Antonio Marcianò, Rosario Marcianò, Alfredo Fraioli, Maurizio Pallavicini, Wyxyx, M. A. C. (Mai arrendersi al caos), Sanremo, Tanker Enemy, 2025 (Printed by Amazon)
Edmund Wilson ne Il castello di Axel a proposito del verso di Eliot ci illumina nel presentare quella tradizione del blank verse che ha in Shakespeare il rappresentante più famoso e quell’alternarsi di verso e prosa con lo scardinamento dei versi e delle rime tipico dei drammi del poeta inglese. A p. 21 dell’edizione italiana (E. Wilson, Il castello di Axel, Milano, SE, 1996) si legge :
Il moderno lettore di lingua inglese troverà ardua un’esatta valutazione dell’influenza di Poe; così come, passando ad analizzare le opere del simbolismo francese, potrà addirittura stupirsi del fatto che esse abbiano destato tanta meraviglia ai tempi loro. La composita varietà delle immagini; la volontaria mescolanza di metafore eterogenee; la combinazione di passione e di arguzia, di modi grandiosi e prosaici; l’audace fusione di spirituale e materiale – tutto ciò potrà sembrargli normale e familiare. Si tratta di procedimenti a lui già noti attraverso la poesia inglese del Cinquecento e del Seicento – Shakespeare e gli elisabettiani ne hanno fatto uso senza teorizzarli. Non è forse questo il linguaggio naturale della poesia? Non è la norma rispetto alla quale, nella letteratura inglese, il Settecento rappresenta un’eresia e alla quale i romantici si sforzarono di ritornare?
E’ la tradizione neolatina, francese e italiana, quella maggiormente legata alla logica del discorso poetico e al rispetto delle tradizionali forme metriche (soprattutto in Italia con il petrarchismo) e si capisce dunque come nel continente e soprattutto all’inizio in Francia il simbolismo abbia rappresentato un’assoluta novità. Ma bisogna considerare che Mallarmé, grande caposcuola di esso, era professore d’inglese e indubbiamente la scuola romantica inglese e Shakespeare devono avere avuto un certo influsso su di lui. Da notare poi che il cosiddetto verso libero, o meglio in francese vers libre, non è che il verso francese concepito secondo la metrica inglese e perciò dovrebbe essere ritenuto piuttosto un verso “irregolare”. Quanto al nostro verso libero, in Italia, devo dire che i miei connazionali non hanno in realtà nessuna idea di cosa esso sia, e quando ne concepiscono (e ne partoriscono tanti, anzi tantissimi, perché nel campo della “poesia” non esiste a quanto pare l’inverno demografico) compongono dei pensierini (non sempre belli) in prosa stentata. Non mi riferisco certamente ai grandi della nostra letteratura del Novecento, consapevoli del loro operato e innovatori nel loro magistero letterario, ma a quell’alluvione di presuntuosi somari che si pavoneggia e pontifica nelle miriadi di concorsi e certami poetici, e, incapace anche solo di comporre un sonetto, ci riempie le orecchie di recite abominevoli sul canale You Tube e sforna libriccini di versi formato giapponese. A questi illuminati dal sacro fuoco sarebbe bene consigliare una maggiore riflessione e ponderazione, una presa di coscienza del mistero del verso.
Innanzi tutto cos’è un verso e perché se ne parla? Esso è tradizionalmente elemento proprio della poesia, ma questa non necessariamente è legata al verso. Come già dicevano gli antichi, vi possono essere composizioni in versi che non hanno nulla di poetico e infatti Aristotele affermava che tra Omero ed Empedocle non vi è nulla in comune tranne il metro.
D’altra parte siamo soliti attribuire il termine “poetico” a un bel paesaggio, a un’opera d’arte, all’espressione d’una statua, a un brano musicale, al contenuto di un romanzo. Quindi tra poesia e verso c’è una certa distanza e l’uno non è sinonimo dell’altra. Sembra poi superfluo anche solo accennare al fatto che “poesia” deriva da un verbo del greco antico che significa “creo”, “produco” e quindi il suo significato è di per sé molto generico. Ma la nostra tradizione letteraria a partire dalla più remota antichità ha legato la poesia al verso, perché questo era unito strettamente al canto, a sua volta considerato invocazione e preghiera, formula rituale, collegata ai riti magici e apotropaici. La formula magica richiede precisione e ripetizione, il canto melodia, così si spiega la nascita del verso.
Dunque la poesia è tradizionalmente legata al verso e quindi al canto. Ma con il trascorrere dei secoli il connubio di poesia e musica è venuto meno, com’è noto. E tuttavia il verso è rimasto e con questo bisogna fare i conti. Vogliamo fare il verso libero? Bene. Libero da che cosa? Dalla rima? E’ stato fatto con la nascita dell’endecasillabo sciolto già nel XVIII secolo. Dal numero delle sillabe? Anche questo è avvenuto e se ne hanno esempi anche prima del Novecento. Dal numero delle sillabe e dal ritmo degli accenti? Allora perché comporre versi? Vogliamo il verso assolutamente libero? Un non-verso, oppure un versaccio, una pernacchia?
Il risultato dell’inconsapevolezza degli aspiranti poeti è come quello dell’apprendista stregone, un pasticcio. Una sequela di frasette ridicole che hanno la pretesa di esprimere pensieri profondi, che però sono tanto profondi da non venire più a galla.
Prendiamo invece ad esempio uno scrittore consapevole, che ha scritto versi liberi : Cesare Pavese. Come giustamente nota Tiziano Scarpa nella sua introduzione alle poesie dello scrittore, la metrica di Pavese è proprio quella del blank verse inglese, cioè tiene conto solo dell’accento ritmico e non del numero delle sillabe, così come è computato nella verseggiatura italiana. Ne segue che soprattutto nei componimenti più “maturi” si avverte comunque una certa regolarità nella lettura nonostante la lunghezza irregolare dei versi. Questo è infatti il vero verso libero.
Si è detto che la parola “poesia” deriva da un verbo del greco antico che significa “creare”. Ebbene questo attiene chiaramente al contenuto del verso, sempre che il componimento venga realizzato in versi e non in prosa. Perché molti sono stati i poeti, soprattutto in epoca moderna, che hanno scritto poesia in prosa, basti pensare a Macpherson, ma naturalmente non bisogna dimenticare Shakespeare, e poi pensiamo a Rimbaud, a Lautréamont. Qual è l’intento del poeta, dove vuole arrivare, che cosa ci vuol far vedere con le sue parole o capire? Ovviamente questo dipende dal poeta, dalla sua personalità, dalla sua mente. Ma in ogni caso egli trasferirà in parole e figure aspetti della vita che altrimenti sarebbero perduti e dimenticati. Egli coglie l’istante e gli dona un alone di eternità, nella metamorfosi dell’immagine ideale. E quanto più è alto e nobile il suo intento tanto più egli s’avvicinerà al sovrumano regno della Bellezza. Inoltre egli è capace di cogliere il segreto delle cose, della realtà comune, del mistero che si nasconde ai profani. Sua è la sensazione che vi sia qualcosa di vero oltre le parvenze, un mondo oltre il mondo umano.
Nel libro che presento, consiglio tra le altre assai pregevoli questa poesia di Antonio Marcianò, intitolata appunto “Oltre”, di cui riporto alcune strofe :
Un giorno andrò oltre le alture,
oltre le vette avvolte nel perenne
silenzio, dove colpisce la scure
del fulmine, all’ombra solenne
delle vette, su sentieri a precipizio
sul cielo. Laggiù la notte sprofonda
nell’aurora ed ogni fine è un inizio.
Laggiù l’alba dilaga e inonda
valli e pendii, scintilla sugli abeti,
verdi stalagmiti grondanti luce …
Il destino tradirà i suoi segreti.
L’antologia infatti contiene una vasta raccolta di poesie di Marcianò cui segue un minor numero di composizioni dovute alla penna di altri autori (fra questi anche lo scrivente).
Antonio Marcianò esordisce conducendo il lettore tra poemi narrativi e di contenuto storico, tra effuse liriche e istantanee folgorazioni. Egli possiede in misura ammirevole la conoscenza dell’Arte e soprattutto ha la rara capacità di cogliere nell’istante il segreto senso della vita. Come scrive Edgar Allan Poe nel suo Principio poetico, è vero poeta non colui che descrive semplicemente con belle frasi e belle parole un paesaggio o una creatura attraente, ma chi si protende nello sforzo di voler raggiungere la Bellezza al di sopra di noi, la Bellezza celeste e in ciò manifesta l’immortalità donata all’anima umana. In tale innalzamento verso un mondo superiore egli è solo e di questa solitudine porta la pena, nel dolore dell’estraniamento e della diversità. Allora lo coglie la delusione, lo scoraggiamento, la solitudine senza conforto, come nella lirica “That day” :
Ma solo nella tua stanza, la fronte
sul vetro, attendi chi non arriva.
Conosci solo l’inerte orizzonte,
fra silenzi e memorie, alla deriva …
Devo dire la verità, proseguendo nella lettura ci si imbatte in componimenti di vario livello, talvolta troppo ricchi di termini ricercati o dotti, ma le poesie di lessico più semplice e di stile lineare ci pongono di fronte a una personalità complessa, a un pensiero che si delinea in vertiginose altezze, a un’anima nobilmente sofferente alla ricerca della risposta all’eterna domanda sullo scopo dell’esistenza, come si avverte in “La vita si dissolve in un istante” :
Quando sarò nelle lande del mistero
e il passato sarà un colore muto,
non piangete : si piange chi si è perduto.
Io avrò trovato, infine, il mio sentiero.
Talvolta la disperazione prende il sopravvento, il senso angoscioso di una vita perduta, come nella bellissima lirica “L’angelo”, dove si immagina che l’angelo custode parli al suo pupillo con parole di conforto che però non riescono a consolare.
La vita fugge e lascia dietro di sé un velo di malinconia in “Fine dell’estate”, dove l’eleganza del dettato si accompagna alla profondità del sentimento :
E vai, mentre l’ombra s’allunga;
i platani chinano le fronde presaghi :
ora qualcosa per sempre si spezza.
L’eco di stagioni lontane, lunga …
sembra che in spazi eterni dilaghi
settembre e la sua dolente bellezza.
L’avvicinarsi dell’autunno, anche in senso metaforico, suscita uno stato d’animo pervaso da cupa malinconia in “Il colchico”, componimento pregevole sia per la metrica perfetta di gusto pascoliano sia per il lessico :
Solitario fiore, tu non conosci
il tiepido favonio e le vanesse
che si librano leggere fra scrosci
di luce; tesse
un velo bigio la pioggia autunnale
per te, quando le Pleiadi arcane
tramontano nella notte spettrale,
cupa, inane.
Così la consapevolezza della fuga del tempo, della brevità d’ogni gioia, dell’illusione della vita è il messaggio de “La meteora”, poesia, come tutte queste di contenuto meditativo ed esistenziale, intensa e universale, cosmica nel suo pessimismo “leopardiano”. E’ un pessimismo che coinvolge tutta la modernità, la società caotica rappresentata dal complesso disordinato e tumultuoso delle città, come appare in “Non so”, dove si contrappone la spensierata fanciullezza che corre in campi di grano ai giorni che non sono più gli stessi della vita adulta, esiliata nel tedioso e cupo tumulo urbano. L’alienazione conduce a una sorta di sdoppiamento in “Un altro me stesso”, dove s’immagina durante un viaggio in treno un colloquio con un interlocutore al quale intimamente non si presta la minima attenzione e si affidano a una sorta di meccanismo esterno le risposte.
Il filone interpretativo sin qui tracciato è a mio parere quello dotato di maggior persuasione, ma è facile smarrirsi nel numero forse eccessivo delle liriche e dei poemetti, che denota una vena copiosa, ma che avvolge il lettore in una selva che sarebbe opportuno sfrondare. Ciò nulla toglie al valore della poesia di Marcianò, che raggiunge vette inaccessibili alla quasi totalità dei contemporanei nonché agli altri scrivani inversi. Né mi riferisco ai bellissimi paesaggi e descrizioni di natura che sono frequenti, piuttosto alla necessità di disporre le poesie secondo una tematica più evidente, in modo da non disorientare il lettore.
Nella lirica “Esilio”, in versi liberi ma disposti secondo un’armonia interna, si coglie il motivo fondamentale dell’esclusione, della solitudine, del “male di vivere” montaliano :
Esule dalla vita,
ne ricomponi gli sparsi frammenti :
[…]
Nel vuoto della notte
sprofonda il silenzio.
Qui si nota anche una certa affinità con le poesie di Pavese, attraversate dal medesimo senso di stupore angoscioso innanzi all’esistenza.
Un motivo ricorrente è quello della fuga del tempo, anzi direi dell’inafferrabilità del tempo, come in “Ciclisti” :
Domenica mattina :
la strada che scende verso il mare
è silenzio e ombre fragili di eucalipti.
D’un tratto
la nuvola rosso-oro di un gruppo di ciclisti.
Un istante
ed è già scomparsa alla vista.
Non si cattura il tempo e non si comprende la verità. In “Un sogno” l’ardire d’un angelo viene punito nel gelo dell’incomprensione, non basta la conoscenza delle realtà immateriali se non si intuisce l’intima verità del mondo. La poesia di endecasillabi in quartine a rima alternata è ispirata al Vathek di William Beckford, dove il califfo temerario subisce la sorte di chi sfida i limiti posti al destino umano.
E il destino è come il volo senza scopo d’una farfalla notturna nell’elegante componimento d’intonazione pascoliana “La pavonia” per la precisione del lessico nel nominare fiori, piante, insetti. Questa attenzione ai termini scientifici della botanica e della zoologia è diffusa in tutte le poesie, e parimenti si estende alla cura dei versi, alla metrica, alle rimembranze letterarie. Anche l’invocazione finale, colma d’angoscia, tradisce una notevole affinità con il sentire del poeta di Castelvecchio.
In molte poesie si sente la nostalgia per un personaggio femminile dai lineamenti vaghi, la presenza di un amore perduto, in altre appare il desolato rimpianto della madre, come in “Nostalgia”, dove i ricordi della vita familiare si fanno vivi e sfumati nel contempo, in “Carole” e in “Arazzi” in cui tra il sonno e la veglia la voce della madre parla al figlio dalle remote terre della morte. E così bellissima è la poesia “Mirti” dove nitido appare il ricordo della madre :
Un’ombra appena sulla fronte,
un velo di mestizia negli sguardi.
Madre, anche se sei lontana
e so che è oramai tardi,
accogli il mio amore, non sia vana
la pena. Andiamo fra i mirti,
lungo sentieri verso le stelle.
Qui, tra parentesi, si può notare l’uso dell’accento ritmico soltanto. Ma, messa da parte la pedanteria metrica, si tratta di versi semplici di una efficacia straordinaria.
La presenza vaga della donna si avverte, come ho detto, qua e là, più evidente in “Fiori di campo”, in “Sogni ancora, amica mia?”, sempre quartine che racchiudono immagini di vita desiderata e svanita nel nulla.
Nel “Prugno” prevale il tema della noia :
Ma il tedio su ogni cosa stende
un velo grigio : tutto è vano,
vuoto e nulla ormai accende
una vita inerte, un ricordo lontano.
Mi avvio verso casa triste e solo.
E’ perduta per sempre la serenità.
S’infrangono le onde sul molo,
tramonta il sole sulla città.
E in “Senza amore” risalta la confessione :
Traspare la filigrana dei rami,
sulle vette indugia qualche bagliore.
Vorresti, ma non vivi più, non ami …
E la vita è cenere senza amore …
In “La voce del fiume” nella solitudine della notte ascolta la voce del fiume e immagina un paesaggio campestre sotto le stelle, le colline azzurre, le “pendici argentate”, i “boschi nereggianti”, ma la voce non esprime nulla, è muta.
In “Monte Saccarello” e “Che cosa resta?” la nostalgia, il senso di disperata solitudine si accompagnano al rimpianto per l’amore finito, per un’illusione d’amore :
Nel tiepido chiarore che scema,
mentre indugia il sole sui fastigi,
il tuo viso sfioro con mano che trema.
Vorrebbe il poeta trovare nella propria Arte una consolazione dalla delusione del vivere, ma “La poesia non salva” :
Oscilla il silenzio
impiccato al ramo del vuoto.
[…]
Ma la poesia non salva :
dalle vene
fuoriesce la vita
e gli spari,
che ancora echeggiano
nel tetro cavedio,
non erano a salve.
Mi sembra di aver dato al lettore un’idea sufficientemente chiara del messaggio e dell’Arte di Marcianò. Naturalmente non pretendo di esaurire l’argomento, ma questo richiederebbe al lettore un’attenzione troppo prolungata e al critico in questione una disamina tanto impegnativa e onerosa da partorire un libro, e per il momento se ne ritiene incapace.
In appendice al volume seguono alcune poesie di autori che il nostro poeta ha gentilmente ospitato, su questi giudicherà direttamente il lettore.
Rosario Marcianò ha ornato l’opera d’una suggestiva illustrazione in copertina e di links che rimandano alle sue melodie.
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