domenica 15 giugno 2025

In aenigmate et quasi per speculum

 


De vita tua aeterna certus eram, quamvis eam in aenigmate et quasi per speculum videram; dubitatio tamen omnis de incorruptibili substantia, quod ab illa esset omnis substantia, ablata mihi erat, nec certior de te, sed stabilior in te esse cupiebam.

Augustinus, Confessionum libri XIII, VIII, 1


In tumida fonte cinta di muschio

il riflesso affiora coronato

d’una luce dorata e bizantina,

quale antico mosaico, imbrunito

nelle ombre del tempo, il volto appare.

Il bellissimo viso aureolato

dall’incanto dell’iride maliosa,

un sorriso dell’estasi notturna

nell’abbraccio del dono meduseo.

Bocca delicata, ed occhi languidi

d’amore, ad una candida luce

scintillante visione di dea !

Quale responso fra le fragili onde

si cela, quale celeste annunzio ?

O dea rispondimi ! O tu, dea,

volgiti a me, confida il tuo segreto !

Quando a me in una nube verrai

di passeri fremida d’agili ali ?

In silente notte sotto le stelle

palpiti candido raggio di luna,

quale bellezza cerchi sulle acque

tremanti di pudore ? Quale avorio

di membra ? Forse il tormento insidioso

delle lacrime ti avvolse per sempre

nel suo fascino e il rimpianto ti avvinse

coi suoi sogni impossibili ? Ma non sei

tu stessa un impossibile sogno ?

Fluiscono immagini vane nell’acqua,

un seguito d’inganni, una ridda

di fiottanti larve, cui risponde

la mente vacillante in un oscuro

Tartaro. Ma il destino non è questo

dell’uomo, in alto sorge il Sole, luce

s’effonde alle radici delle selve.

Tutto è luce. A sé chiama il dio.

Tu questo sapevi, tu che ora taci

nel rimpianto.

                       Ma dove le parole ?

Dove se ne vanno vuote di senso ?

Ed oltre le immagini dove pulsa

il tuo cuore ? Volgi il viso d’ambra

al fondo luminoso, il mistero

dov’è del tuo orgoglioso metro ?

L’indicibile modo ti risponde,

ti placa di Bellezza un’infinita

estasi, il culmine del desiderio

s’effonde alle luci, innumerevoli

specchi. Tu cerca la parola sola

che me tutto avvolga come un manto.


giovedì 1 maggio 2025

Giorgio Colli, La natura ama nascondersi

 


Giorgio Colli, La natura ama nascondersi, Milano, Adelphi, 2014


P. 29: “Dioniso da collettivo diventa individuale, anzi veramente divino, oltrepassando nell’abisso noumenico la distinzione gioia-dolore; di fronte a questo abisso il mondo si svela per la prima volta nella sua vera natura fenomenica, che è espressione di interiorità fondamentali.”

Il θυμός, l’interiorità individuale, si esprime nell’adesione al flusso trascinatore di Dioniso in un’adesione gioiosa di esso, prima di piombare nel pessimismo orfico che nega la vita terrena e si rifugia nell’immortalità dell’anima e nel ritualismo dei gesti purificatori che hanno lo scopo di giustificare la vita stessa in funzione di una vita ultraterrena. Direi che Colli è uno dei migliori interpreti di Nietzsche, e soprattutto ha capito che Nietzsche non è materialista né tantomeno positivista, il suo “senso della terra” non è il razionalismo scientifico, ma coincide con l’estasi dionisiaca di fronte alla corrente trascinatrice del vitalismo che supera qualunque trascendenza. Non esiste un al di qua e un al di là, tutto è dovunque.

Bisogna però dire che la visione di Nietzsche ossia la visione dionisiaca del mondo non contraddice quella neoplatonica o gnostica o ermetica. Il De mysteriis di Giamblico, I, 9 riporta : “La luce visibile è un solo continuo, dovunque lo stesso tutto…”. E così anche Bergson non ci raffigura la coscienza che come un interminato flusso.

P. 34, a proposito della decadenza della filosofia all’epoca dei sofisti : “Protagora … si prosterna senza dignità al demos, dichiarando l’eguaglianza degli uomini, parola sacrilega.” E’ chiaro qui l’insegnamento di Nietzsche, ma è anche platonico perché nella Repubblica Platone distingue i vari tipi umani a seconda del predominio di una delle parti dell’anima.

P. 33, nonostante la decadenza del mondo greco, dovuta al razionalismo e che culmina con Aristotele, si ha un breve ritorno all’illuminazione presocratica con Plotino, l’ultimo grande illuminato ed entusiasta. E questo conferma l’osservazione precedente a proposito di p. 29, e cioè che la visione dionisiaca del mondo non contraddice quella neoplatonica ed ermetica.

P. 171, a proposito di Parmenide (la sua interpretazione pare avvicinarsi alla filosofia indiana Sankhya) dice che sembra che il filosofo greco “non si limiti a parlare di un unico essere, ma ammetta parecchi ἐόντα, non bene distinti è vero tra loro, ma neppure fusi in un solo ἐόν.” In questo modo Parmenide ammette una pluralità di essenze.

P. 173, nella sua originale interpretazione Colli ribadisce l’impossibilità di concepire un essere franto nella molteplicità che in quanto tale è illusoria, sia un unico essere limitato, perché ciò presuppone la realtà di un non essere fuori dall’essere, o un altro che l’essere, che però necessariamente sarebbe porre sempre qualcosa, cioè essere.

P. 174 : “Tutto è unità, in quanto ‘è continuo, da qualunque punto io cominci’, e proprio questo persistere identico, moltiplicato in infiniti punti di partenza indifferenti, centri irradianti che impercettibilmente trasmutano, costituisce la variegata molteplicità noumenica. Con ciò la forma espressiva balza d’un tratto intuitivamente concreta, in una sfera riempita di cammini circolari, dove quanto è esterno si riconosce come proprio e identico, e ogni centro di vita riprende ciclicamente a pulsare quando il suo fremito è trascorso per le infinite vie che si aggirano nella pienezza dell’essere.”

P. 199, nella trattazione su Eraclito (ma anche su Parmenide) Colli insiste sempre sull’intervento di una facoltà interiore che illumina l’essenza della realtà e la sottrae all’arbitrio illusorio del soggetto perso nel fenomeno. Ma di che si tratta ? Che cos’è questa facoltà interiore ? Il filosofo ci suggerisce la parola “intuizione”, ma non è essa stessa un’illusione e un arbitrio ? Chi ci garantisce della sua verità ? Chi mi garantisce che la presunta intuizione non sia altro che il volere le cose in un certo modo, un autoinganno, un bendarsi gli occhi e immaginare quello che non è ?

P. 208, il capitolo su Eraclito, pur nella inevitabile complessità dell’esegesi, ci svela l’impostazione di fondo. Colli nell’individuare l’opposizione esistenziale tra esterno ed interno, tra quantità e qualità, tra apparenza ed essenza, va oltre e, come Nietzsche, si immerge nell’abisso caotico dell’indistinto e dell’indicibile, in cui la natura ama nascondersi. Non vi è dunque una ragione ultima delle cose, ma “la vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera : reggimento di un fanciullo”, nel frammento di Eraclito.

P. 217, il cap. su Empedocle è anche, oltre una disamina dell’opera del filosofo, una sorta di celebrazione del potere creativo della poesia : “La poesia diventa fisica e filosofica, e l’intero mondo dell’apparenza è espressione, incatenata nel ferreo ciclo della necessità in cui i motivi poetici compaiono in forme scultorie, in sintetiche parole immutabili, e in cui nel flusso eternamente rinnovantesi del tempo si sgrana la molteplicità indicibilmente fissata al di là di ogni rappresentazione. Una radicale trascendenza viene così ridotta totalmente in termini di vita concreta, plastica, individuata, e il pessimismo che spezza ogni determinazione non si consuma in un tormento distruttore, ma si risolve in un ottimismo più forte, che nell’espressione trova un raddoppiamento della realtà e che ricostituisce al di là della rottura di ogni limite una nuova figura pulsante da contemplarsi.”

P. 223, è avvertibile l’interpretazione in chiave nietzscheana del pensiero di Empedocle o anche in chiave bergsoniana : “… l’essenza noumenica di ogni realtà è il suo impulso vitale invisibile a reagire in quanto la circonda, a congiungere se stessa con il tutto, ritrovandosi fuori di sé …”. Dove è evidente che il noumeno non è un’ipotesi astratta o un’idea iperuranica, ma il principio interiore che si identifica con la coscienza e che si manifesta, si esprime nel mondo della materia, non dunque separato da essa ma forza agente su di essa.

P. 227, nell’interpretazione del pensiero di Empedocle trova sviluppo e compimento l’intuizione originaria di Colli, che egli aveva già manifestato in Apollineo e Dionisiaco, opera della giovinezza. Al di là dell’influsso di Nietzsche qui troviamo una posizione del tutto originale che al limite si potrebbe accostare all’intuizionismo di Bergson : “Al di là di ogni apparenza sta il mondo indicibile del φρονεῖν, dove le determinazioni svaniscono. Nella divina intimità la dispersione si unifica, cade ogni limite di estraneità, si scopre in un distacco inesprimibile la straripante ricchezza seminale, che è abissalmente insita nella molteplicità visibile :

Soltanto un cuore sacro e indicibile sussiste allora,

Che con veloci pensieri si slancia attraverso il mondo intero.”

P. 264, l’analisi del Fedone pone alla luce un’interpretazione del tutto originale del pensiero di Platone e cioè la sua origine e fondamento dionisiaco, nell’isolamento dell’individuo nella propria interiorità irraggiungibile per altri, egli posa la prima pietra dell’edificio filosofico, che non poggia, contrariamente a quanto si crede, sull’astratta razionalità, ma sull’intimità dell’anima e sul mistero indicibile della sua essenza.

P. 271, se Platone non fosse stato poeta non avrebbe elaborato la dottrina delle idee che ha come fondamento una concezione pluralistica della realtà. Avrebbe infatti affermato piuttosto un monismo mistico quale si diffonderà in seguito con i neoplatonici o prima di lui aveva sostenuto Parmenide. Ma : “In quanto poeta, egli è portato ad amare profondamente ogni cosa del mondo che cada sotto i suoi occhi, a scoprire una bellezza in ogni oggetto visibile, a trasfigurare liricamente ogni realtà prosaica.”

P. 288, parlando del Fedro e del mondo iperuranico è da notare il misticismo di Platone che introduce il viaggio dell’anima in uno spazio di pure essenze di cui è partecipe nello slancio dell’eros metafisico, che non è pura razionalità, ma “impulso dell’intima spontaneità primordiale”.

P. 306, l’idea in Platone non è astratta, ma intuitiva, è intuizione e sentimento. Questa è l’interpretazione originalissima del Parmenide, che Colli affronta (forse in chiave nietzscheana ?) affermando che Platone è scettico e propende a negare la possibilità di una conoscenza razionale (p. 303).

Nel cap. X, “Spegnersi di un mondo”, l’analisi di Colli si avvicina sempre più all’intuizione quale fondamento della conoscenza, in un atteggiamento prerazionale che si rifà a Spinoza e Schopenhauer : “Non solo la Critica della ragion pura è anticipata, ma i suoi risultati non sono ritenuti in un certo senso una cosa seria” (p. 317). Il noumeno nel suo isolamento viene accostato al Prajāpati delle Upanishad, a Puruṣa (Uomo Cosmico primordiale), (p. 318, nota 11). Si veda, per la tradizione indiana, Roberto Calasso, L’ardore, 2010.

P. 324, la concezione etico-politica della Repubblica è frutto della decadenza del pensiero platonico così come in genere gli altri suoi scritti politici.


sabato 19 aprile 2025

Honoré de Balzac, La peau de chagrin

 








Honoré de Balzac, La peau de chagrin, Club des libraires de France, riproduzione dell’edizione del 1838, Paris, H. Delloye et Victor Lecou



L’ingresso del giovane alla roulette del Casinò è presentato come una discesa all’inferno da parte di un dannato. Vi è già in Balzac molto di Dostoevskij.

P. 43, il vecchio mercante ebreo mostra al giovane damerino aspirante al suicidio (per aver perso tutte le sue sostanze al gioco) una pelle di zigrino dove è impresso il sigillo di Salomone. E qui viene fuori tutta la mania esoterica del secolo, compediata nella figura e nell’opera di Éliphas Lévi.

P. 58, ecco che leggiamo per la prima volta il nome del protagonista, Raphaël, dopo il suo incontro con i tre compagni di baldoria. E’ ormai uscito dal negozio del mercante ebreo, dove ha potuto avere ragguagli sulla misteriosa pelle di zigrino ed è stato avvertito del suo potere di soddisfare ogni desiderio, ma anche di condurre alla morte ! Pure Raphaël ha accettato di ricevere il dono fatale. La scena seguente del banchetto in casa del milionario riecheggia la “Cena di Trimalchione” del Satyricon di Petronio ed è occasione di trovate davvero comiche e di giochi di parole.

Di seguito, la descrizione delle giovani cortigiane, come ad esempio Aquilina, dimostra una capacità di osservazione e un’esperienza della bellezza femminile davvero notevole.

P. 96, la morale di Euphrasie è quella del marchese de Sade, ella sembra la sorella malvagia di Justine, Juliette. Ma il suo pensiero è quello delle ragazze d’oggi, divertirsi, amoreggiare finché si è giovani, senza mai sottostare al maschio patriarca. Bella prospettiva, se la giovinezza e la bellezza fossero eterne !

P. 120-122, nella confessione di Raphaël a Émile si avverte qualche elemento autobiografico di Balzac oltre a un atteggiamento romantico di rivalsa dell’Io che culmina nell’evocazione di Byron. Si preannuncia il futuro eroe dannunziano. Anche nell’eloquio fluente che contrasta con lo stile tutto azione di Dickens, si sente lo scrittore dandy. Si veda anche la prosa d’un Barbey d’Aurevilly e di Huysmans. Balzac è un maestro di eloquenza.

P. 134, sempre nella lunga confessione di Raphaël apprendiamo che il personaggio era autore d’una Théorie de la volonté, “ce long ouvrage pour lequel j’avais appris les langues orientales, l’anatomie, la physiologie”. Che sia un’eco del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer ? Sembra anche miracolosamente anticipare Bergson !

P. 152, Raphaël continua a narrare e riferisce del suo incontro con la nobile russa, la contessa Foedora, bellissima ed algida, che, pur aprendo la sua casa a tutti gli intellettuali e politici di Parigi, non si concede a nessuno. Costei, informata da Rastignac, riceve nel suo palazzo Raphaël accompagnato appunto da Rastignac, che ha combinato l’incontro. E’ un colpo di fulmine. E la frase pronunciata da Rastignac irretisce definitivamente Raphaël : “Cette femme n’est-elle pas une énigme ?”

Seguono la narrazione della corte che Raphaël fa a Foedora e (p. 166) le schermaglie amorose. Foedora è il tipo classico della femme fatale, che si ritrova generalmente replicata nei romanzi dell’epoca : “Et j’aimais toujours, j’aimais cette femme froide dont le coeur voulait être conquis à tout moment, et qui, en effaçant toujours les promesses de la veille, se produisait le lendemain comme une maîtresse nouvelle” (p. 168).

Il “crescendo” della passione d’amore viene analizzato in tutte le sue sfumature, con eloquenza e grande capacità di introspezione psicologica. Per sostenere il tenore di vita di cortigiano di Foedora, già povero, s’indebita ulteriormente sino a non avere più un soldo. Anche il lavoro di ghost-writer offertogli grazie all’amicizia di Rastignac non è sufficiente.

P. 194, nonostante i sogni, le illusioni e i servigi di Raphaël, che si umilia recandosi in visita da un suo parente ricco per soddisfare a una richiesta di Foedora, la gran dama si dimostra sempre più una donna insensibile, fredda e arida.

P. 200, sempre a corto di quattrini, Raphaël non ha il coraggio di recarsi al Monte di Pietà e cerca soccorso dalla sua pigionante e da sua figlia Pauline, che forse è innamorata di lui. Ma scopre in seguito a un breve colloquio che non è così. Tuttavia Pauline, che ha una forte simpatia per lui, prendendogli la mano gli legge il destino quasi involontariamente e gli dice che la donna ch’egli avesse amato l’avrebbe ucciso.

P. 212. Trascinato dalla folle passione per Foedora, Raphaël s’introduce nel palazzo quando la contessa riceve molti ospiti e penetra in camera sua. Qui si apposta dietro le tende d’una finestra e, quando la donna entra nella stanza, assiste al colloquio tra lei e la cameriera e poi la scorge nella sua splendente nudità. Scopre così dal colloquio con la serva Giustina, che Foedora non ha mai in realtà amato nessuno e scorge chiaramente nella perfezione d’un corpo ancora inviolato la sua verginità. Ma si rende conto, nonostante la vicinanza momentanea, della sua abissale distanza dalla contessa. Infatti nell’incontro che segue con la contessa, in seguito a un appuntamento concessogli nel salotto di lei, Raphaël ha modo di constatare quanto la donna gli sia lontana, avvolta in un manto di inavvicinabile indifferenza. Egli allora in preda alla disperazione promette di allontanarsi definitivamente e di non vederla mai più.

Incontra Rastignac che lo converte a una vita di dissipazione, pari a una lenta morte, ma senza dubbio piacevole. Così si reca a casa dove saluta per l’ultima volta Pauline in una scena commovente quanto scontata. E’ chiaro che ormai di fronte al bivio egli ha scelto la via del vizio e della depravazione. In queste pagine si sente quasi l’eco del futuro Dorian Gray.

Dopo la vincita di una grossa somma al gioco da parte di Rastignac Raphaël ne dispone per la metà e si precipita nell’abisso di una vita dissoluta. Ma non si è liberato di Foedora. Una volta la incontra sulla via ed è ricambiato da uno sguardo beffardo e da una frase di circostanza.

Ormai alla fine del suo racconto-confessione all’amico Émile, Raphaël si ricorda della pelle di zigrino che porta con sé ed è preso da un’improvvisa esaltazione (p. 247). L’esaltazione è dovuta ai litri di vino e liquore ingeriti durante l’orgia notturna. E’ curioso che però ne risenta solo ora, dopo aver profuso un fiume di eloquenza distinta in disquisizioni di ordine morale, osservazioni psicologiche ed esistenziali, contornate da un’avveduta narrazione autobiografica. Balzac ci fa notare che era ubriaco soltanto poco prima di addormentarsi ! L’ampia digressione è dunque terminata, e dopo essere stati informati degli antefatti ora veniamo introdotti, finalmente, alla vicenda vera e propria, che è la giustificazione del titolo del romanzo.

Il mattino dopo l’orgia, nel palazzo del notaio, è lo stesso Taillefer che annuncia dinanzi alla folla dei convitati che si apprestano a fare colazione (p. 254) una favolosa eredità di sei milioni di franchi disposta in favore di Raphaël de Valentin. Nello stesso momento Raphaël misura la pelle di zigrino su un tovagliolo che recava il segno del contorno precedente e nota con terrore che essa si è di molto rimpicciolita. Colto da una strana premonizione sulla brevità della sua vita, egli comincia a rendersi conto che il compimento dei suoi desideri lo porterà alla morte.

Nel capitolo seguente, L’agonie, veniamo a sapere che il marchese Raphaël de Valentin è il proprietario d’uno splendido palazzo a Parigi e conduce vita da viziato milionario, ma è minato nel fisico da un’oscura malattia. E’ dominato dalla tirannia della pelle di zigrino, che, minaccia costante, è appesa dinanzi a lui nella sua camera, e che lo costringe a reprimere, pena la morte, qualunque desiderio. Minato nel fisico, ha tutto, è ricchissimo, ma non può soddisfare neppure il minimo capriccio. Sprofondato in una poltrona, febbricitante, riceve il suo vecchio professore dell’università, il quale resta assai sorpreso di vedere così malridotto il suo giovane allievo.

La pelle di zigrino può aver suggerito a Oscar Wilde il ritratto vivente di Dorian Gray, che si modifica a seconda dei misfatti del protagonista, ma è evidente che, mentre Dorian Gray non risente affatto delle conseguenze dei suoi atti, Raphaël è invece costantemente sotto l’incubo del restringimento della pelle di zigrino, che simboleggia ormai la brevità della sua vita.

La visita dell’anziano professore, che lamenta di essere stato privato della cattedra per motivi politici e gli formula alcune richieste, lo getta in uno stato di alterazione mentale, poiché egli scorge una lieve diminuzione della pelle di zigrino non appena esprime un augurio, rivolgendosi all’ospite. Dopo una terribile crisi si reca al teatro lirico ad assistere alla rappresentazione della Semiramide di Rossini e qui vagando nei corridoi scorge con disappunto uno strano personaggio. Si tratta del mercante che gli ha consegnato la pelle di zigrino e che ha ora i tratti evidenti di Mefistofele, nello sguardo diabolico con il quale gli si rivolge. Costui è accompagnato dalla bella e corrotta Euphrasie che sembra richiamare il povero marchese malato a una vita di dissipazione, da lui ormai aborrita. Subito dopo incontra da lontano lo sguardo perfido e maliardo di Foedora, ma le resiste sdegnandola. Non può però resistere a lungo a un’altra apparizione vicino alla sua loggia. Si tratta di una bellissima donna ammirata da tutti, meno che da lui. Ma dopo poco anch’egli cede e voltandosi, con estrema meraviglia, scorge Pauline, ora trasformata in una dama di eccezionale bellezza (p. 287). Inizia così l’idillio. I due giovani si incontrano nella vecchia mansarda dove abitava da povero Raphaël e si dichiarano a vicenda il proprio amore. E’ una scena commovente che sembra preludere al riscatto morale del protagonista, ma si tratta evidentemente di un’illusione.

Trascorrono un periodo di vita insieme, nella prospettiva del prossimo matrimonio, follemente innamorati e circondati dalla fortuna e dalla ricchezza. Ma il destino è avverso. La pelle di zigrino osservata per caso da Raphaël mostra di essersi di nuovo ristretta e allora il povero giovane, disperato, la getta in un pozzo. Sembra che la persecuzione sia finita e i due giovani si trovano a trascorrere una piacevole mattinata nella serra del giardino, quando il giardiniere reca come oggetto di curiosità al suo padrone la pelle di zigrino ripescata dal pozzo. In preda allo sconforto Raphaël cerca allora un qualche espediente per eluderne la maledizione. Si reca da un celebre naturalista per avere delucidazioni sulla natura del misterioso talismano e in questo incontro Balzac approfitta dell’occasione per fare una satira degli accademici, arrivando alla conclusione che tutta la scienza con la sua prosopopea si riduce a una semplice e vuota nomenclatura.

P. 316, 317, è straordinario, ma l’esposizione delle idee del fisico Planchette sul movimento sembrano anticipare quelle di Bergson nell’Evoluzione creatrice. “Tout est mouvement. La pensée est un mouvement. La nature est établie sur le mouvement.” E Dio stesso in quanto eterno è probabilmente eterno movimento.

Nonostante abbia sottoposto all’esame del fisico, alla prova della pressa idraulica di un ingegnere meccanico e poi ai solventi di un chimico la diabolica pelle di zigrino, questa rimane inalterata come se nulla fosse. Raphaël ormai dispera di poter mutare la propria sorte, segnata dalla condanna.

P. 336, dopo una notte d’amore con Pauline, in cui vibra tutta la passione romantica, il giovane viene colto da una crisi di tosse e stremato appare alla sua amata nella luce sinistra di un malato di tisi.

P. 340, segue un consulto di quattro medici illustri, che costituisce una vera satira dell’arte medica, tanto celebrata e onorata quanto vana. Uno di essi è un giovane amico di Raphaël, gli altri sono maturi professoroni dall’aria saputa. Ognuno esplicita le proprie teorie, ma nessuno prescrive una cura sensata, né riesce tanto meno a comprendere le cause della malattia.

In seguito al consiglio dei medici, Raphaël ricorre alle cure termali, alle acque d’Aix in Savoia. Improvvisamente, senza dare inizio a un nuovo capitolo, lo scrittore ci immerge in un interno d’albergo in alta montagna. L’atteggiamento chiuso e scontroso del protagonista offende gli altri clienti che si affidano alle cure termali e qui Balzac dà un saggio della sua profonda conoscenza della psicologia umana.

Messo ai margini della società termale di aristocratici indifferenti e infastiditi dal suo aspetto di persona gravemente malata, il protagonista si rifugia in profonde riflessioni sulla natura umana, che hanno un esito beffardo quando il medico dello stabilimento termale cerca di allontanarlo con consigli apparentemente benevoli. L’ostilità circostante cresce sino al punto di suscitare contro di lui una lite e un duello. Ma il potere della pelle di zigrino è tale che Raphaël senza neppure mirare con la pistola al suo avversario riesce a colpirlo in pieno petto, dritto al cuore. Naturalmente questo successo gli costa caro. La pelle si riduce alla grandezza di una foglia di quercia.

Quindi, mutando soggiorno, si porta alle Acque del Mont-d’Or. Il meraviglioso panorama alpino e la semplicità dei contadini gli donano un illusorio senso di ritrovata salute, ma si tratta appunto di un’illusione. Intercettando un dialogo tra la montanara che lo ospita e il suo devoto servitore, Raphaël scopre di essere disperatamente malato e senza possibilità di guarigione.

Infatti la sua situazione peggiora in maniera continua e irrimediabile, tanto che, disgustato anche dalle chiacchiere fatte dai suoi ospiti sulla sua condizione, decide di cambiare aria e di tornare a Parigi. Qui trova un plico di lettere inviate dalla sua amata Pauline, all’oscuro del suo peregrinare, ma decide di gettarle nel caminetto. Poi si pente e ne estrae una quasi integra dal fuoco. Si rende così conto dell’amore assoluto e disinteressato della giovane, ma ormai la malattia lo domina completamente.

Decide di sopravvivere dormendo e così sottrarsi al pericolo di concepire nuovi desideri per lui esiziali. Si fa prescrivere degli oppiacei dal medico e cerca di prolungare la sua esistenza quasi nella condizione d’una crisalide. Ma gli eventi contrastano questi tentativi e un ultimo incontro con Pauline, disperata per la sua salute, gli fa formulare il desiderio definitivo e fatale, egli vorrebbe abbracciarla, invaso dalla passione, ma il talismano, ridotto all’estremo, svanisce e così anche la vita di Raphaël, che muore in un gesto folle d’amore.

Il pessimismo di Balzac si manifesta pienamente nella sorte di questo povero personaggio che dall’inizio alla fine è perseguitato da un destino ostile. Pur eccellendo per le sue alte qualità egli sembra punito per la sua umana fragilità di giovane propenso ad amare e avido d’amore. E’ come se l’autore, riconoscendosi in lui, confessasse che ai migliori e ai più degni è negata la felicità, forse perché la sanno riconoscere. L’epilogo sembra confermare questa interpretazione nella contrapposizione dell’ideale figura di Pauline, donna angelo, e della perfida, ma, ahimé, molto comune e concreta Foedora.


sabato 12 aprile 2025

Yukio Mishima, La voce delle onde

 






Yukio Mishima, La voce delle onde (1954), Milano, Feltrinelli, 2024



Stile simile a quello di Hemingway. Le descrizioni degli ambienti sono accurate e precise, direi fotografiche. Anche le azioni vengono rappresentate con grande evidenza ed attenzione al realismo e ai particolari più minuti (vedi la scena della pesca dei polipi, p. 17). Siamo nella fase di transizione dal romanzo alla sceneggiatura.

P. 20, nel finale del cap. 2 i sentimenti del giovane pescatore si rispecchiano nella natura circostante e viceversa l’ambiente marino influisce profondamente sul suo animo. In questa simbiosi uomo-ambiente c’è qualcosa di comune con la sensibilità dannunziana.

P. 70-74, la scena erotica tra il giovane Shinji e la giovane Hatsue è quanto mai suggestiva, realistica e nello stesso tempo reticente e quasi velata dal pudore. I due corpi si stagliano alla luce del fuoco come rivelazioni improvvise di dei.

P. 132-134, la descrizione della vita quotidiana del villaggio, in particolare delle pescatrici di perle colte nel momento in cui dopo essersi tuffate si riposano nude sulla spiaggia, è realistica e ingenua. La bellezza femminile, specialmente la conformazione del seno, non viene apprezzata con malizia, ma esaltata in maniera del tutto spontanea e naturale.

Il seguito della vicenda, che si conclude con il fidanzamento dei due giovani, è tutto imperniato di naturalezza e di color locale, all’insegna delle tradizioni del vecchio Giappone. C’è in questo qualche elemento comune con il verismo dei Malavoglia di Verga. Tutto sommato si tratta di neorealismo.





sabato 22 marzo 2025

D’Annunzio e il superuomo

 



Gabriele D’Annunzio, Le vergini delle rocce (1895), Milano, Mondadori, I Meridiani, Prose di romanzi, vol. II, 2011


Sarà anche un “lavoratore dell’aggettivo” come lo definisce Papini, ma D’Annunzio, pur nella eccessiva ricchezza dell’ornamentazione verbale, riesce a infondere nell’immaginazione del lettore la sensazione fuggevole degli elementi naturali, come se dai corpi, dai colori, dalle forme nobilmente tornite promanassero emozioni che non sono il frutto dell’azione, spesso diluita e teatralmente artificiosa, ma di misteriose e segrete alchimie. E così, pur non possedendo l’efficacia della prosa di Baudelaire e la sua capacità di mirabile pittore, la sua rappresentazione si muta in evocazione di ambienti e di scenarii cui la parola come uno strumento di musica modula suoni incantatorii e maliose armonie.

Alla lettura sembrerebbe lo stile alquanto pomposo e invece si tratta di prosa poetica dove l’intonazione è quella d’un poema epico-fantastico, in cui il linguaggio si nobilita sino all’artificio e in cui la natura come la bellezza delle donne viene stilizzata e dissolta in sensazioni e colori e profumi, come i dipinti di Gustave Moreau.

P. 101 :

Andavamo tra il verde perenne: tra i bossi, tra i lauri e tra i mirti antichissimi, la cui vecchiezza selvaggia era immemore della sofferta disciplina. Appena qua e là rimaneva qualche vestigio delle simmetriche forme trattate un tempo dalle cesoie dei giardinieri; e io ero vigile a ravvisare nelle mute piante l'umanità di quelle sembianze non anche interamente scomparse, con una malinconia forse non dissimile a quella di colui che ricerca su i marmi dei sepolcri l'effigie consunta dei morti obliati. Un odore dolciamaro accompagnava i nostri passi; e a quando a quando taluno di noi, come per una volontà di riallacciare una trama disfatta, ricomponeva un ricordo della puerizia lontana. Ed ecco, risorgeva puramente la larva di mia madre; e pareva nutrirsi di tutte le cose che i nostri cuori esalavano nei silenzii intermessi, non distaccandosi ella dal fianco di Anatolia per mostrarmi la sua elezione. E un odore dolciamaro accompagnava la nostra malinconia.

P. 110 :

Nulla quanto il suono di quel riso poteva significarmi la profondità inaccessibile del mistero che ciascuna delle tre vergini portava in sé medesima. — Non era quello il segno fortuito di una vita istintiva dormente come un tesoro accumulato nelle radici stesse della sostanza animale? E non chiudeva i germi d'innumerevoli energie quella vita opaca e tenace su cui pur la coscienza di tanto dolore pesava senza soffocarla? — Come la scaturigine reca sul sasso arido l'indizio della segreta umidità sotterranea, così il bel riso repentino pareva salire da quel nucleo di gioia nativa che ogni più misera creatura conserva nell'intimo della sua propria inconsapevolezza. E per ciò su la mia commozione si chiarì un pensiero d'amore e d'orgoglio: “Io potrei fare di te un essere di gioia.„


Nelle pagine seguenti, dove parla il demònico alla coscienza di Cantelmo, si confronti il messaggio di Schopenhauer e le considerazioni su Leonardo da Vinci di Séailles (citato anche da Bergson nell’Evoluzione creatrice, secondo il quale la tesi di Séailles in Le génie dans l’art è che l’arte prolunga la natura e la vita è creazione).

Nel libro III la sequela delle sensazioni squisite e degli stati d’animo quasi allucinati si fa più pressante. L’ispirazione di D’Annunzio si nutre di questa sua particolare delicatezza che innanzi alla sensazione lo fa risuonare come uno strumento musicale ed effondere in una sinfonia verbale.

E’ la sua una vera e propria filosofia della sensazione, o talvolta della percezione e del presentimento come un sensitivo o un medium da sedute spiritiche, tanto vibra in un fluire di suoni, di immagini e visioni, esposto a tutti i venti delle nevrosi e delle più eccentriche alterazioni della psiche.

P. 152, la celebrazione della regalità infranta dal nuovo mondo moderno dominato dalle masse ha il suo emblema nella figura evocata di Luigi di Baviera, l’eroe d’un sovramondo immaginario, frutto dell’esaltazione musicale di Wagner. Ed è qui che si coglie il messaggio superomistico e aristocratico di D’Annunzio, l’eroe artista, l’intellettuale aristocratico che si contrappone alla bestialità e alla volgarità delle folle. Ma l’esito di quest’epica lotta è l’isolamento di un Des Esseintes, e l’anima gemella all’autore è quella di Huysmans, non quella di Nietzsche.

P. 153, la profezia di Cantelmo sul trionfo della Folla, del nichilismo apportatore di tragici deserti e infine sul disperato bisogno di novelli Eroi e di ardente devozione richiama la Psicologia delle folle di Le Bon, la cui conclusione mira appunto al superamento dell’abbrutimento delle masse nella creazione di un popolo nobilitato dall’ideale.

P. 167 e sgg., Cantelmo è il tipo del superuomo auspicato, ma stranamente è circondato da un ambiente decadente e pervaso dalla fragilità della vita e dal sentore della morte. E’ attratto da Massimilla, destinata alla monacazione, dalla sua fralezza, dai suoi turbamenti, dalla sua tragica storia d’amore. Un superuomo che celebra l’amore e la tomba !

P. 183, Anatolia, simbolo della positività e della forza, è anche lei in realtà una vittima, preda di un destino avverso che la condanna alla custodia di una madre folle, di un padre disperato e di due fratelli sull’orlo della pazzia. Le altre sorelle, come lei, subiscono la stessa condanna e il romanzo, che sembrava l’esaltazione della morale del superuomo, volge a un epilogo all’insegna dell’irrimediabile debolezza umana.


sabato 15 marzo 2025

A Violante

 






Nei tuoi occhi

l’equoreo manto delle ninfee

rifletteva lo splendore marmoreo dei templi,

come ad incantesimi di luce

nell’alba

sorgono le speranze,

così fulgeva la tua pupilla, un’ala

multicolore di farfalla

sopra la distesa di sognanti fiori.

E il mare dardeggiava d’oro

negli occhi tuoi riflesso

e accolto nell’abisso

delle pupille, sconfinato spazio

ove si perde il pensiero

e sempre si ritrova

il desiderio.

Il tuo volto luminoso

ardeva nella mia notte,

segnalava dei naufragi

quale un faro lo scoglio.

E sulle arene segnava il vento

il sogno del tuo viso,

il tuo profilo così puro

sorgeva ai miei occhi

nell’alba, e il vento ti sollevava

i capelli del color di rame.

E nell’azzurro scorgevo

dell’iride il sorriso nelle pupille

della tua forma perfetta di naiade

sorta dal silenzio delle acque,

una dea degli Elleni,

come fusto di palma,

snella e leggiadra;

nei tuoi occhi si smarriva

la malinconia di antichi templi

e il tuo sguardo s’abbandonava azzurro

nell’indolente nostalgia d’una chimera

perduta.

Ti appartavi triste,

naufragando nei ricordi,

desolata effigie della vita trascorsa.

Nei tuoi occhi

vanivano i crepuscoli d’autunno,

sorgevano le lune misteriose,

s’aprivano i fiori notturni

di profumi esotici,

s’intrecciavano nei vortici

della tua chioma ambrata.

Quale fortezza inespugnabile

t’ergevi nel tuo isolamento geloso

come una principessa od una vestale,

sacra a una vita indimenticabile.

Preda d’una insaziabile angoscia

abbassavi lo sguardo colto da un’improvvisa

febbre e l’ansia mortale

t’angustiava come la morsa dei ricordi.

Anche per me tu eri un ricordo

di tempi lontani, un’ossessione

di brame occulte,

ma i tuoi occhi s’aprivano ebbri

per un istante, come nella notte

Selene colma sorride

a Endimione.


domenica 9 febbraio 2025

Roberto Calasso, L’ardore

 




Roberto Calasso, L’ardore, Milano, Adelphi, 2010


P. 158, cap. VII, Atman. Dopo la presentazione e la descrizione della mitologia vedica ecco che il discorso si fa propriamente filosofico :


Tortuosi, delicati, ambigui i rapporti fra il Sé, atman, e l’Io, aham. E non potrebbe essere diversamente. Tutto risale all’inizio, quando c’era soltanto il Sé, sotto forma di “persona”, purusa : “ Guardandosi intorno, non vide altro che Sé. E come prima cosa disse : “Io sono”. Così nacque il nome “Io” “. E’ la scena primitiva della coscienza. Che rivela innanzitutto la priorità di un pronome riflessivo – atman, Sé. Pensarsi precede il pensare. E quel pensarsi ha forma di persona, purusa : possiede una fisionomia, un profilo. Che si designa subito con un altro pronome : Io, aham. In quel momento appare una nuova entità, che ha nome Io e si sovrappone punto per punto al Sé da cui è nata. Da allora – e fino a quando scintillerà la conoscenza, il sapere, veda - , l’Io sarà indistinguibile dal Sé. Sembrano gemelli identici. Hanno lo stesso profilo, lo stesso senso di onnipotenza e di centralità. Dopo tutto, nel momento in cui l’Io apparve, non c’era ancora altro al mondo. Così il primo a cadere nell’inganno dell’Io fu il Sé. Dopo che le creature furono create, in conseguenza delle sue molteplici metamorfosi erotiche, il Sé guardò il mondo e si rese conto di averlo creato. E disse : “Veramente Io (aham) sono la creazione”, già dimenticando che quell’Io era solo la prima delle sue creature.


Quello che è importante è che qui viene ribadito il primato della coscienza. La coscienza precede il pensiero, perché vi sia un pensiero è necessario un io consapevole di se stesso.

La filosofia occidentale, a partire da Descartes e proseguendo con Kant, si è fermata all’Io e così non ha scoperto il Sé, ma l’Io è l’ostacolo più temibile e può impedire per sempre l’accesso al Sé. Tuttavia il Sé, l’atman, è Colui che ci attende dopo la morte, l’altra esistenza, l’altro corpo.

P. 343 (a proposito degli avatar di Faggin). Calasso riporta una citazione da un’opera dell’antropologo Mauss :


Al museo del Trocadéro si possono vedere certe maschere del nord-ovest americano sulle quali sono scolpiti dei totem. Alcune hanno un doppio sportello. Si apre il primo e dietro il totem pubblico dello “sciamano-capo” appare un’altra maschera più piccola che rappresenta il suo totem privato, e poi all’ultimo sportello rivela agli iniziati di più alto rango la sua vera natura, il suo volto, lo spirito umano e divino e totemico, lo spirito che incarna. Poiché, sia ben chiaro, in quel momento si suppone che il capo sia in stato di possessione, di ékstasis, di estasi, e non soltanto di homoìosis. Vi è trasporto e confusione al tempo stesso.


P. 418, dopo la dettagliata esposizione dei vari rituali vedici è interessante l’osservazione di Calasso che il rapporto tra il mondo umano e l’invisibile nelle odierne associazioni religiose non esiste più. Le religioni odierne tali non sono appunto perché il legame tra mondo umano e mondo divino non viene più preso in considerazione, ma la Chiesa, l’Islam e le altre fedi si occupano prevalentemente della loro organizzazione, ricorrendo anche all’uso dei media, e della morale pubblica. Tutte le religioni odierne hanno messo da parte, quasi fosse irrilevante, il trascendente, mentre si limitano a norme di comportamento.

P. 426, il sacrificio è il meccanismo secondo il quale si regola la fisiologia animale e in genere di ogni vivente, esso è lo scambio tra esterno ed interno. E’ la stessa comunicazione di percezioni, come anche il respiro di chi è vivo. La scienza che è basata sul metodo descrittivo dei fenomeni (che tali sono appunto in quanto appaiono) non perviene alla consapevolezza del senso del sacrificio. “La conoscenza di un tracciato neurale, per quanto perfetta, non si tradurrà mai nella percezione di uno stato della coscienza.”

P. 450, paragona il contenuto del Veda alla meccanica quantistica, che non corrisponde in alcun modo alla vita odierna, mentre la fisica newtoniana è diventata il modello del senso comune. Queste affermazioni sembrano confermare l’argomentazione di Faggin, secondo la quale la vita umana è una parvenza illusoria dietro la quale agiscono forze spirituali sconosciute.