si
fermò, poi disse con voce a un tempo chiara e vellutata :
“ Mi
sono fatta attendere molto. Ma sono dovuta venire da molto lontano,
da un luogo donde difficilmente si torna. “
Così
gli offerse le mani che Mauro baciò infinite volte, mentre ella lo
guardava con un sorriso indecifrabile.
Allora
ella estendeva le sue radici fino ai più profondi recessi della sua
anima. Egli si alimentava delle speranze e assorbiva il liquore
infuocato del calice delle passioni. E la vita, imperiosa e
implacabile, gli comandava d'inseguire le chimere del sogno e i
fantasmi del desiderio, a costo della disillusione e del dolore che
si presentavano sempre come la certa e inevitabile conseguenza.
Un
vivido raggio la illuminava ed ella risplendeva, quasi la luce da lei
emanasse invece d'esser riflessa, e pareva il sogno d'un pittore
inebriato di dolcezza. I suoi folti capelli bruni si distendevano
morbidamente sulle spalle in boccoli spontanei dai riflessi violacei.
Il suo petto si scopriva lievemente, candido e rosato, il giorno vi
si posava beato e vario come il raggio in un'acqua chiara.
Dopo
un ultimo sguardo intriso di rimpianti, Mauro si congedò da lei e si
recò in una delle celle riservate agli ospiti del monastero.
IV
Era
la notte profonda. La luna, alta e assisa nel suo regno misterioso,
assisteva col suo virgineo pallore, indifferente, reggendo nella mano
lo scettro della vita e della morte, posto presso l'anca candida e il
ventre donde hanno origine le creature destinate a popolare la terra,
immagini fugaci come i sogni per i quali vivono e muoiono.
Mauro
dormiva profondamente e la sua anima vagava nel sonno.
Un'arena
infuocata come le sabbie del deserto turbinava in un alito
soffocante, d'un fetore di putredine, e sopra un'isola rocciosa, al
centro d'una palude, s'ergeva un altissimo duomo avvolto in una nube
cinerea donde baluginavano bagliori di fiamma.
Un
rospo, uscito dalla fanghiglia, lo caricò sulla vasta schiena
scivolosa, i suoi occhi, immensi globi giallastri, apparivano a fior
della melma come fanali, annunciando la visita alla sentinella
bifronte, in attesa sulla torre più alta.
Le
tenebre d'una navata silente lo celarono fra le ombre, nei vapori
d'incenso che veleggiavano e si dileguavano. Un'irradiazione
smeraldina e a tratti lucida come la pelle del ramarro si ramificava
fra i colonnati erti quali tronchi di vasta selva e sopra ciclopici
macigni si slanciava nell'aria fra ali di nebbia un trono. E immobile
sopra il trono stava un vecchio dalla lunga barba. Intorno lunghe
coorti di figure nere salmodiavano, mentre si levavano nuvole
d'incenso.
Gli
occhi del vecchio erano rossi come il sangue delle vittime degli
antichi sacrifici, come il cerchio purpureo del sole nel tramonto.
Al
fondo dell'abside si elevava fra i turiboli fumanti una scala petrosa
roteando come una vertigine. Un canto s'udiva planare, come un volo
di gabbiani, dall'alto. Una luce intensa penetrava ora per le vetrate
del rosone e si smarriva oltre un forame nella rotta volta.
Ove
si perdeva la luce ? Dannata a vagare nella tenebra, un giorno essa
aveva sfiorato la guglia d'un duomo gigantesco, donde si poteva
mirare la vastità del mondo.
Oh,
il mondo ! Abitato da insetti incapaci di volare, scarabei proni a
incrementare l'ammasso dei propri escrementi !
Dove
fluiva il vasto fiume d'oro ? Aveva avvolto le vette delle montagne,
rapito dalle gocce della pioggia per le fessure delle rocce erose
dalle tempeste, fino alle caverne, dove muggisce il respiro della
terra.
La
donna si era rifugiata, risvegliando le torme dei pipistrelli
frenetici, bianca di luce, nella caverna. Ella illuminava le pareti e
le stalattiti col suo candore e gli angoli bui, ridesti a una luce
sulfurea. S'adagiò nuda fra le rocce scanalate, levigate e quasi
trasparenti. Un alone caldo, come il riverbero del focolare,
l'attorniava, emanato dalle pareti ove fluttuavano le onde riflesse
del ruscello.
Il
corpo di lei palpitava alla carezza delle correnti che s'insinuavano
e volteggiavano su e giù per le spaccature della pietra, il suo
anelito si smarriva, tiepido, sotto l'ampia volta umida. La sua pelle
era lucida e liscia come ambra rosea, appena si scorgeva la tenue
sfumatura di qualche sottile vena verde.
Il
suo corpo eburneo risaltava sul fondo indiscernibile talvolta con
rigidezza ieratica, i suoi occhi a tratti s'illuminavano d'ebbrezza,
due fiamme verdi.
Si
udiva il rombo del mare che muggiva come il toro che un tempo rapì
Europa sul dorso fremente, mentre la luna dardeggiava con le sue
lunghe corna di demonio.
La
grotta fu invasa da un flutto di lume rossastro che disvelò le
pareti in una viva carne, un nitrito dilaniò l'aria intorbidata. Un
grande cavallo rosso, quasi uscito da un lago di sangue, irruppe fra
le rocce, inarcando il forte collo su cui ardevano i crini. I suoi
occhi sprigionavano una tensione febbrile nell'iride cangiante tra
bagliori indefinibili. Pareva la minaccia d'uno spirito solitario,
escluso dalla vita degli altri, che vaga selvaggio e vendicativo nei
meandri dei boschi iperborei o nei deserti fenduti dalla vampa
implacabile d'un sole ostile.
Disparve
la visione, il sogno s'interruppe e Mauro si risvegliò nella luce
rosata della nuova alba.
V
Presto
bussò alla porta un monaco che si mise a disposizione di Mauro per
l'intera giornata.
Era
alto, quasi nascosto dal cappuccio, solo s'intravedeva la punta d'un
grosso naso aquilino nell'ombra del volto.
Dapprima
visitarono l'immensa biblioteca, i cui scaffali invadevano le pareti
sino al soffitto.
Verso
l'alto un'ampia vetrata, investita dai raggi del sole, illuminava
l'ambiente.
Il
monaco informava Mauro sui più preziosi manoscritti che poteva
consultare, e la sua voce si perdeva nei meandri della sala, fra i
mobili carichi di libri polverosi. I volumi massicci ornati di
rilegature dorate attiravano lo sguardo, ma nel contempo lasciavano
Mauro confuso, stupefatto, smarrito in una crescente vertigine.
L'uomo parlava, sibilava, assordava, il suo eloquio pareva una
corrente vorticosa che fluisse incessante per la stanza immensa.
Si
diressero verso il giardino.
Al
centro di esso un'antica fontana di marmo, segnata dal tempo,
lasciava scaturire il suo mormorio quasi una melodia misteriosa, come
l'echeggiare d'un canto lontano, come un ricordo improvviso e
struggente.
Intorno
al bacino sorgevano diverse piante, proprie dei luoghi umidi, dalle
foglie gigantesche. C'era un cespuglio che reggeva una profusione di
fiori porporini chiari come gemme, altrove un altro cingeva nel suo
seno piccoli fiori azzurri.
Molti
vasi qua e là mostravano la loro antica presenza, venati talvolta
dall'impeto delle radici, e spesso ornati di rilievi, di intrecci di
serpenti mitologici, di volti di Meduse.
Pergolati
coperti di edera facevano una piacevole ombra e tutto il suolo
intorno alle aiuole e il passaggio era disseminato di pietruzze
bianche e rosate che scricchiolavano sotto i piedi.
Il
monaco era scomparso. Mauro si ritrovò solo nel giardino. E allora
scorse Misandra.
Camminava
lentamente, con un'andatura stranamente un po' rigida, e accarezzava
con la lunga veste i fiori che spuntavano dalle aiuole. La sua chioma
ondeggiava al venticello e si posava sulle morbide spalle e sulla
nuca lucente e bianca. Sembrava l'immagine irraggiungibile d'una dea,
l'icona inviolabile della bellezza, plasmata dalla mano d'un mago. I
suoi occhi, dal colore cangiante a seconda della luce, si fissarono
su Mauro. Ella lo guardò a lungo, quindi sorrise velatamente. Poi si
dileguò dietro un alto e frondoso albero, che cresceva presso il
muro del giardino.
La
mente di Mauro aveva preso a vagare nei meandri della fantasia, ma
non tanto da non scorgere dietro l'albero, una volta avvicinatosi,
una porta nel muro, circondata dall'edera. Si accorse che era stata
appena accostata, quindi l'aperse e si ritrovò all'inizio d'una
tortuosa discesa nel buio.
A
tastoni e dopo molti gradini giunse in una grotta.
Una
forma candida di donna si stagliava sotto la volta ombrata e giaceva
in un divano. Ai lati un alto recinto di rame modellato in intrecci
floreali offriva l'appiglio ad uccelli dal piumaggio variopinto, a
psittaci crestati, a fagiani regali. Ai suoi piedi due grifoni
sommessi aleggiavano. E come Mauro si avvicinò, la vide coricata
sopra stoffe di raso ricamato in trame d'oro, e la sua nudità era
solo velata dalle ciocche della chioma violacea, della quale egli
coglieva il sentore raro e selvaggio. Il suo corpo era mutevole ambra
che ora riluceva di luce marmorea, ora era irradiato d'un colore
fulvo, ora quasi si dissolveva in un'aura di glauco vapore. Così gli
appariva, avvolta dai giochi di luce nella penombra, ed intorno nelle
nicchie della grotta erano deposti disordinatamente rotoli di magiche
scritture, opera di qualche saturnio archimago, che insegnavano le
arti sublimi della felicità. In alambicchi e fiale e in coppe dorate
era il liquore dell'eterna giovinezza, l'elisir tanto ambito. In
volumi polverosi era racchiusa tutta la scienza d'Amore, e segreti
terribili erano celati in formule arcane. Di fronte a lei v'era un
grande specchio, ricoperto da un drappo rosso.
Così
nell'ombra, dove ondeggiavano fluide luci d'estati ormai fioche nella
memoria quali lumi siderei, ella appariva splendida, la dea della
luna vestita d'argento, nel fulvo fiume del tramonto. Pareva
specchiarsi come Diana sul mare quando sporgeva il viso sovra la
fonte, in una cavità nel suolo della grotta, tinta da rocce
smeraldine. E nel verde splendore della conca profonda giaceva
incantata. Vedeva mondi inaccessibili e le costellazioni perdute nei
sogni, e trascorreva le notti mutevole come cangianti languori di
luna.
Misandra
levò dallo specchio il rosso manto e apparve una pianura florida di
pomarii, di boschetti odorosi e di ombrose riviere. Fra questi
trottavano o brucavano l'erba liocorni dalla criniera lanuta,
dall'acuto corno d'avorio, dal collare d'oro guarnito di campanelle
che tinnivano ad ogni minima movenza. I loro occhi azzurri
rivolgevano le pupille caprine, lucide di devozione, a donne
bellissime che erano in un querceto, alcune giacenti sul prato, altre
a passeggio e a cogliere fiori.
Un
rivo ciarliero si tuffava nelle acque d'un laghetto limpido, ove
intatte conchiglie spuntavano dalle sabbie e sporgevano punte di
scoglio come minuscoli isolotti intorno a cui tremolava l'onda
scintillante, che giocava a sollevare i lunghi filamenti di alghe,
fini come capelli.
Presso
il fonte si colmava le mani la fata Eliana, in abito d'argento, e le
apriva lentamente facendo cadere una luminosa cascatella frusciante.
Mirinda, adagiata sul praticello, beveva la rugiada dal calice dei
fiori, accarezzando gli unicorni, i quali dondolando ritmicamente le
code flabellavano i gelsomini e i giacinti. Dietro il tronco d'una
quercia la vaga Melusina si guardava le squame, mutata la pelle in un
involucro cupreo che assorbiva il vermiglio fluttuare dell'aria,
conscia ormai della sua metamorfosi, al venir della luna, nel vello
lubrico. Grasinda pettinava le fluenti chiome bionde, prossima a
flettersi in figura di cetra, e i filamenti le si attorcevano alle
esili dita dei piedi rosei, chiudendosi in raggianti anelli minuti.
Oriana in un mortaio preparava misture d'erbe magiche, e pronunciava
formule arcane, per propiziarsi gli spiriti erranti nel plenilunio.
Con
un sorriso malizioso Misandra ricoperse lo specchio e ogni visione
scomparve. Quindi prese per mano Mauro e lo condusse per corridoi
appena illuminati a un'alta porta di bronzo. La toccò appena con le
dita che questa s'aperse e lasciò scorgere un'immensa pianura di
fiamme. Oltre il campo di fuoco la tenebra dominava incontrastata. E
sopra non era il cielo stellato né il volto pallido e stupito della
luna, ma uno spazio gelido e vuoto senza fine, un baratro
indiscernibile senza fondo. Il bagliore provocato dalle fiamme
riversava una penombra sazia di vapori di brace e nel vago lume
verdastro Mauro poté scorgere, sorpreso e sgomento, un teschio
eburneo e luccicante che roteava arrestandosi un istante per poi
ricominciare. Seguiva un percorso scandito dai battiti del tempo
intorno a fosse quadrate e scure quali pozzi di sentina, donde
esalavano miasmi ammorbanti. A migliaia le buche putride costellavano
la terra buia e ne uscivano lunghi vermi bianchi che strisciavano e
saltellavano a scatti. E parevano avidi di nuovi cadaveri e
accorrevano in massa, una torma biancastra, lucida e tremolante,
verso un gruppo di donne scarmigliate, danzanti attorno a un capro
bruno, dalle ritorte corna rosse. Le magiche baccanti rovesciavano
sopra i vermi, traendolo da un colossale paiolo bollente, un unguento
fetido. E in poco tempo avveniva la metamorfosi. Il verme si
dissolveva e larve di uomini e donne salivano dalla terra, spronate
dal tirso delle maghe, che, volando sopra loro, le abbagliavano con
giochi di vetri colorati. E una torma illimitata saliva dalla terra,
di vite future, di infanti che presto avrebbero udito la voce della
madre. Procedevano quali onde spinte da Libeccio, accalcandosi le une
sulle altre, urtandosi con i piccoli gomiti, scalciando irritate da
ogni lato. Una fretta imperiosa le assillava, le spingeva, anche se
gracili e deboli, alla prossima carriera della vita.
Un
miraggio di architetture bizzarre ergentisi a capriccio dinanzi a un
sole crepuscolare, come nuvole inalzantisi al cielo, come guglie
illustrate dai raggi violacei e talora violenti quasi scatti d'ira
dell'astro restio a scomparire oltre l'orizzonte, come un sogno di
castelli nei cieli incantati delle fiabe, si smarriva nelle
profondità dello spazio, misterioso oceano senza rive.
Davanti
all'astro, che si dipartiva da questa vita, un'altissima torre
incombeva a precipizio sull'insondata voragine dell'oscurità e
pareva attraversata nelle sue volute vorticose da bagliori più
rapidi del pensiero.
Occhi
di miriadi di teste mozze la pervadevano scintillanti, riflettendo
l'ultima luce, e s'aprivano e si chiudevano ininterrottamente, su,
su, fino a perdersi nelle altezze irraggiungibili.
E
gli embrioni di vite future si allontanavano nella vasta pianura fra
i vapori delle nebbie, simili a stormi di neri alati sotto una
distesa di nuvole bianche qua e là trapassate da fasci luminosi, che
aprendosi si confondevano nel mare.
La
porta di bronzo si chiuse. Mauro volse intorno lo sguardo e si vide
in un'ampia caverna, illuminata da torce fumanti. La cavità era
umida e nel suo vasto giro cinta di nicchie, il soffitto concavo era
occupato da una ragnatela simile a un lieve e mobile cortinaggio,
alcuni pipistrelli s'agitavano da una parete all'altra.
Un
lieve lamento all'improvviso catturò la sua attenzione. Veniva da
una delle nicchie. Egli s'avvicinò e notò che al di là della
stretta apertura s'apriva un'ampia stanza. Una luce fioca ed argentea
permeava del suo pallore l'ambiente. Sul pavimento sconnesso era
cresciuto uno strato di muschio e attorno si scorgevano figure
d'affresco, nonostante la muffa, sirene volteggianti fra le onde,
mentre una mano ignota cercava di afferrarne le chiome fluitanti e
rilucenti di raggi d'oro. Ma da una parete un lupo gigantesco con le
fauci aperte e gli occhi di fuoco sembrava pronto a balzare sulla
preda e a farne scempio.
Nel
centro della sala sopra un lungo tavolo nero era legata una povera
fanciulla che gemeva pietosamente. Un raggio di luna, che filtrava da
un pertugio in alto rischiarava come luce fioca negli abissi marini
una bionda capigliatura arruffata intorno a una fronte imperlata di
sudore e un viso bellissimo ma stravolto dall'angoscia, gli occhi
azzurri, come il cielo limpido sulle alte montagne, fissavano pieni
di terrore qualcosa di invisibile su di lei.
Dov'era
Misandra ? Egli ora la cercava, contagiato da un'ansia
inesprimibile. Ma la donna era scomparsa. E mentre si voltava
intorno, ecco che una belva nera dagli occhi di fiamma balzò sulla
vittima legata e le si attaccò al collo con le zanne sibilando.
Terrorizzato
e sconvolto dall'orrore, Mauro uscì precipitosamente dall'avello e
nel buio cercò spasmodicamente la scala che sola gli consentiva
l'uscita.
Fortunatamente
i suoi piedi urtarono nel primo scalino, ed egli iniziò la salita
verso la libertà, più velocemente che poté. Quando ormai aveva
quasi raggiunto la porta d'ingresso, resa visibile dai raggi del
giorno che entravano per la fessura del battente, sentì dietro di sé
l'anelito pesante e ardente del mostro, e folle di paura si slanciò
fuori con un balzo, quindi chiuse la porta spingendo con forza.
Questa rimase come sigillata anche senza saliscendi e Mauro traendo
un sospiro di sollievo si trovò di nuovo nel giardino del convento.
VI
Un'ala
del monastero era impenetrabile, e solo un massiccio portone sembrava
poter concedere l'accesso a chi ne avesse avuto la chiave. Tuttavia
al di là dell'alto muro di cinta sormontato da affilate punte di
metallo, si udivano talvolta delle strane voci, che certo non davano
l'impressione di essere né maschili né tanto meno di monaci.
Una
sera Mauro passeggiava nel giardino e osservava malinconico il
tramonto fra le montagne che imporporava della sua luce morente le
pendici boscose, le valli e i dirupi, quando scorse improvvisamente
una figura leggera di donna quasi volare nella sua corsa furtiva
verso il portone dell'ala misteriosa.
Con
il solo tocco della mano la donna aperse il portone ed entrò. Mauro,
notando che questo non si chiudeva ma restava spalancato, entrò pure
lui.
Si
ritrovò in un altro giardino colmo di piante d'ogni tipo e di fiori
che impregnavano l'aria del loro profumo. Qua e là fra i lauri
v'erano cespi di rose, ma al centro troneggiava un'immensa agave il
cui scapo s'inalzava con le sue corone d'oro a cogliere i raggi
purpurei.
Vicino
all'agave colpì la sua attenzione un lucore roseo e Mauro notò che
si trattava di una lapide di marmo illustrata dagli ultimi raggi del
giorno.
Si
avvicinò e lesse :
“ Qui
giace Misandra d'Ormengo
figlia
di Diana, morta nell'incendio
dell'anno
millenovecentonovantaquattro.
Requiescat
in pace “.
Rimase
alquanto turbato. Dunque Misandra non era più. E allora colei che
gli era apparsa chi era ?
Un
rumore proveniente dall'interno del chiostro lo sottrasse ai suoi
dubbi ed egli si diresse verso quel luogo. Cominciava a distinguere
un lamento di voci femminili che si perdeva nel buio dei corridoi e
risuonava sotto l'ampia volta, un lamento variato da voci
diversamente intonate ma tutte sorte a suscitare la pietà dal
profondo dell'animo.
La
stanza da cui giungeva quel misto di gemiti e pianti era in fondo
all'edificio, Mauro vi si diresse guidato dall'udito.
Giunto
sulla soglia vide una scalea smarrirsi in un complesso di archi
rampanti, di logge e colonnati, per i quali una folla di fanciulle
discorreva suonando su magici strumenti incantate armonie.
Non
dunque gemiti e lamenti ma suoni misteriosi e magiche melodie lo
avevano attratto, o così gli pareva, poi che aveva superato quella
soglia.
Giovani
donne bionde dalle vesti purpuree trapunte di fili d'argento
lanciavano tra loro una sfera dorata che ruotava leggera nell'aria,
una fanciulla si allontanava tra le colonne come in una foresta, la
veste si sollevava lievemente sopra i piedi rosei, che sfioravano il
suolo. E pareva anche che la circondasse il profumo di tutti i fiori.
Altre suonando arpe e liuti indossavano un candido peplo e avevano le
chiome intrecciate e coronate di lauro e un nastro di seta stringeva
loro la veste sotto il seno. Ed una di esse, la più splendente, dal
viso ambrato, dall'iride del colore dei capelli castanei e fulvi come
fili di rame, dal formoso aspetto, gentilmente gli si appressò,
reggendo nella sinistra uno scettro d'oro. E trasse Mauro sino al
lembi estremi della foresta di colonne e d'archi, umidi di nebbia e
di vapori mossi dal venticello.
Sulle
onde d'un lago sorgeva un castello, intessuto delle esalazioni e
delle nebule che veleggiavano sopra la ferma distesa. Era un miraggio
di vortici e correnti che erige la forza dell'estate, come un
labirinto di sogni sullo specchio dormente delle paludi.
Si
sentì una mano sulla spalla, voltandosi vide Misandra che gli
sorrideva affabilmente. Quindi lo condusse tra le colonne sino ad un
cerchio formato da grandi vasi dai quali esalava un fumo acre e
inebriante e intorno stavano sette giovani donne dall'aspetto
avvenente e tutte al di qua dei trent'anni.
La
più giovane doveva avere circa sedici anni, era alta, formosa, con i
biondi capelli sciolti morbidamente sulle spalle e gli occhi azzurri
e splendenti.
La
seconda sui vent'anni era minuta e graziosa, dagli occhi piccoli e
maliziosi e una corta chioma nera.
La
terza era molto carina, ma aveva un viso sfrontato avvezzo a ridere
sguaiatamente.
La
quarta, bionda e forse appena trentenne, aveva forme molto
pronunciate, un dorso imponente e larghi fianchi.
La
quinta, dal viso ovale e triste, era pallida e magra e sembrava
propensa alla malinconia.
La
sesta era bruna e olivastra, con folti capelli ricciuti, un corpo
atletico e nobile e uno sguardo penetrante.
La
settima era una rossa, dall'espressione sarcastica, dalla pelle
bianca come latte, l'attitudine sciolta e propria al movimento.
Erano
dunque queste le vere abitanti del luogo e quanto aveva prima veduto
altro non era se non il prodotto di quel vapore ingannevole. Mauro
però non sapeva spiegarsi perché stessero in quel luogo, né il
motivo di quella magica seduzione.
Esse
attorniavano Misandra con sguardi languidi da innamorate e parevano
da molto tempo unite in una comunità di sentimenti e in uno scambio
di complici sensazioni, e sembravano aver bevuto reciprocamente le
lacrime di notti solitarie e i rimpianti di vergini infeconde.
Avvinte da un'oscura brama d'amore, stavano ai suoi piedi, schiave
dei suoi voleri.
Intanto
una di esse, la rossa voluttuosa e maligna, prese un libro rilegato
in marocchino, dai fregi dorati, e cominciò a leggere ad alta voce.
E,
come ebbe letto, s'abbracciarono fra loro le fanciulle e sognarono le
lontane distese del mare attorno a un'isola cinta d'echi amorosi e di
languidi piaceri, e contemplarono il loro corpo virgineo, che ormai
vellicava il pallore lunare, come candido marmo.
Chi
di loro quella notte sarebbe stata offerta a Misandra ? A chi
sarebbe toccato l'onore di versare il proprio sangue ?
Misandra
attendeva presso la più giovane con occhi ardenti, come un forte
animale che sorveglia la sua preda, dopo averla segnata con gli
artigli. Superba ella aspirava voluttuosamente il profumo del suo
trionfo che sarebbe stato versato come vino ardente, e si protendeva
verso di lei quasi a cogliere il dolce dono.
VII
Il
giorno dopo egli ricordava vagamente, o meglio era quasi convinto di
avere sognato. Era diretto verso la foresta non lontana dal convento,
tratto da un sentimento di malinconia e da un bisogno di solitudine.
Procedendo
di buon passo si trovò ben presto in un vallone in mezzo alle rocce
dove scorreva un ruscello le cui piccole onde spumeggiando
esprimevano mormorii gioiosi.
Era
un luogo selvaggio chiuso tra due ali di rupi e di scoscendimenti
rocciosi, il cui minaccioso aspetto veniva mitigato da una profusione
di cespugli d'un verde intenso e variamente coronati di fiori. Una
moltitudine di sassifraghe spuntava dalle rocce e contribuiva così a
donare alla valle un abito di rosea gaiezza.
Ma,
mentre i raggi del sole giocavano tra la vegetazione illuminando le
pareti calcaree e grigiastre, in mezzo alla valle sopra un'eminenza
rocciosa sorse come un'ombra una strana figura.
Immobile,
rigida, volgeva lo sguardo verso la corrente spumosa, scintillante di
luce, e il venticello le agitava e sollevava un poco la lunga veste
nera.
Avvicinatosi,
Mauro vide la donna bellissima, la cui fronte splendeva di una
luminosità pura, eburnea, come di cera, e i capelli, di colore
bruno, scendevano morbidi sulle spalle, gli occhi brillavano, grandi
e profondi e in essi l'iride mutava a seconda dei raggi che la
colpivano, intessuta di tre colori, una tinta scura verso il centro,
un alone castano chiaro e quindi un cerchio grigio. Egli,
affascinato, osservava quel viso così puro nelle sue linee, nelle
fattezze, così femminile nell'ovale della forma, e restava stupito
per la strana somiglianza che aveva con il suo volto, che, sebbene
più rude, pure ne manteneva l'impronta.
La
bocca di lei era lievemente intesa a un sorriso, che non era di
amabilità, ma di serena e sovrana indifferenza. I suoi occhi erano
profondi, ma freddi come la calma dei mari settentrionali, pervasi
dai ghiacci. Un orrore arcano si nascondeva dietro la sua bellezza e,
distinguendola dalla miriade delle donne mortali, le conferiva il
supremo e assoluto segreto dell'amore.
Era
dunque Misandra, colei che ora vedeva con sorpresa, ma in un
atteggiamento inconsueto, in tale immobilità !
La
donna mosse lievemente il capo, o così gli parve, e lo fissò
gelidamente.
E
allora come in un sogno egli scorse dietro di lei una prospettiva
illimitata di piane e di riviere serpeggianti e di rupi solitarie e
di ponti sovra precipizi e di selve nere sfiorate dalla pallida luna,
e l'occhio vi si perdeva e la fantasia volava come Astolfo sul carro
dell'Evangelista. E il sogno lo rapiva in un oblio senza confini, e
il tempo e lo spazio si diradarono quali nebbie fugate dai venti, e
il grande specchio della memoria lo inghiottì come un vasto oceano.
Restò
qualche minuto incantato e silenzioso. Poi si avvide che la donna non
mutava atteggiamento né gli rivolgeva la parola. Piano, piano si
mosse e con movimento rigido e meccanico iniziò a dirigersi verso il
folto della vegetazione, dove ben presto Mauro seguendola scorse in
una parete di roccia l'ampia entrata d'una caverna.
L'interno
era illuminato da torce e una lunga galleria pareva condurre sino
alle viscere della terra. Ma a un certo punto egli perse di vista la
sua momentanea guida e continuò a percorrere il corridoio, finché
giunse a una porta che introduceva direttamente nel cortile del
monastero.
Senza
essere notato, Mauro tornò nella cella che gli era stata assegnata,
e qui cominciò a riflettere sullo strano incontro.
VIII
Già
un'altra volta si era innamorato di Misandra. Ma era vero amore ? O
non era piuttosto un desiderio vago e vano d'innamorarsi, unicamente
dovuto alla noia ? Egli sapeva di essere avvinto dalle immagini, di
essere mutevole come la luna o come le onde del mare. Aveva mai amato
veramente una donna ? La risposta sincera l'aveva nel cuore, ed era
no. Ed ora di fronte a quella strana icona, il suo cuore era rimasto
stupito ed estatico. Aveva visto attraverso di lei in un baluginare
di luci, uno squarcio sull'infinito ch'era in lui stesso. Si era
meravigliato, perché in realtà non si conosceva.
L'amore
era stato per lui soltanto come lo specchio per le allodole, frantumi
di specchio insidiosi e tormentosi, talvolta una vera tortura, ma
sempre e solo specchi. Non era mai riuscito ad andare al di là della
superficie. E del resto, che cosa c'era al di là della superficie ?
Proprio niente. Tardi, e certo ormai disincantato, si rendeva conto
che l'essenza dell'amore è la semplice riproduzione degli individui,
cercare qualcos'altro è appunto mera illusione. Ormai accoglieva con
una sorta di rancore la lusinga delle donne, che, strano a dirsi, pur
col passare degli anni si faceva più insistente. Questa illusione
era davvero un crudele e inutile tormento. Eppure non poteva
sottrarsi ad esso, non poteva fare a meno di torturarsi. Era davvero
una triste situazione la sua, triste e senza uscita.
Misandra
sorgeva ancora dinanzi ai suoi occhi come l'ideale dell'adolescenza,
l'unica età della vita nella quale si ama veramente, d'un amore
puro, assoluto, incantato, l'amore che basta sognare per essere
felici.
Egli
s'avviava a diventare un sacerdote di Venere e delle Muse.