Gabriele D’Annunzio, Le vergini delle rocce (1895), Milano, Mondadori, I Meridiani, Prose di romanzi, vol. II, 2011
Sarà anche un “lavoratore dell’aggettivo” come lo definisce Papini, ma D’Annunzio, pur nella eccessiva ricchezza dell’ornamentazione verbale, riesce a infondere nell’immaginazione del lettore la sensazione fuggevole degli elementi naturali, come se dai corpi, dai colori, dalle forme nobilmente tornite promanassero emozioni che non sono il frutto dell’azione, spesso diluita e teatralmente artificiosa, ma di misteriose e segrete alchimie. E così, pur non possedendo l’efficacia della prosa di Baudelaire e la sua capacità di mirabile pittore, la sua rappresentazione si muta in evocazione di ambienti e di scenarii cui la parola come uno strumento di musica modula suoni incantatorii e maliose armonie.
Alla lettura sembrerebbe lo stile alquanto pomposo e invece si tratta di prosa poetica dove l’intonazione è quella d’un poema epico-fantastico, in cui il linguaggio si nobilita sino all’artificio e in cui la natura come la bellezza delle donne viene stilizzata e dissolta in sensazioni e colori e profumi, come i dipinti di Gustave Moreau.
P. 101 :
Andavamo tra il verde perenne: tra i bossi, tra i lauri e tra i mirti antichissimi, la cui vecchiezza selvaggia era immemore della sofferta disciplina. Appena qua e là rimaneva qualche vestigio delle simmetriche forme trattate un tempo dalle cesoie dei giardinieri; e io ero vigile a ravvisare nelle mute piante l'umanità di quelle sembianze non anche interamente scomparse, con una malinconia forse non dissimile a quella di colui che ricerca su i marmi dei sepolcri l'effigie consunta dei morti obliati. Un odore dolciamaro accompagnava i nostri passi; e a quando a quando taluno di noi, come per una volontà di riallacciare una trama disfatta, ricomponeva un ricordo della puerizia lontana. Ed ecco, risorgeva puramente la larva di mia madre; e pareva nutrirsi di tutte le cose che i nostri cuori esalavano nei silenzii intermessi, non distaccandosi ella dal fianco di Anatolia per mostrarmi la sua elezione. E un odore dolciamaro accompagnava la nostra malinconia.
P. 110 :
Nulla quanto il suono di quel riso poteva significarmi la profondità inaccessibile del mistero che ciascuna delle tre vergini portava in sé medesima. — Non era quello il segno fortuito di una vita istintiva dormente come un tesoro accumulato nelle radici stesse della sostanza animale? E non chiudeva i germi d'innumerevoli energie quella vita opaca e tenace su cui pur la coscienza di tanto dolore pesava senza soffocarla? — Come la scaturigine reca sul sasso arido l'indizio della segreta umidità sotterranea, così il bel riso repentino pareva salire da quel nucleo di gioia nativa che ogni più misera creatura conserva nell'intimo della sua propria inconsapevolezza. E per ciò su la mia commozione si chiarì un pensiero d'amore e d'orgoglio: “Io potrei fare di te un essere di gioia.„
Nelle pagine seguenti, dove parla il demònico alla coscienza di Cantelmo, si confronti il messaggio di Schopenhauer e le considerazioni su Leonardo da Vinci di Séailles (citato anche da Bergson nell’Evoluzione creatrice, secondo il quale la tesi di Séailles in Le génie dans l’art è che l’arte prolunga la natura e la vita è creazione).
Nel libro III la sequela delle sensazioni squisite e degli stati d’animo quasi allucinati si fa più pressante. L’ispirazione di D’Annunzio si nutre di questa sua particolare delicatezza che innanzi alla sensazione lo fa risuonare come uno strumento musicale ed effondere in una sinfonia verbale.
E’ la sua una vera e propria filosofia della sensazione, o talvolta della percezione e del presentimento come un sensitivo o un medium da sedute spiritiche, tanto vibra in un fluire di suoni, di immagini e visioni, esposto a tutti i venti delle nevrosi e delle più eccentriche alterazioni della psiche.
P. 152, la celebrazione della regalità infranta dal nuovo mondo moderno dominato dalle masse ha il suo emblema nella figura evocata di Luigi di Baviera, l’eroe d’un sovramondo immaginario, frutto dell’esaltazione musicale di Wagner. Ed è qui che si coglie il messaggio superomistico e aristocratico di D’Annunzio, l’eroe artista, l’intellettuale aristocratico che si contrappone alla bestialità e alla volgarità delle folle. Ma l’esito di quest’epica lotta è l’isolamento di un Des Esseintes, e l’anima gemella all’autore è quella di Huysmans, non quella di Nietzsche.
P. 153, la profezia di Cantelmo sul trionfo della Folla, del nichilismo apportatore di tragici deserti e infine sul disperato bisogno di novelli Eroi e di ardente devozione richiama la Psicologia delle folle di Le Bon, la cui conclusione mira appunto al superamento dell’abbrutimento delle masse nella creazione di un popolo nobilitato dall’ideale.
P. 167 e sgg., Cantelmo è il tipo del superuomo auspicato, ma stranamente è circondato da un ambiente decadente e pervaso dalla fragilità della vita e dal sentore della morte. E’ attratto da Massimilla, destinata alla monacazione, dalla sua fralezza, dai suoi turbamenti, dalla sua tragica storia d’amore. Un superuomo che celebra l’amore e la tomba !
P. 183, Anatolia, simbolo della positività e della forza, è anche lei in realtà una vittima, preda di un destino avverso che la condanna alla custodia di una madre folle, di un padre disperato e di due fratelli sull’orlo della pazzia. Le altre sorelle, come lei, subiscono la stessa condanna e il romanzo, che sembrava l’esaltazione della morale del superuomo, volge a un epilogo all’insegna dell’irrimediabile debolezza umana.