sabato 23 novembre 2024

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Iljìc

 

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Iljìc. Padre Sergio, Santarcangelo di Romagna, Rusconi, 2014


La morte di Ivan Iljìc (1886)


Pjotr Ivànovic è il tipico borghese ligio alle proprie abitudini di uomo superficiale dedito ai piccoli piaceri di una vita confortevole. L’incontro con la salma di Ivan Iljìc nella camera mortuaria gli desta soltanto un senso di fastidio. Così trascorre il funerale di Ivan Iljìc come una vuota formalità, anche nell’atteggiamento della vedova, preoccupata soltanto del prezzo della tomba e del costo delle esequie. E questa premessa fa da introduzione al racconto della vita del defunto, vita che sin dai primordi appare d’una mirabile ovvietà e banalità borghese.

Nella rievocazione della trascorsa esistenza di Ivan Iljìc si pone in risalto il suo anelito alla carriera, la sua ambizione a raggiungere uno stipendio di cinquemila rubli, per realizzare una vita “secondo il suo vero carattere di amena giocondità e di decoro”. Sennonché questa vita, una volta raggiunta la prosperità familiare, si muta dapprima in una alternanza di noia e di banalità e poi, con un piccolo incidente domestico, una caduta da una scaletta usata per sistemare delle tende, in una progressiva inquietudine.

L’inquietudine trova la sua giustificazione nella crescita di un dolore al fianco, nella irritabilità del non più sereno Ivan Iljìc, che decide di recarsi dal medico. Nello studio del dottore ha la rivelazione, sebbene più intuita che manifesta, di una malattia dai contorni non ancora definiti. Ma l’immagine del male è destinata a diventare più nitida e più minacciosa. E così egli si strugge al pensare allo strano dolore che lo perseguita ad ogni istante e non lo lascia mai in pace. La sua esistenza ne viene avvelenata e più egli vi pensa più il dolore aumenta e la virulenza della malattia. Egli osserva i familiari e gli amici e ricorda d’essere stato come loro, sano e spensierato e superficiale nella visione della vita. Ora invece sente di essere diverso e che la vita non è un sentiero contornato di rose.

Il decorso della malattia viene riferito con estremo realismo, così come l’evoluzione psicologica del malato. Il male è mortale e nonostante le promesse dei medici, Ivan Iljìc si rende conto di essere condannato. Alla fine la sua coscienza gli presenta il dilemma più straziante : è vissuto come doveva oppure tutta la sua vita è stata un errore ? Le sue preoccupazioni borghesi, l’ambizione di far carriera, il successo in società, tutto si manifesta per quello che è, un nulla. Conscio di aver vissuto nell’errore, Ivan si illude ancora confessandosi e comunicandosi negli estremi atti della fede, ma anche questo è una vana consolazione. Da ultimo ha l’improvvisa rivelazione di una luce che lo attende in fondo all’oscurità. Finalmente liberato dalla sofferenza si affida grato alla morte.


Padre Sergio (1890)


Il bel principe Kassàtskij in seguito a una delusione d’amore si fa monaco. Era ufficiale dell’imperatore, ma appunto la sua fidanzata, nel momento della sua dichiarazione, gli rivela di essere stata (e lo era ancora !) l’amante dello zar. In preda allo sdegno s’immerge nella disciplina della vita monastica, che sostituisce quella militare, nella quale eccelleva.

Ma le tentazioni del mondo e soprattutto quelle della carne lo tormentano, insinuandosi a poco a poco nel suo animo. Si sente un fondo di scetticismo illuminista nella scarsa fiducia delle possibilità umane di dominare completamente gli istinti. Si ricordi La monaca del Diderot, ma vi è anche un alone di quella morbosità decadente e un po’ compiaciuta che si incontra nella Taide (1890) di Anatole France (il monaco Pafnuzio) e nella novella di D’Annunzio Frà Lucerta (in Terra vergine, 1882).

L’opera di Tolstoj fu pubblicata nel 1912, ma già composta dal 1890, sicché può dirsi se non un modello per gli scrittori citati, senza dubbio analoga nello spirito e testimone d’una stessa temperie culturale.

All’inizio sembra vincitore sulle tentazioni della carne in un esito eroico e magnanimo, ma un semplice e inaspettato episodio mina l’edificio ascetico di virtù e rinunce che egli si è costruito nel tempo. Così il santo eremita cade nell’abiezione e, conscio della sua condizione di semplice peccatore, si umilia riducendosi a mendico e recandosi da una vecchia conoscenza, una povera vedova, che lo accoglie meravigliata. A lei confessa la propria caduta, umiliandosi come il più misero dei peccatori, ma è proprio nella disgrazia che si avvicina alla verità dell’esistenza umana.

Il principe divenuto eremita nell’ansiosa ricerca di Dio compie l’ultima metamorfosi e si trasforma in pellegrino vagabondo, finché arrestato viene mandato in Siberia. E qui, servo di un ricco contadino, nell’anonimato raggiunge la semplicità evangelica.


venerdì 1 novembre 2024

Addio ad Euridice

 

For Poesy ! - no – she has not a joy, -

At least for me, …

(J. Keats, Ode on Indolence, IV)


Come nell’incarnato del tramonto

muore la fiamma del giorno,

così si dilegua nel cuore

ogni speranza delle tue visioni,

noncurante fanciulla del futuro.

Perché svanisci quando la luce

si fa più acuta e sfreccia nelle tenebre ?

Ora davvero potrebbe essere il giorno,

senza menzogna, senza morte,

primo della tua vita.

Ma tu volgi ancora gli occhi

altrove,

né io ti posso guardare;

ti bacio la mano in silenzio,

mentre il respiro della cenere

si spegne lento nel crepuscolo.






martedì 29 ottobre 2024

Federico Faggin e la nuova metafisica

 

Federico Faggin, Irriducibile, la coscienza, la vita, i computer e la nostra natura, Milano, Mondadori, 2023



P. 4, importante nella prefazione il cenno alla filosofia perenne (cfr. Coomaraswamy, Induismo e Buddismo, Milano, Rusconi, 1994, p. 5).

P. 8, 9, quanto l’autore afferma, concorda con la concezione di Bergson, solo che, pare, Faggin non ne ha conoscenza o lo ignora volutamente. Il fatto, a mio parere, è che Faggin non ha una formazione filosofica, ma eminentemente scientifica, il che nulla toglie al grande valore del suo messaggio. Egli dice in particolare :


l’evoluzione dell’universo parte da enti coscienti dotati di libero arbitrio che emergono da Uno. Uno è un Tutto, sia in potenza che in atto, irriducibilmente dinamico e olistico, che vuole conoscere se stesso per autorealizzarsi. Uno è fatto di parti-intero, inseparabili e in continua evoluzione che da Lui emergono e che comunicano tra di loro per conoscere se stesse. Nel conoscere se stesse, esse realizzano l’intenzione e lo scopo comune. Pertanto c’è un divenire nell’universo, e il futuro non è assolutamente predicibile, nemmeno da Uno.


P. 14, per esperienza personale l’autore comprende che la sostanza di cui è fatto tutto ciò che esiste è la coscienza, sostanza incorporea che va oltre la materia. In questo egli è perfettamente in linea con quanto afferma Bergson (L’evoluzione creatrice, Milano, BUR, 2016, p. 235).

P. 16 (Laddove parla di Uno e di noi come eterni punti di vista dell’Uno, bisognerebbe prendere in considerazione Leibniz, anche se qui siamo ancora nel campo del meccanicismo, secondo Bergson).

P. 17, in seguito all’autoanalisi l’autore può asserire la propria convinzione che gli esseri umani non sono macchine biologiche o robot biologici, ma (e in questo vi è una straordinaria conferma della dottrina platonico-orfica) “esseri spirituali temporaneamente imprigionati in un corpo fisico simile a una macchina.”

P. 18, ritiene che, data l’importanza del problema, bisogna prendere sul serio l’ipotesi che “la coscienza venga prima della materia, o contemporaneamente a essa.” Si noti che la questione era già stata trattata da Bergson nella sua contrapposizione tra vita e materia, nella sua definizione di Dio come “vita incessante, azione, libertà” (op. cit., p. 239).

P. 19, l’autore parla di natura spirituale dell’universo, che viene ignorata dal fisicalismo e dal riduzionismo materialisti. Ma la fisica quantistica è orientata verso la concezione di un universo olistico e creativo e secondo il punto di vista di Faggin l’universo è “esso stesso consapevole e vivo fin dall’inizio.” Anche per questa affermazione si veda l’opera di Bergson che considera l’universo come un corpo materiale animato dalla vita cosciente.

P. 28, anche nella esposizione della storia della fisica è evidente la posizione di Faggin, che giustamente ritiene superata la fisica di Laplace e in genere del materialismo di origine positivista. E’ una conferma del valore della filosofia di Bergson.

P. 30-34, l’esposizione sommaria ma precisa dell’evoluzione della fisica quantistica conferma l’affermazione di Bergson che la materia è energia e che spazio e tempo non hanno un valore assoluto ma relativo.

P. 39, nel capitolo intitolato La fine della certezza leggiamo :


Un altro aspetto importante della matematica, che spesso viene sottovalutato, è che la verità dei suoi enunciati è relativa soltanto a quella dell’insieme di assiomi non dimostrabili su cui c’è accordo. Tali assiomi sono infatti considerati verità autoevidenti, accettate come tali per convenzione perché non dimostrabili. La presunta oggettività della matematica si basa quindi sull’accettazione soggettiva di ciò che è ritenuto autoevidente.


Il capitolo presenta soprattutto per i profani un’assoluta importanza, infatti crolla agli occhi del non addetto ai lavori il mito della certezza matematica, che si rivela pura illusione.

P. 48, le pagine dedicate alla fisica quantistica sono ovviamente di difficile comprensione, però l’affermazione “l’indeterminismo è una proprietà irriducibile della natura” si accorda con quanto sostenuto già da Bergson. Infatti a p. 212, 213 dell’Evoluzione creatrice Bergson afferma : “… alla base della natura non vi è nessun sistema definito di leggi matematiche …” E poco avanti sottolinea “quale ruolo importantissimo abbia l’idea di disordine nei problemi relativi alla teoria della conoscenza.”

A p. 50 si dichiara che la realtà soggettiva e oggettiva si creano a vicenda e nessun fenomeno è tale finché non è osservato, come a dire che l’oggetto non è tale senza un soggetto. Inoltre si sottolinea il ruolo fondamentale della coscienza nella fisica, e questo è un concetto chiaramente già espresso da Bergson. Ma tale concezione è ancor prima, e naturalmente siamo molto lontani dal retroterra culturale di un fisico moderno, del filosofo tedesco Schelling, cioè nel Sistema dell’idealismo trascendentale. Si veda ad esempio il paragrafo 1 dell’introduzione (Concetto della filosofia trascendentale) laddove si dice :


1. Ogni sapere si fonda sull’accordo di due elementi, l’uno subbiettivo, l’altro obbiettivo. Infatti si conosce soltanto il vero; ma la verità è generalmente posta nell’accordo delle rappresentazioni coi loro oggetti.

2. Possiamo chiamar Natura la totalità degli elementi obbiettivi del nostro sapere, mentre l’insieme di tutti gli elementi subbiettivi dicesi Io, o intelligenza. I due concetti sono antitetici. In origine l’intelligenza è concepita come il puro rappresentativo, la natura come il puro rappresentabile; quella come il conscio, questa come l’inconscio. Tuttavia in ogni sorta di sapere è necessario il mutuo concorso di ambedue.

(F. W. J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, Bari, Laterza, 1990, p. 7)


P. 52, il sistema assiomatico esemplificato dalla geometria euclidea è stato alla base della presunta certezza delle matematiche e delle scienze cosiddette esatte, ma si tratta di presunzione, per quanto umanamente comprensibile. Anche Bergson critica la falsa certezza della scienza con l’individuazione del meccanismo cinematografico del pensiero che ingabbia in una visione distorta il fluire continuo del reale.

P. 53, si passa alla considerazione della differenza tra l’intelligenza umana e quella dei robot. La prima è cosciente e basata sulla conoscenza semantica, cioè che include un significato di cui si è consapevoli, la seconda è incosciente e basata su una conoscenza simbolica, cioè su segni che sono collegati tra loro meccanicamente in un processo inconsapevole, senza un soggetto.

Seguono diverse considerazioni sull’intelligenza artificiale, i robot e le differenze sostanziali tra questi e gli esseri viventi e la mente umana. Gli argomenti sono quelli di un fisico e non sono sempre di facile comprensione, ma dal punto di vista filosofico la questione è se i robot possono in qualche modo essere considerati alla stregua degli esseri umani, se questi secondo alcuni fisici sono robot biologici. La risposta è no, perché all’intelligenza artificiale, che è pura e semplice intelligenza, manca un elemento che già per Bergson era fondamentale e cioè l’intuizione. I robot sono del tutto privi di intuizione e questo è di per sé un grande limite. Non si può affidare alcun potere decisionale a un robot, come nel caso delle auto a guida autonoma, perché, riconosce Faggin, esse in molti casi potrebbero incorrere in errori fatali. Inoltre le macchine sono sistemi deterministici e riduzionistici e sono costituite secondo un modello teorico, schematico della realtà, mentre le cellule, la cui natura è in gran parte ancora misteriosa, sono fenomeni quantistici il cui “funzionamento” risulta generalmente imprevedibile. Le prime sono create per compiere determinate e specifiche operazioni, sempre le stesse, e sono utili appunto nei lavori ripetitivi laddove la mente umana tende a distrarsi, mentre le cellule viventi e in genere gli organismi viventi si adattano alle più diverse esigenze.

P. 88, questa lunga spiegazione dell’informazione di Shannon non è adatta a un pubblico di lettori non specialisti o che hanno da tempo abbandonato ogni interesse per la fisica (come me !).

P. 96, nella percezione del linguaggio, in quanto complesso di suoni aventi un significato, vi è una fondamentale differenza tra noi e le macchine, per esse si tratta di simboli che danno avvio a un processo meccanico e inconscio, per noi si tratta di segni dotati di valore semantico non solo oggettivo ma anche soggettivo e come tali rielaborati dalla coscienza.

L’elaborazione dell’esperienza cosciente va oltre quella simbolica e algoritmica dei computer e la comprensione e la creatività vanno oltre ciò che può fare una macchina. I programmi dei computer ci rivelano soltanto l’aspetto simbolico della mente e i computer sono nostre creazioni in quanto dotate della parte algoritmica della nostra essenza. Ma la coscienza è la nostra vera ricchezza ed è ciò che ci permette di comprendere, mentre i computer non potranno mai capire ciò che fanno né essere coscienti.

Una volta compresa la differenza fondamentale che c’è tra un organismo vivente, ad esempio la cellula, e un computer, le pagine dedicate a sottolineare tale differenza nelle più minute sfumature riescono stucchevoli e noiose a chi non sia immerso negli studi di fisica e informatica. Sembrano pagine scritte per ingrossare il volume e sono a mio parere superflue, ma si dirà che appunto penso così perché non sono un fisico.

A p. 112 si ribadisce un concetto propriamente bergsoniano e cioè che “la vita è una espressione della coscienza e non della materia inanimata.” Tuttavia pare che di Bergson Faggin non si ricordi minimamente.

P. 125, probabilmente un collaboratore ha fornito all’autore qualche notizia della filosofia di Eraclito, che giustamente e a proposito viene citato. Leggendo il testo, infatti, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a uno scienziato e non certamente a un umanista. Inoltre riappare la visione della natura quale è nell’Evoluzione creatrice di Bergson. Nulla è permanente se non l’illusorio, il tutto è continuo mutamento e fluire incessante.

A p. 126 si manifesta chiaramente la concezione bergsoniana. Faggin scrive che ogni organismo vivente è collegato con un ente cosciente dotato di libero arbitrio. E qui con evidenza appare che la vita è coscienza che domina la materia. Vedi infatti a p. 127 : “Considerando che la vita è una realtà olistica, l’essenza del tutto deve essere contenuta in ciascuna delle sue parti.” La coscienza di un organismo è perciò presente anche in ogni sua cellula.

P. 137, a parte una certa concessione alla moda ambientalista nelle pagine precedenti, si conferma la concezione bergsoniana della coscienza : “Credo che sia impossibile spiegare la vita senza i concetti di coscienza e di libero arbitrio …”

P. 138 :


Secondo le nostre teorie fisiche, le particelle sono emerse dal campo unificato che componeva il tutto, ma non sono separabili dal tutto e non lo precedono. In un universo olografico e olistico, le parti che si autoassemblano devono contenere l’essenza del tutto, e quindi non possono essere separate da esso, perché il tutto deve poter influenzare le parti.


P. 154, la realtà interiore, cioè della coscienza, si distingue nettamente da quella fisica e dei computer. La realtà fisica è simbolica, quella della coscienza è semantica. Similmente lo spazio e il tempo della realtà fisica non sono quelli della realtà interiore. Anche quando leggiamo un romanzo viviamo in una realtà della coscienza, creata da essa nella traduzione in significato di simboli convenzionali della scrittura.

P. 161, mentre per l’apprendimento una mente artificiale ha bisogno di molti esempi di riferimento e facilmente cade nell’equivoco perché si basa solo su dati esterni dell’oggetto, la mente umana si basa invece sull’intuizione che spesso non ha bisogno di altro che di se stessa o comunque di pochi esempi. Anche qui si evidenzia la condivisione del pensiero di Bergson secondo cui l’intelligenza di per sé è cieca quando manca l’intuizione.

P. 164, la vera intelligenza non può essere disgiunta dalla coscienza. “La vera intelligenza è intuizione, immaginazione, creatività, ingegno e inventiva”, un essere umano che si identifichi con il corpo e la mente logica non è più tale, è un robot. E purtroppo i “robot” umani nella società attuale dell’occidente e dell’oriente sono numerosi.

P. 187, con il concetto quantistico di “seity”, cioè sostanzialmente il Sé della tradizione teosofica e indiana e l’Io di quella idealistica di Schelling, si afferma che : “Una seity esiste anche senza il corpo fisico … la nostra esistenza non dipende dall’esistenza del corpo.” E questo, mi sia concesso, è affermare l’immortalità dell’anima.

P. 190, NB : la fisica quantistica non descrive il mondo esteriore ma quello interiore.

Ibidem, a partire dal cap. L’esistenza del libero arbitrio, Faggin entra nel campo della teosofia. Questa non è una critica negativa all’autore, anzi! Però è evidente che le affermazioni di Faggin non appartengono più al campo della scienza sperimentale. Egli (e questo è un merito!) ha finalmente superato i vincoli della mera intelligenza per entrare nel regno dell’intuizione.


tutto ciò che vediamo nell’universo è stato inizialmente immaginato nella coscienza delle seity perché la realtà fisica segue la realtà quantistica, che segue l’informazione quantistica, che a sua volta rappresenta il pensiero, i desideri e le esperienze coscienti delle seity.


P. 197, “Sono le seity che hanno cooperativamente dato esistenza alle stelle, ai pianeti e agli organismi viventi …” in questo c’è una sorprendente analogia con la dottrina Sankhya indiana che prevede l’esistenza di entità infinite o anime (purusa) e di una natura naturante (prakrti) anch’essa eterna (cfr. p. 73, Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Bari, Laterza, 2012).

P. 198, la creazione dell’universo e dell’uomo è dovuta al fatto che Uno vuole conoscere se stesso e conoscere significa venire ad esistenza. Così tutti noi siamo emanazione di Uno (p. 199). In quest’ultima espressione si riconosce l’influsso delle Enneadi di Plotino (non so se Faggin ne abbia effettivamente notizia o conoscenza diretta, ma l’atteggiamento mentale è lo stesso).

A p. 203 cita Schelling, ma non credo sia farina del suo sacco, mi sa di suggerimento. Faggin ha infatti una conoscenza incredibile della fisica, ma di filosofia non mi pare sappia molto.

Ibidem, sembra di leggere un testo gnostico. Dall’Uno sono emanati o creati (la cosa non è chiara) le Seity o Entità che a loro volta riproducendosi creano altre Seity e così via all’infinito.

P. 208, viviamo nella confusione più totale, avendo scambiato la realtà esteriore e la sua simulazione nell’IA con quella interiore, che è la vera realtà.


Pensare che l’IA sia realmente intelligente, mentre invece, essendo priva di interiorità, è solo un’imitazione del comportamento umano, è un fraintendimento analogo a quello che si fa quando si confonde la teoria della realtà con la realtà. La realtà è viva, ma non vive nella materia, bensì nella conoscenza esperienziale di sé. E’ l’idea di materia che abbiamo che è sbagliata, perché gli studiosi hanno dato valore di realtà all’informazione astratta senza significato e lo hanno tolto alla conoscenza di sé, che in questa nuova concezione è la realtà più profonda.


P. 212, affermazione rivelatrice . “Noi, in quanto seity, siamo eterni.”

P. 216 : “Riassumendo, ritengo che dal Principio creativo segua la necessità logica che da Uno debbano emergere enti il cui scopo è conoscere se stessi, e aumentare così la Sua conoscenza.” Nella nota a piè di pagina fa chiaramente riferimento a Leibniz, che mostra di seguire dal punto di vista teoretico, mentre appoggia la posizione di Leibniz contro il meccanicismo di Newton. Invece Bergson considera anche Leibniz un meccanicista.

P. 220, Plotino e Giordano Bruno sono da tenere in considerazione come pensatori che hanno anticipato queste nuove concezioni del mondo e dell’uomo. Faggin dice : “Tutti noi abbiamo una natura divina. Questa è la nostra vera essenza, e il nostro compito è cercare di ricondurre il divino che è in noi al divino che è nell’universo”, citando appunto Plotino.

P. 224, come Bergson anche Faggin ritiene che “l’universo è aperto e il suo futuro non è determinato.” La differenza fondamentale con Bergson è che Faggin sostanzialmente accoglie la dottrina di Leibniz, che invece Bergson biasima in quanto lo considera un meccanicista, cioè precisamente un puro razionalista, mentre Bergson rivaluta l’istinto e l’intuizione.

P. 230, la seity è un ente cosciente che può incarnarsi nel corpo, ecco la metempsicosi platonica e una piena conferma della verità del platonismo, dell’orfismo, del pitagorismo e poi del neoplatonismo. L’ego è la parte della seity che si è identificata con il corpo e che può essere irretita da esso a tal punto da immergersi totalmente nella materia e perdere il contatto con lo spirito o “seity”, come lo chiama Faggin.

P. 244, indubbiamente c’è un po’ di deformazione professionale in queste teorie di Faggin che è un fisico informatico. Egli ritiene infatti che la vita biologica sia creata dalle seity come un mondo “virtuale” nel quale incarnandosi, come immerse in una sorta di “metaverso”, esse esperiscono la vita corporea. Però se tralasciamo questi aspetti della teoria e ci rivolgiamo al suo interno vediamo che questa visione della realtà vera si avvicina molto a quella degli antichi gnostici o alla religione dell’antica India.

P. 246, all’inizio del capitolo Faggin sembra collegarsi al viaggio dell’anima nell’Iperuranio e al mondo delle Idee di Platone. L’anima foggerebbe le sue idee-simbolo per comunicare e conoscere meglio se stessa, poi si incarnerebbe nel corpo, simbolo materializzato, sempre allo scopo dell’autoconoscenza. Ma poi darebbe luogo alla costruzione di macchine, computer, robot e quant’altro e a nuovi tipi di corpi cibernetici. Mi sembra che qui si ripiombi in pieno meccanicismo e ciò contraddice profondamente il messaggio di Bergson, non si va infatti verso l’intuizione, ma verso un’iper-intelligenza.

P. 247, è evidente che la concezione “metafisica” di Faggin è tratta dalla pratica della realtà virtuale. La seity è paragonata a un giocatore che nel videogioco manovra il suo avatar, ben consapevole che la realtà virtuale è parte della realtà più vasta in cui vive il giocatore. Così l’avatar nel videogioco corrisponde al corpo nella vita fisica che è mosso dall’anima, cioè la seity. L’identificazione della seity con il corpo viene esemplificata dal metaverso. Queste similitudini tecnologiche richiamano a grandi linee il mito platonico della caverna, nel libro VII della Repubblica.

P. 248, con la morte, risvegliandosi come da un sogno, la seity ritrova se stessa nella sua vera realtà. A questo proposito cita Seneca nelle Lettere morali a Lucilio, 102. Brano che rivela pienamente come di questa realtà vera gli antichi filosofi fossero consapevoli.

P. 249, fa riferimento al secondo corpo o doppio e cita l’esperienza di chi “esce” dal corpo. A questo proposito cfr. Robert A. Monroe, I miei viaggi fuori dal corpo, Padova, MEB, 1994.

P. 252, 253, la realtà è il frutto dell’azione delle seity, dotate di libero arbitrio, coscienza e vita.

P. 255, il mondo reale, studiato dalla fisica, non è regolato da leggi immutabili ma dall’interazione di enti coscienti.

Il mondo delle seity sarebbe un po’ come nella fantasia di Shelley vengono presentate le vite custodite dalla Maga dell’Atlante :


Like one asleep in a green hermitage,

With gentle smiles about its eyelids playing,

And living in its dreams beyond the rage

Of death or life; …

(The Witch of Atlas, LXXI, 611-614)


P. 264, noi siamo coscienza e ciascuno di noi è una parte-intero di Uno, e Uno è dentro ciascuno di noi. Non può esistere una sola coscienza universale, perché ci siamo noi, altri osservatori dell’universo. Le tesi deterministiche che annullano il soggetto e ammettono solo l’oggetto esprimono un chiaro non senso, perché non è possibile conoscenza senza soggetto conoscente.

P. 266, se ho ben capito (e non è detto) quando Faggin dice che la conoscenza di una seity evoluta può esprimersi adeguatamente soltanto con un simbolo vivo come un essere umano, intende dire che essa si incarna in un essere umano, e quando essa raggiunge un livello di conoscenza ancora maggiore si incarna o incorpora ad esempio nel nostro pianeta. Allora questo significa che tutto è vivente e animato, dal più piccolo microbo al più grande degli astri, e che i pianeti sono i corpi di seity più evolute di noi, quelle che gli antichi chiamavano “dei”.

P. 266, la vita esiste per dar modo alle seity di conoscere se stesse nell’esperienza di sé, incarnandosi in organismi che sono il frutto della conoscenza sinora raggiunta dalle seity. E questo incarnarsi in organismi per la conoscenza prosegue all’infinito.

P. 271, mentre la seity elabora il significato, il computer opera solo sui simboli e, non avendo coscienza, non comprende alcun significato. Quindi l’IA non può essere neppure creativa, nel senso di creare idee nuove, per quanto i suoi risultati possano essere per noi stupefacenti. Ma, si badi, stupefacenti per la nostra coscienza che comprende il significato, non per l’IA, che non comprende nulla.

P. 272, ci si avvicina forse alla filosofia Sankhya indiana. Le seity, utilizzando i simboli della fisica classica ma ricorrendo nel contempo al simbolo dinamico della fisica quantistica, hanno creato le cellule e hanno quindi dato il via alla vita sulla terra. Dal punto di vista filosofico siamo nello gnosticismo, nell’esoterismo, nell’ermetismo, insomma siamo alle soglie di una rivoluzione totale nel pensiero. La magia celebra la sua vittoria sulla scienza!

P. 280, la matematica e la fisica classica non sono in grado di descrivere tutto il vivente, esiste una interiorità della coscienza che si sottrae a qualunque indagine razionale. Inoltre l’universo quantistico è assai più vasto di quello prospettato dalla fisica classica e non è conoscibile razionalmente.

P. 282, si celebra la musica come linguaggio diretto dell’anima e universale, come Schopenhauer l’aveva considerato la immediata espressione della Voluntas.

P. 288, le seity, mosse dal bisogno di capire l’esistenza della riproduzione con cui loro stesse sono state create dall’Uno, hanno adoperato il loro linguaggio costituito da simboli vivi per creare simboli in grado di autoriprodursi. L’essere umano, mosso da pari curiosità, ha creato le macchine, ma bisogna notare che esso è una seity incarnata. L’uomo nella sua esteriorità è un simbolo vivo, mosso dalla coscienza dell’anima, cioè da quella che Faggin chiama seity.

P. 294, quando Faggin afferma che siamo un insieme di cuore, testa e pancia, e afferma che bisogna armonizzare questi membri del corpo perché ognuno di essi è sede di una facoltà particolare, il cervello del ragionamento e dell’intelletto, il cuore dei sentimenti, la pancia degli impulsi, egli non fa altro che tradurre l’insegnamento platonico presente fra l’altro nella Repubblica, libro IV. Platone parla di tre facoltà dell’anima umana, o tre anime addirittura, l’elemento razionale, l’irascibile e l’appetitivo. Come si può notare, il fisico non aggiunge granché a quanto già detto dal filosofo.


Leibniz e Faggin


Quando Leibniz afferma che i cambiamenti naturali delle Monadi derivano da un principio interno, viene richiamato da Faggin che intende le seity come portatrici di qualità in costante mutamento dovuto all’esperienza cognitiva, ma questa esperienza non aggiunge o toglie nulla alle seity in quanto esse, parti del Tutto, contengono però il Tutto, come dice anche Leibniz. Data la totalità presente nella Monade, essa attraversa una pluralità di affezioni o di stati o di percezioni. La corrispondenza nella fisica quantistica o nuova metafisica ai vari stati quantistici e ai campi è evidente.

Leibniz inoltre pone l’esempio di una macchina gigantesca apparentemente pensante e senziente, come una sorta di robot. Se, dice Leibniz, vi entriamo dentro, noteremo che, a parte i meccanismi, non vi è nulla che giustifichi la presenza di una coscienza pensante o senziente. Dunque è solo nella sostanza semplice, dove è presente il Tutto, che va cercata la ragione della percezione. Il corpo, la materia, non è altro che uno strumento apparente.

Nella Monadologia (1714) il filosofo tedesco distingue tra la Monade nuda e la Monade razionale o spirito. Gli esseri umani corrispondono a quest’ultima, mentre gli animali sono dotati di anime che percepiscono e hanno memoria, ma sono privi di ragione. Le Monadi semplici poi sono al di sotto di queste, nella gerarchia, e corrispondono a esseri inferiori, come i vegetali, privi di una percezione distinta.

Sebbene consideri Leibniz un meccanicista anche Bergson estende a tutto il vivente l’anelito della Coscienza, non riservando l’anima al solo genere umano (cfr. p. 250 dell’Evoluzione creatrice). Però Bergson contesta a Leibniz come a tutti i filosofi sistematici l’aver inquadrato tutta la realtà visibile ed invisibile in uno schema di logica umana. La Divinità di Leibniz ad esempio opera sulla base di una logica rigorosa che però è pur sempre la logica dell’uomo. E anche Faggin, a mio parere, tende a misurare l’operato della Divinità sul modello della mente umana.

Quando Leibniz parla dell’armonia universale, dice quanto ripetuto da Faggin e cioè che ogni sostanza semplice o monade è specchio vivente e perpetuo dell’universo, questo infatti significa che le parti contengono il Tutto, come afferma il fisico italiano a p. 138.

Leibniz afferma che le monadi rispecchiano in sé tutto l’esistente e che tutto è pieno, perché il vuoto non esiste. Queste dichiarazioni sono riprese da Faggin nella sua esposizione della fisica quantistica e del vuoto quantistico. Infatti se si legge l’opera di Leibniz dopo aver letto il libro di Faggin si è come pervasi dalla sensazione che la fisica quantistica fosse già nota al filosofo tedesco. Quando Faggin ci mostra che ogni cellula del corpo è come un altro corpo in miniatura, ma che ogni componente di un computer non è a sua volta un minicomputer, così Leibniz aveva affermato che ogni macchina costruita dall’uomo non è una macchina anche in ciascuna sua parte, ma le sue componenti hanno caratteristiche del tutto diverse dall’insieme, mentre i corpi naturali sono macchine viventi anche nelle loro infime parti. E questo accade perché ogni porzione della materia è suddivisibile all’infinito e ogni minima particella esprime da sé tutto l’universo.

Per quanto riguarda la concezione della materia sia Leibniz che Faggin, ma anche Bergson, ritengono che essa sia un fluire in cui le parti entrano ed escono continuamente e così anche i nostri corpi non sono mai in ogni momento gli stessi.


sabato 12 ottobre 2024

Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio

 


Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio, Milano, Cavallotti editori, 1950

Trad. di Berto Minozzi



Già dal primo capitolo si nota la capacità di analisi psicologica dell’autrice e il fine umorismo. Un ricco e giovane signore ha preso in affitto una villa in provincia e i coniugi Bennett pensano al futuro matrimonio delle loro figliole. La moglie vorrebbe destinarlo per marito a una delle sue figlie.

Il cap. II brilla per fine umorismo nel lieve screzio tra marito e moglie, dove il marito si diverte a prendere in giro la consorte, tra lo stupore delle figlie. Siamo tra Laurence Sterne e Charles Dickens.

Nel cap. III, alla festa da ballo compare oltre a Bingley il suo amico Darcy, ricco il doppio di lui, e naturalmente catalizza l’interesse generale, sennonché è tremendamente antipatico.

Una caratteristica dei romanzi della Austen è che si tratta di ritratti psicologici immersi nel colore dell’epoca e risolti in dialoghi tra quattro mura. Si tratta della vita quotidiana dell’alta borghesia inglese ai primi dell’Ottocento, soprattutto del mondo femminile, i cui interessi, com’è ovvio, si limitano a combinare e fare un buon matrimonio. La vicenda si svolge sempre al chiuso o per lo meno in luoghi circoscritti e abbondano i personaggi e le comparse. La varietà umana parimenti non manca, perché oltre ai gentiluomini compassati, eleganti, e più o meno cortesi, troviamo tipi comici come ad esempio il signor Collins.

I personaggi rispecchiano l’attitudine all’analisi psicologica propria dell’autrice e dunque Elisabetta studia con attenzione il signor Darcy, senza però avvedersi del fatto che quest’ultimo è invaghito di lei. Nella relazione ostile tra Darcy e Wickam ella fa mille congetture durante un ballo in casa Bingley. Lo sfondo infatti dei dialoghi come delle schermaglie amorose è quasi sempre un interno.

Nel cap. XX la scena della dichiarazione d’amore a Elisabetta da parte di Collins è veramente comica. La Austen delinea la rappresentazione del rifiuto in tutte le sfumature della sua raffinata conoscenza del cuore umano. Tutte le vicende del romanzo, d’amore naturalmente, sono presentate nella loro problematicità psicologica con una profondità degna di una grande scrittrice. L’amore per una giovane donna nella società dell’epoca e il matrimonio sono presentati nel loro duplice aspetto di sentimento e di interesse. Così si ondeggia tra convenienze sociali e aspirazioni del cuore, in attesa di una vittoria degli affetti sinceri non sempre scontata. Vengono in mente, alla lettura, gli sceneggiati televisivi inglesi, ambientati nei primi dell’Ottocento, e che sicuramente hanno a modello i romanzi della Austen.

Nel cap. XXXIV l’antipatico ma nobile Darcy chiede improvvisamente con uno strano discorso un po’ impertinente la mano di Elisabetta, la quale oppone il suo rifiuto. Anche qui la Austen eccelle nel dialogo, ponendo in rilievo i diversi stati d’animo delle due parti e le loro emozioni.

Nel capitolo seguente le rivelazioni su Wickam, contenute in una lettera di Darcy che lo stesso consegna ad Elisabetta, introducono elementi tali di novità da cominciare a ribaltare ogni precedente prospettiva.

Nel cap. XLII l’analisi sottile della psicologia del padre di Elisabetta, il signor Bennett, è frutto di una profonda capacità di considerare l’animo umano e di valutarne tutti i pregi come le intrinseche contraddizioni. Il romanzo dimostra in effetti un’abilità introspettiva assolutamente straordinaria. Così come esprime una visione disincantata e realistica della vita nella rappresentazione del rapporto coniugale tutt’altro che romantico tra il signor Bennett e la consorte, che, avendo il difetto di essere una sciocca, viene quasi tollerata con ironia e talvolta dissimulato scherno dal marito.

Nel cap. XLIII un casuale incontro durante un viaggio di piacere rivela ad Elisabetta il vero Darcy. Ella non è ancora del tutto disposta a riconoscere l’amabilità del giovane, ma il suo cuore comincia lentamente ad accoglierlo.

Al cap. XLVIII il personaggio del signor Bennett, di ritorno da Londra nel fallito tentativo di ritrovare una figlia (Lidia) fuggita con l’avventuriero Wickam, è veramente umoristico, direi alla fine del capitolo quasi comico nell’arguzia mordace e nella consapevolezza disincantata dell’ocaggine di sua figlia Caterina.

In seguito il signor Bennett è costretto ad accettare l’avvenuto matrimonio tra sua figlia Lidia e Wickam. Riceve i due sposi in casa sua e, mentre la moglie si felicita con loro presa dall’entusiasmo, egli mostra tutta la propria scontentezza, anche se non può manifestarla a parole. In questo frangente Elisabetta apprende la strana notizia di un coinvolgimento diretto di Darcy nel matrimonio, anche se quest’ultimo ha sempre dimostrato avversione nei confronti di Wickam. Elisabetta apprende dalla lettera della zia Gardiner che il coinvolgimento di Darcy nel matrimonio di Wickam è probabilmente dovuto all’affetto che Darcy nutre per lei. Elisabetta subito stenta a crederci, ma progressivamente i suoi pensieri si avvicinano sempre più a Darcy.

La sorella Jane riceve la proposta di matrimonio da parte del signor Bingley e anche in questo episodio, qua e là, trapela la fine ironia dell’autrice, nella constatazione che la famiglia Bennett, segnata a dito come la più disgraziata del vicinato a causa del matrimonio di Lidia con Wickam, ora sia considerata la più fortunata e felice a causa della futura unione tra Jane e il ricchissimo Bingley.

In occasione del fidanzamento di Bingley e Jane si presenta anche Darcy che rivela ad Elisabetta il suo amore. Elisabetta comprende l’errore del suo pregiudizio e lo ricambia sinceramente. Così invece di uno si festeggiano due fidanzamenti. Il romanzo è basato su questi mutamenti di prospettiva e su una fine analisi psicologica che rivela un’autrice matura e geniale. In effetti la Austen brilla proprio per questa sua capacità di sondare il mistero del cuore umano senza dare nulla per scontato, almeno per la prima metà della sua opera. Poi, come è naturale trattandosi di un romanzo, la vicenda prende una certa direzione e volge al lieto fine. E il romanzo termina come una bella fiaba, dove Biancaneve o Cenerentola incontrano l’amore di un principe azzurro e ricorre la formula consueta “e vissero felici e contenti”.


domenica 22 settembre 2024

Sul margine del sentiero

 


Sul margine del sentiero vi ho scorto

nell’ombra degli alti larici,

nel bosco d’amore.

Il vento volteggiava le prime foglie

d’autunno

e una dolce carezza vibrava nell’aria.

La luce meridiana declinava

nell’eco d’un solitario corvo,

i pensieri erravano lontani come un sogno.

E allora non so se ho scorto

il vostro mistero.






domenica 8 settembre 2024

Charles Dickens, Oliver Twist

 


Charles Dickens, Le avventure di Oliviero Twist, Firenze, Luigi Battistelli, s. d. (traduzione di Silvio Spaventa Filippi)



Narrazione all’insegna dell’ironia. Il povero orfano si trova inserito in una sorta di lager. Nel cap. IV viene ceduto a un imprenditore di pompe funebri e passa da un lager a un altro. La condizione tragica di Oliver è circondata da un repertorio di personaggi grotteschi e disumani che la fantasia di Dickens rende comici. Nella descrizione delle prime sofferenze di Oliviero e della sua capacità di reagire nel dolore di un’esistenza misera e dura si manifesta tutta la profonda umanità di Dickens e la sua vasta conoscenza della psiche umana. Nelle tristi condizioni dell’orfano e nella descrizione dell’entrata in Londra, Dickens si mostra, come Balzac, un attento descrittore e di conseguenza critico della realtà del suo tempo, della miserevole condizione del proletariato urbano e della spietatezza della società capitalistica.

All’inizio del cap. IX le osservazioni psicologiche sulla capacità evocativa della mente umana tra il sonno e la veglia rivelano una profonda conoscenza dell’essere umano.

L’ironia di Dickens si esercita contro le ingiustizie della società del suo tempo con la rappresentazione paradossale e grottesca delle sue vittime, come nella descrizione dei detenuti nella prigione annessa all’ufficio di polizia, nel cap. XIII.

Le prime avventure fuori dell’ospizio, il soggiorno presso i ragazzi delinquenti, capeggiati dal vecchio ebreo Fagin, l’ospitalità offerta dal buon Brownlow, il rapimento di Oliviero a opera della giovane Nancy e del perfido Sikes sono narrati con brio umoristico e grande realismo e si rivelano davvero avvincenti.

Il cap. XVII inizia con un ritorno all’ospizio dei trovatelli e con il personaggio di Bumble che insieme alla signora Mann mostra il solito atteggiamento implacabilmente crudele nei confronti degli orfani e in specie del povero Dino, ridotto ormai a pelle e ossa, amico di Oliviero Twist. La spietatezza dei due adulti raggiunge effetti grotteschi, frutto della caricatura dei loro caratteri e componente essenziale dell’umorismo dell’autore.

Nel cap. XXII di nuovo nelle mani dei ladri, Oliviero viene costretto con minacce a partecipare a una rapina in casa di una nobile anziana. Qui Dickens rivela la sua abilità di scrittore realista, la conoscenza profonda delle abitudini e del gergo dei delinquenti del suo tempo e della loro psicologia. Il furto va in fumo e Oliviero viene ferito.

Intanto nel cap. XXIII abbiamo l’incontro tra il mazziere Bumble e la direttrice dell’ospizio signora Corney, una vera commedia che satireggia la rapace borghesia del tempo, che rivaleggia in cinismo e avidità con la banda dei ladri se non la supera addirittura. Dickens si mostra umorista impareggiabile e giudice severo del suo tempo.

Il cap. XXIV nella scena dell’anziana moribonda rivela una profondità psicologica e un’efficacia rappresentativa degna di Dostoevskij. La storia dei miserabili nel romanzo e in questo caso delle due vecchie e della terza morente che svela qualcosa sull’identità di Oliviero Twist chiarisce la notizia, riportata da Pietro Citati ne Il male assoluto, secondo la quale lo scrittore russo sarebbe stato un grande ammiratore di Dickens. In effetti questo capitolo si affianca più di altri all’arte del russo, ad esempio agli episodi di miseria in Delitto e castigo (la morte di Katjerìna Ivànovna, alla parte quinta, cap. V).

Nel cap. XXVII la scena della dichiarazione d’amore di Bumble alla signora Corney è assolutamente spassosa. Dickens ha creato due figure grottesche che rappresentano a meraviglia l’ipocrisia e l’avidità.

Nel cap. XXVIII altra scena umoristica. Vengono rappresentati i famigli della casa derubata in cerca del ladro. Oliver, ferito, per disavventura incappa proprio nella porta della dimora meta del furto e viene ricevuto con terrore dai servi e dalle servette il cui atteggiamento, intonato a rara sapienza psicologica, viene descritto in maniera assolutamente esilarante.

Nei seguenti capitoli assistiamo alla generosa ospitalità offerta dalla padrona di casa, signora Maylie, e dalla sua protetta Rosa al giovane Oliviero. Egli viene accolto come un parente stretto, curato, educato e portato addirittura in villeggiatura. Durante la villeggiatura accade che Rosa si ammali (e poi guarirà) e subentrano scene un po’ troppo sentimentali ed edulcorate, nello stile del romanzo proprio dell’età romantica (Dickens in questo assomiglia a Manzoni) che fanno sorridere per la loro ingenuità. Nel cap. XXXIV appare il figlio della signora Maylie, Enrico, che, inutile dirlo, è innamorato di Rosa e, tutto commosso, apprende la sua guarigione.

Ma verso la fine del capitolo appaiono di nuovo i fantasmi della persecuzione : due loschi figuri di cui uno viene riconosciuto da Oliver ed è Fagin, l’ebreo. Gli appaiono come in sogno durante un dormiveglia e sono degne di nota le osservazioni psicologiche dell’autore su questo particolare stato dell’essere umano.

Il cap. XXXV vede la dichiarazione d’amore di Enrico Maylie a Rosa, fanciulla di nascita illegittima. Stupisce il lettore odierno a tanti scrupoli e circonlocuzioni e rimorsi presunti di coscienza. Rosa non accetta di sposare Enrico perché teme di disonorarlo dinanzi all’alta società di cui egli fa parte. Ma Enrico non cede definitivamente. Oggi le cose andrebbero ben diversamente e qualsiasi ragazzotta farebbe a gara per sposare un milionario, magari anche brutto.

Partito Enrico per tentare la fortuna nella carriera politica, nel cap. XXXVII assistiamo a una scena veramente spassosa tra i due sposini novelli Bumble e la ex vedova signora Corney. I due litigano aspramente e Bumble, soggiogato dalla prepotenza della moglie, mostra di essere pienamente un vile.

Nel cap. XXXVIII entra in scena un certo Monks che incontra Bumble e concerta un appuntamento con i due coniugi per avere informazioni sulla morte di una vecchia infermiera. Costei, apparsa in punto di morte nel cap. XXIV, sarebbe stata l’infermiera alle cui cure prima di morire venne affidata la giovane madre malata di Oliver Twist. Essa si era impossessata di un medaglione contenente due ciocche dei capelli di Oliver neonato e un anello matrimoniale d’oro. Questi oggetti cadono nelle mani di Monks.

Nel cap. XXXIX incontriamo di nuovo Sikes, Fagin e i giovani ladri. A casa di Fagin si presenta un misterioso straniero che chiede di Oliver. Al colloquio segreto tra Fagin e costui, che si rivela essere Monks, assiste non veduta la giovane Nancy. Essa si reca di nascosto alla casa dove è ospite Oliver e riesce a parlare alla gentile Rosa. Le confida tutto il colloquio cui ha assistito e in particolare una sconcertante notizia : Monks è il fratello maggiore di Oliver e vuole la sua morte, acceso da un odio spaventoso. Dopo questa rivelazione Nancy si sottrae alle proposte di redenzione e di aiuto di Rosa e torna al suo destino.

Nel cap. XLI Rosa decide di contattare, dopo essere stata informata della sua presenza a Londra, il signor Brownlow, il primo benefattore di Oliviero. L’incontro avviene con grande gioia di tutti. Rosa e il signor Brownlow, dopo un colloquio, decidono di informare il dottor Losberne, medico amico e collaboratore, di quanto detto da Nancy.

Nel cap. XLII incontriamo due personaggi che avevamo visto ancora ragazzi come oppositori nella casa dell’imprenditore di pompe funebri che aveva per la prima volta accolto Oliver. Si tratta di due caricature nello stile di Dickens, sempre attento a sottolineare in chiave umoristica molti aspetti del reale. Sono Noè Claypole e Carlotta, ora cresciuti e incattiviti, che diventano complici di Fagin. Noè Claypole viene inviato sulle tracce di Nancy sospettata di tradimento. Essa ha un nuovo colloquio con Rosa e un vecchio signore dove denuncia e rende nota l’identità dei ladri e dell’ebreo1.

Nel cap. XLVII viene denunciata dalla spia Noè a Fagin e a Sikes, che decidono di punirla.

Infatti Sikes, tornato a casa, vi trova la donna e, nonostante le sue implorazioni, senza pietà alcuna la uccide ferocemente colpendola prima col calcio della pistola e poi finendola a randellate. Si dà quindi alla fuga, ma nel capitolo seguente è preda del terrore ed inizia ad errare in posti sconosciuti. In una locanda, dove si rifocilla, viene notata la macchia di sangue che porta sul cappello. Egli fugge inorridito e giunto presso una stazione di posta viene a sapere che l’omicidio è diventato una notizia di cronaca. Fugge ancora nella notte e comincia ad essere perseguitato dall’immagine ossessionante della sua vittima.

Lungo la strada entra in una capanna e da lì scorge un incendio. Preda d’una folle eccitazione aiuta i contadini a spegnerlo e poi, risoluto, ritorna a Londra, dove ha intenzione di nascondersi. Tenta anche di uccidere il cane, che lo accompagna sempre fedele, per evitare di dare nell’occhio, dato che si è sparsa la voce che l’assassino ricercato è proprietario d’un cane, ma questo terrorizzato scappa via. L’episodio è quanto mai suggestivo e reso con grande conoscenza della psiche umana.

Nel cap. XLIX troviamo il signor Brownlow, protettore di Oliver, che riesce a mettere le mani su Monks e lo costringe a sentire la vera storia della sua famiglia e a confessare i suoi misfatti.

Brownlow sa già tutto perché lo ha fatto pedinare e spiare da parecchi giorni. Così conosce anche Fagin ed è in cerca dell’assassino Sikes. Come poi le sue spie abbiano potuto giungere a conoscenza di tutti i colloquii e dei piani dei furfanti, questo è una prerogativa dei romanzi d’appendice.

Nel cap. L assistiamo alla fine di Sikes che, rifugiatosi in una baracca dove si trovano altri suoi compagni, viene trovato però dalla folla inferocita degli inseguitori e dalla polizia e muore in una scena tragica e nello stesso tempo grottesca insieme al suo cane, che, povera bestia, Dickens ha voluto far morire sfracellato (immeritatamente secondo me, anche se non sono animalista), mentre Sikes finisce strozzato da una corda con la quale aveva cercato di mettersi in salvo.

Nel cap. LI si rivela la vera identità di Oliver, di Monks e di Rosa, il fratellastro e la zia di Oliver, perché Monks è il figlio della prima e legittima moglie del padre di Oliver e Rosa la sorella minore di sua madre. La madre di Oliver doveva andare in sposa al padre di Oliver, se non che costui essendo già sposato l’aveva lasciata con una scusa ed era morto a Roma. Aveva però lasciato un testamento in favore di lei e di suo figlio. Lascio i particolari al lettore di questo romanzo che li troverà tipici dei romanzi dell’epoca e nondimeno atti a destare l’attenzione e la curiosità.

Segue alla rivelazione la dichiarazione d’amore di Enrico Maylie a Rosa, che dopo un vano discutere accetta la sua proposta di matrimonio. Ma il romanzo non finisce qui.

Il cap. LII è incentrato sulla condanna all’impiccagione di Fagin. Il vecchio ebreo attraversa nei suoi pensieri tutti i tortuosi meandri dell’angoscia e dell’oppressione della paura. Quasi fuori di sé riceve anche la visita di Oliver e del signor Brownlow, che gli chiedono dove abbia nascosto i documenti datigli da Monks e che riguardano Oliver. Fagin pur in preda a una sorta di follia fornisce le giuste indicazioni, ma cerca di fuggire approfittando della presenza del ragazzo. Viene però tirato indietro dai carcerieri. La mattina seguente viene giustiziato. Il capitolo mostra la grande conoscenza dell’animo umano dell’autore, che analizza tutti i pensieri e le fantasie del personaggio e riesce a far penetrare la mente del lettore nella sua psiche.

L’ultimo capitolo ci mostra la sorte di alcuni personaggi e dei principali oltre che del protagonista. Inutile dire che i buoni sono premiati con la felicità sulla terra e i malvagi con la morte e l’umiliazione. Ma lo scopo dell’arte di Dickens è oltre a quello di divertire anche quello di educare.

1Su questa figura ci sarebbe molto da dire, per la sua ricorrenza nella letteratura dell’Ottocento (vedi Balzac, ad esempio), ma non è questo il momento. L’argomento infatti richiederebbe una lunga trattazione a parte.


domenica 4 agosto 2024

Purificazioni


 

e un tempo io fui un ragazzo e una ragazza

e un arbusto e un uccello e del mare un pesce muto.

Empedocle



Nuotavo veloce presso gli scogli

fra i pesci minuti e lucenti

e il sole dardeggiava sopra di me

come a illustrare la via sonora,

fra il riso dell’onde innumerevoli.

E inquieto fra mille pensieri fiottanti

fluivo corrente nell’iride del mare

ai venti agitati fra spume nei guizzi.

Correva la mente tra i cori echeggianti

di canti gioiosi nell’acque glauche,

auree quali corone alle salmastre chiome

come alghe su rocce, e canti, canti

risonavano ancora da solari lavacri.

Come nella prima età del mondo

ogni cosa intendevo al primo sguardo,

di saggezza specchio, senza raziocinare.

E venne il presagio della nuova età

e fiorì la luce sulle criniere del mare

ed ignota s’aprì nella mente una porta.


Come un innocente figlio della terra

conobbi la vera profondità del mare

e la vidi allora nel grembo delle acque.

La vasta coscienza dell’essere fluttuava

nelle onde del saggio canuto e il canto

potevo ora udire delle sirene.

Fuggi lontano dall’inganno dei sogni,

dei desideri fuggi la trama, la rete

come di ragno. Libero accogli

la sorte dei padri. Brillavano i pesci

sulle alghe più verdi, il fondo

scorgevo nel luminoso meriggio. Allora

compresi l’eterno infinito respiro.

venerdì 28 giugno 2024

Visioni

 

Sotto le ali dell’airone

sogna il rivo d’oro,

tra i giunchi celesti

i volti ridono delle ore;

nella candida casa

assolata e silente,

nel respiro calmo del mare,

agli alti ulivi

sospira il Tempo.


lunedì 24 giugno 2024

Oblìo


Nel profondo della foresta risuona dei pastori

un flauto lontano,

come un’onda di suoni luminosi pervade

la memoria di ombre,

aleggia il vento, un coro s’avvicina

traspare fra i rami,

sommesso volteggia nel richiamo cauto.

Una nube si specchia

sul mare calmo di mèmori accordi.

lunedì 17 giugno 2024

La vita

 

La vita è un romanzo triste.

Lontana come un’ombra

mi parlasti nel tramonto stanco.

Non eri più. Nulla per me.

Come sul fondo d’uno stagno

si dilegua il fluire della luce,

così mutavi; il canto si smarriva

nella tua remota dimora.


giovedì 13 giugno 2024

Pietro Citati, Il Male Assoluto

 


Pietro Citati, Il Male Assoluto, Milano, Adelphi, 2000


Descrive, ponendo in rilievo le caratteristiche dell’opera letteraria. Ha uno stile unico e originalissimo.

P. 13, il breve saggio su Robinson Crusoe di Defoe ci rivela subito il saggista artista o addirittura poeta, perché Citati trasforma la sua capacità di lettura in un corpo vivente di vita propria. Lo stile è accuratissimo, elegante ed estremamente scorrevole. Un maestro inimitabile.

Nel libro non è presente neppure una nota a piè di pagina, ma questo sarebbe probabilmente di disturbo alla narrazione -descrizione dell’oggetto, che è a sua volta un’opera letteraria come il discorso che la prende in considerazione. Si tratta di una rielaborazione artistica del contenuto di un’altra opera d’arte, ma senza travisamenti né alterazioni, anzi dotata di una perspicacia tanto efficace da raggiungere e superare qualunque metodo di critica “scientifica”. E’ tanto diversa dalla prosa saggistica di un estimatore di Citati come Mario Praz, il cui capolavoro, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, abbonda di note in ogni pagina, ma coglie non meno nel segno e ci svela i nascondigli insospettati dei giardini della letteratura. Praz è un assoluto maestro dell’erudizione universitaria, Citati lo è della libera saggistica.

Da p. 30 segue un riassunto commentato delle Affinità elettive di Goethe. E’ questo il metodo di Citati, rifare l’opera in sintesi aggiungendovi di proprio l’interpretazione personale basata su una sensibilità di raffinato artista.

Se nelle pagine sulla Austen ci presenta un genio del realismo, un modello per tutti i romanzi destinati al pubblico, nel presentarci De Quincey elogia l’uomo di cultura, immerso in un mondo di sentimenti e d’immagini grandiose, degno rappresentante del vero romanticismo (quello inglese e in genere nordico) e maestro venerabile di Baudelaire. Coglie degli scrittori la vena del loro genio, il segreto della loro arte, ma soprattutto della loro vita, in una prosa unica, semplice e insieme quasi barocca, come un degustatore di buoni vini che al primo calice vi sa dire tutti i pregi d’una intera cantina.

A p. 95 sempre a proposito di De Quincey è possibile rendersi conto del titolo dell’opera di Citati, Il Male Assoluto. Esso si riferisce al mondo demoniaco dell’inconscio, che alberga minaccioso nel cuore umano.

A p. 102, ritorna la locuzione “male assoluto”, una sorta di breve “leit motiv”.

Il ritratto di Balzac è seguito da quello molto simile di Dumas, che però fu meno inquieto, anche se più avventuroso. Quest’ultimo viene paragonato per la gioia di vivere, l’esuberanza senza eccessi a Rossini.

Le pagine su Edgar Poe, oltre a descrivere le sue opere, sono volte a sottolineare il suo impulso irresistibile verso il trascendente, la vocazione teosofica, la sfida ai limiti della materia.

Giacinto Spagnoletti scrive che il rischio della saggistica di Citati è la parafrasi, ma è meglio questa allo stravolgimento o all’equivoco. E poi Citati è un creatore, anche se tratta di letteratura, di opere altrui. Egli fonde l’autore nell’opera e l’opera nell’autore e questo è in realtà un compito molto difficile. La sua interpretazione fa rivivere le opere letterarie fondendo nell’opera i sentimenti dello scrittore, con uno stile elegantissimo e suasivo come quando descrive gli effetti dell’eloquenza di Dimmesdale ne La lettera scarlatta di Hawthorne.

A proposito di Manzoni, l’ansia della definizione esatta, del vocabolo scelto e preciso, del periodare perfettamente architettonico, rivela l’orrore dell’incertezza, dell’approssimativo, dell’incompleto, dell’inesatto, del fuggevole pensiero e dell’inafferabile tempo, in parole povere della vita che è tutto questo. E questo appunto spiega la terribile nevrosi che pervase con la sua tortura la psiche del grande lombardo.

P. 177, interessantissime le osservazioni sullo stile architettonico e matematico de I promessi sposi e sulla lingua del romanzo, completamente artificiale, ricalcata sul latino, sul francese secentesco e su un toscano immaginario. L’importanza di Manzoni è veramente qui, egli è stato l’inventore della lingua italiana, il padre della nuova cultura dell’Italia, dopo Dante (il nonno ?).

Le pagine sul genio umoristico di Dickens sviscerano tutte le sfumature della personalità dello scrittore inglese.

Anche le pagine su Dostoevskij intessono le vicende biografiche alla presentazione e al commento delle opere, in maniera da illuminare la fonte dell’ispirazione e a darci ragione del contenuto del messaggio dello scrittore. Dotato di una squisita sensibilità Citati riesce a svelarci i segreti della composizione rivelando la mente di Dostoevskij alla luce della testimonianza dei suoi romanzi come un detective o un attento psicanalista.

P. 250, le riflessioni sulle Memorie del sottosuolo, avvicinano l’atteggiamento intellettuale di Dostoevskij a quello di Nietzsche, particolarmente il temperamento sadomasochistico di entrambi.

P. 261 e sgg. analisi del personaggio di Raskol’nikov (Delitto e castigo).

P. 266, 267, il personaggio di Svidrigajlov è quello di un puro sadico. Il sadismo è alla base dell’ispirazione di Dostoevskij, questo spiega la sua affinità con Nietzsche, altro temperamento sadico.

P. 273, altra affermazione di Citati che illumina sul Dostoevskij come precursore di Nietzsche : per giungere alla dimensione che sta al di là del bene e del male bisogna aver conosciuto la terra del delitto.

Passione del gioco d’azzardo alla base della concezione della vita del pensatore di Pietroburgo come risultato d’una serie di casi indipendenti dalla nostra volontà e frutto di un destino incomprensibile.

P. 289, apprezza tra i romanzi di Dostoevskij soprattutto I demòni (così anche Nietzsche ne La volontà di potenza, dimostrando di aver compreso perfettamente lo scrittore russo).

P. 293, 294, Kirillov nei Demòni rappresenta l’ateo che vuole sostituire se stesso a Dio, realizzando una sorta di superuomo. In questo è evidente l’aggancio per Nietzsche alle sue stesse teorie. Sembra veramente che abbia trovato in Dostoevskij un precursore.

P. 305, “il mondo moderno è il trionfo dell’inautentico” e in questa denuncia accomuna, come consapevoli eroi dell’autentico, Flaubert, Tolstoj, Dostoevskij e Nietzsche. Lo stesso Nietzsche era consapevole della sua affinità con gli scrittori francesi e russi dell’Ottocento (vedi La volontà di potenza).

A proposito di Flaubert è interessante l’osservazione di Citati che lo scrittore francese odia i dialoghi e soprattutto in Mme Bovary si limita a pochissimi.

(P. 321, a proposito di Flaubert cita Roger Kempf).

In Bouvard et Pécuchet Flaubert esplicita la sua visione della realtà e dell’umanità, un mondo di idioti immerso nel caos.

Il ritratto di Lewis Carroll è un vero e proprio racconto della vita e della strana natura dell’autore di Alice nel paese delle meraviglie. Citati delinea con una sorta di bonomia divertita il caso di questo scrittore maniaco e amante di bambine.

Le pagine su Carlo Collodi ci rivelano la personalità dell’autore di Pinocchio e l’originale genesi della fiaba. Anche qui per ricchezza di informazioni e sensibilità Citati si mostra impareggiabile.

Le pagine su Tolstoj centrano perfettamente la fonte d’ispirazione dell’autore, la profonda riflessione sulla vita e sulla morte che attraversa tutta l’opera dello scrittore russo e che ne fa il romanziere più umano e più “filosofo” dell’Ottocento. Ne La morte di Ivan Il'ič culmina la sua meditazione filosofica in una prospettiva metafisica, che però non si mostra se non di lontano.

P. 367, colpisce, a proposito di Salgari, la definizione della “sublime idiozia” di Sandokan, cioè un personaggio che riassume in sé le aspirazioni mitomaniache al genio romantico e al superomismo byroniano.

Le pagine su Stevenson sono un ritratto suggestivo di un uomo innamorato della vita e afflitto dalla malattia, gioioso e pur consapevole di tutta la desolazione del destino umano. Siamo di fronte forse a un personaggio in cui Nietzsche avrebbe riconosciuto l’incarnazione del suo superuomo ? Certo, senza il tormento del pensatore tedesco, Stevenson sembra abbia accettato la vita e l’abbia pienamente goduta nella consapevolezza della sua tragedia.

Il ritratto di Henry James, unito alla descrizione di alcune opere, è il frutto di una simbiosi tra l’animo di Citati e quello dello scrittore americano, la delicatezza psicologica e la profondità dell’uno si riverbera nell’altro che ce li restituisce come in una eco, in una modulazione suadente.

Le ultime pagine su Freud ci chiariscono la vera natura del grande analista : un sognatore e in parte un illuso, che abbracciò la pseudoscienza dell’epoca ritenendola infallibile e fondò la religione della psicanalisi.