Lev Tolstoj, La morte di Ivan Iljìc. Padre Sergio, Santarcangelo di Romagna, Rusconi, 2014
La morte di Ivan Iljìc (1886)
Pjotr Ivànovic è il tipico borghese ligio alle proprie abitudini di uomo superficiale dedito ai piccoli piaceri di una vita confortevole. L’incontro con la salma di Ivan Iljìc nella camera mortuaria gli desta soltanto un senso di fastidio. Così trascorre il funerale di Ivan Iljìc come una vuota formalità, anche nell’atteggiamento della vedova, preoccupata soltanto del prezzo della tomba e del costo delle esequie. E questa premessa fa da introduzione al racconto della vita del defunto, vita che sin dai primordi appare d’una mirabile ovvietà e banalità borghese.
Nella rievocazione della trascorsa esistenza di Ivan Iljìc si pone in risalto il suo anelito alla carriera, la sua ambizione a raggiungere uno stipendio di cinquemila rubli, per realizzare una vita “secondo il suo vero carattere di amena giocondità e di decoro”. Sennonché questa vita, una volta raggiunta la prosperità familiare, si muta dapprima in una alternanza di noia e di banalità e poi, con un piccolo incidente domestico, una caduta da una scaletta usata per sistemare delle tende, in una progressiva inquietudine.
L’inquietudine trova la sua giustificazione nella crescita di un dolore al fianco, nella irritabilità del non più sereno Ivan Iljìc, che decide di recarsi dal medico. Nello studio del dottore ha la rivelazione, sebbene più intuita che manifesta, di una malattia dai contorni non ancora definiti. Ma l’immagine del male è destinata a diventare più nitida e più minacciosa. E così egli si strugge al pensare allo strano dolore che lo perseguita ad ogni istante e non lo lascia mai in pace. La sua esistenza ne viene avvelenata e più egli vi pensa più il dolore aumenta e la virulenza della malattia. Egli osserva i familiari e gli amici e ricorda d’essere stato come loro, sano e spensierato e superficiale nella visione della vita. Ora invece sente di essere diverso e che la vita non è un sentiero contornato di rose.
Il decorso della malattia viene riferito con estremo realismo, così come l’evoluzione psicologica del malato. Il male è mortale e nonostante le promesse dei medici, Ivan Iljìc si rende conto di essere condannato. Alla fine la sua coscienza gli presenta il dilemma più straziante : è vissuto come doveva oppure tutta la sua vita è stata un errore ? Le sue preoccupazioni borghesi, l’ambizione di far carriera, il successo in società, tutto si manifesta per quello che è, un nulla. Conscio di aver vissuto nell’errore, Ivan si illude ancora confessandosi e comunicandosi negli estremi atti della fede, ma anche questo è una vana consolazione. Da ultimo ha l’improvvisa rivelazione di una luce che lo attende in fondo all’oscurità. Finalmente liberato dalla sofferenza si affida grato alla morte.
Padre Sergio (1890)
Il bel principe Kassàtskij in seguito a una delusione d’amore si fa monaco. Era ufficiale dell’imperatore, ma appunto la sua fidanzata, nel momento della sua dichiarazione, gli rivela di essere stata (e lo era ancora !) l’amante dello zar. In preda allo sdegno s’immerge nella disciplina della vita monastica, che sostituisce quella militare, nella quale eccelleva.
Ma le tentazioni del mondo e soprattutto quelle della carne lo tormentano, insinuandosi a poco a poco nel suo animo. Si sente un fondo di scetticismo illuminista nella scarsa fiducia delle possibilità umane di dominare completamente gli istinti. Si ricordi La monaca del Diderot, ma vi è anche un alone di quella morbosità decadente e un po’ compiaciuta che si incontra nella Taide (1890) di Anatole France (il monaco Pafnuzio) e nella novella di D’Annunzio Frà Lucerta (in Terra vergine, 1882).
L’opera di Tolstoj fu pubblicata nel 1912, ma già composta dal 1890, sicché può dirsi se non un modello per gli scrittori citati, senza dubbio analoga nello spirito e testimone d’una stessa temperie culturale.
All’inizio sembra vincitore sulle tentazioni della carne in un esito eroico e magnanimo, ma un semplice e inaspettato episodio mina l’edificio ascetico di virtù e rinunce che egli si è costruito nel tempo. Così il santo eremita cade nell’abiezione e, conscio della sua condizione di semplice peccatore, si umilia riducendosi a mendico e recandosi da una vecchia conoscenza, una povera vedova, che lo accoglie meravigliata. A lei confessa la propria caduta, umiliandosi come il più misero dei peccatori, ma è proprio nella disgrazia che si avvicina alla verità dell’esistenza umana.
Il principe divenuto eremita nell’ansiosa ricerca di Dio compie l’ultima metamorfosi e si trasforma in pellegrino vagabondo, finché arrestato viene mandato in Siberia. E qui, servo di un ricco contadino, nell’anonimato raggiunge la semplicità evangelica.
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