domenica 5 ottobre 2025

Thomas Hardy, Il ritorno del nativo

 

Thomas Hardy, Romanzi, Milano, Meridiani Mondadori, 2000 (a cura di Carlo Cassola)


Il ritorno del nativo, traduzione di Ada Prospero


Scrittore realista, lo si capisce dalla descrizione minuziosa della brughiera di Egdon e dal ritratto preciso del venditore di ocra che un anziano viandante incontra sullo stradone. Tuttavia il realismo non manca di aprire all’indagine psicologica e questo lo avvicina a Tolstoj.

P. 87, il ritratto fisico-psichico di Eustacia Vye è di una suggestività impareggiabile, egli ci delinea dapprima il carattere con gli atti di lei e poi nel dipingerla piano piano sembra quasi disegnarla sulla tela e poi colmarne la figura di colori.

La giovane Thomasin Yeobright deve sposare il dongiovanni Damon Wildeve che però è anche invaghito della bella e ombrosa Eustacia Vye. Thomasin dopo un tentativo di matrimonio fallito per ragioni burocratiche viene portata a casa da un giovane un po’ strano che fa il venditore d’ocra, un certo Diggory Venn, che a sua volta s’innamora di lei ma viene respinto. Ai già numerosi partecipanti al gioco d’amore si unisce l’arrivo imprevisto da Parigi del giovane rampollo di buona famiglia Clym Yeobright, della cui fama si appassiona la femme fatale Eustacia Vye.

Alla festa data dalla madre di Clym al suo ritorno da Parigi, Eustacia partecipa in incognito, accompagnatasi alle maschere della recita tradizionale durante il Natale, e i due giovani s’incontrano, innamorandosi. Intanto Clym rivela alla madre di aver abbandonato una professione lucrosa nel commercio con l’intenzione di diventare maestro di scuola. La madre ne è contrariata e lo è ancora di più quando il figlio le rivela di aver l’intenzione di sposare Eustacia Vye. A questa notizia sua madre si rifiuta di continuare a vivere con lui e Clym si allontana di casa cercando alloggio per sé e la futura sposa in un villaggio vicino. A tale notizia anche Wildeve, ormai marito di Thomasin, reagisce emotivamente, desiderando di nuovo l’antica amante Eustacia.

La partita ai dadi del cap. VII del libro III è quanto mai avvincente e suggestiva. Hardy è un descrittore incomparabile di ambienti e situazioni e la sua capacità di introspezione psicologica è magistrale. Al gioco sembra partecipare anche la natura con i cavallini della brughiera, gli insetti e le lucciole che offrono luce agli sfidanti. Wildeve mostra sempre di più la sua indole malvagia.

In una festa di paese dove si reca, Eustacia incontra per caso Wildeve e tra i due s’accende nuovamente l’antica passione. Ma vengono furtivamente scoperti da Venn e il loro rapporto si complica.

Libro IV, cap. VII, l’episodio della mancata visita della madre a Clym e il ferimento di lei in seguito al morso di una vipera dà luogo a una scena finale dove il folclore locale si manifesta nella sua piena ingenuità, rivelando la mentalità dei contadini del luogo. E’ un elemento che richiama il Verismo italiano e soprattutto il Verga dei Malavoglia.

Nel libro V Clym viene a conoscenza dell’ospitalità data a Wildeve da parte di Eustacia il giorno della visita mancata della madre. Egli presume che Eustacia abbia provocato indirettamente la morte della madre non avendole aperto la porta e quindi avendone causato l’allontanamento in preda alla delusione più cocente e allo sconforto. Così tra i due coniugi avviene la rottura ed Eustacia se ne va via nella casa di suo nonno, dove aveva vissuto prima. A questo punto rientra in scena Wildeve che mostra alla donna di amarla ancora e di avere desiderio di aiutarla. Dopo qualche esitazione Eustacia accetta il suo aiuto ma per il momento rimanda al futuro le sue decisioni.

P. 438, nelle espressioni di autocommiserazione durante la fuga dalla casa di suo nonno per raggiungere Budmouth forse insieme a Wildeve, Eustacia rivela di essere una sorta di Madame Bovary inglese, un’eroina romantica agitata da sogni impossibili e dall’aspirazione a un amore irraggiungibile. Nella scena seguente del rito magico di Susan Nunsuch contro di lei c’è l’annuncio della prossima tragedia.

Al cap. IX del libro V la tragedia si compie. Durante una spaventosa tempesta Eustacia decide il proprio destino. E’ d’accordo di ricevere l’aiuto di Wildeve per fuggire nottetempo a Budmouth, mentre l’amante è deciso a seguirla, ma improvvisamente si rende conto che la sua dignità è perduta, la sua vita un fallimento.

Approfittando perciò della piena del vicino fiume si getta nelle sue acque dove è più profondo, presso una diga. Raggiunta da Wildeve e da Clym quando ormai è troppo tardi, provoca con la sua morte la morte di Wildeve che si getta in acqua per tentare di recuperare il suo corpo nell’illusione di salvarla. Anche Clym si getta nel fiume ma non annega. Giunge infatti in aiuto Venn avvertito da Thomasin e lo pone in salvo. Così con la morte dei due amanti si può dire che abbia fine il racconto, che continua ancora per poco per informare dei fatti seguenti.

Thomasin, moglie tradita di Wildeve, nonostante la vedovanza e la presenza della figlia di Wildeve, la piccola Eustacia, va sposa all’antico pretendente Venn, ex venditore d’ocra ora ricco proprietario terriero. Clym dal canto suo, nonostante tutte le difficoltà e la debole vista diventa predicatore ambulante e realizza il suo progetto di educatore del popolo.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a proposito di Hardy, nei suoi scritti sulla letteratura inglese (e in genere europea) a p. 1234 scrive (Opere, Milano, Meridiani Mondadori, 2011) :


Il personaggio maggiore dei suoi romanzi non è una persona vivente ma un luogo, Egdon Heath, fuori dal tempo, immemorabile e noncurante delle vite umane che per un attimo si agitano su di essa, eterna. Fatalista e determinista, Hardy vedeva gli uomini vivere, amare, travagliarsi e perire su di uno sfondo di forze remote, implacabili, non coscienti e non controllate. Rinnovando in sé lo spirito dei tragedi greci egli aveva come loro la convinzione che l’uomo è nato per sopportare ciò che forze estranee hanno in serbo per lui. E questo suo plumbeo credo egli espresse in personaggi che spessissimo hanno la gravità e la dignità dei personaggi tragici.


domenica 28 settembre 2025

Antonio Marcianò, Mai arrendersi al caos

 




Antonio Marcianò, Rosario Marcianò, Alfredo Fraioli, Maurizio Pallavicini, Wyxyx, M. A. C. (Mai arrendersi al caos), Sanremo, Tanker Enemy, 2025 (Printed by Amazon)




Edmund Wilson ne Il castello di Axel a proposito del verso di Eliot ci illumina nel presentare quella tradizione del blank verse che ha in Shakespeare il rappresentante più famoso e quell’alternarsi di verso e prosa con lo scardinamento dei versi e delle rime tipico dei drammi del poeta inglese. A p. 21 dell’edizione italiana (E. Wilson, Il castello di Axel, Milano, SE, 1996) si legge :


Il moderno lettore di lingua inglese troverà ardua un’esatta valutazione dell’influenza di Poe; così come, passando ad analizzare le opere del simbolismo francese, potrà addirittura stupirsi del fatto che esse abbiano destato tanta meraviglia ai tempi loro. La composita varietà delle immagini; la volontaria mescolanza di metafore eterogenee; la combinazione di passione e di arguzia, di modi grandiosi e prosaici; l’audace fusione di spirituale e materiale – tutto ciò potrà sembrargli normale e familiare. Si tratta di procedimenti a lui già noti attraverso la poesia inglese del Cinquecento e del Seicento – Shakespeare e gli elisabettiani ne hanno fatto uso senza teorizzarli. Non è forse questo il linguaggio naturale della poesia? Non è la norma rispetto alla quale, nella letteratura inglese, il Settecento rappresenta un’eresia e alla quale i romantici si sforzarono di ritornare?


E’ la tradizione neolatina, francese e italiana, quella maggiormente legata alla logica del discorso poetico e al rispetto delle tradizionali forme metriche (soprattutto in Italia con il petrarchismo) e si capisce dunque come nel continente e soprattutto all’inizio in Francia il simbolismo abbia rappresentato un’assoluta novità. Ma bisogna considerare che Mallarmé, grande caposcuola di esso, era professore d’inglese e indubbiamente la scuola romantica inglese e Shakespeare devono avere avuto un certo influsso su di lui. Da notare poi che il cosiddetto verso libero, o meglio in francese vers libre, non è che il verso francese concepito secondo la metrica inglese e perciò dovrebbe essere ritenuto piuttosto un verso “irregolare”. Quanto al nostro verso libero, in Italia, devo dire che i miei connazionali non hanno in realtà nessuna idea di cosa esso sia, e quando ne concepiscono (e ne partoriscono tanti, anzi tantissimi, perché nel campo della “poesia” non esiste a quanto pare l’inverno demografico) compongono dei pensierini (non sempre belli) in prosa stentata. Non mi riferisco certamente ai grandi della nostra letteratura del Novecento, consapevoli del loro operato e innovatori nel loro magistero letterario, ma a quell’alluvione di presuntuosi somari che si pavoneggia e pontifica nelle miriadi di concorsi e certami poetici, e, incapace anche solo di comporre un sonetto, ci riempie le orecchie di recite abominevoli sul canale You Tube e sforna libriccini di versi formato giapponese. A questi illuminati dal sacro fuoco sarebbe bene consigliare una maggiore riflessione e ponderazione, una presa di coscienza del mistero del verso.

Innanzi tutto cos’è un verso e perché se ne parla? Esso è tradizionalmente elemento proprio della poesia, ma questa non necessariamente è legata al verso. Come già dicevano gli antichi, vi possono essere composizioni in versi che non hanno nulla di poetico e infatti Aristotele affermava che tra Omero ed Empedocle non vi è nulla in comune tranne il metro.

D’altra parte siamo soliti attribuire il termine “poetico” a un bel paesaggio, a un’opera d’arte, all’espressione d’una statua, a un brano musicale, al contenuto di un romanzo. Quindi tra poesia e verso c’è una certa distanza e l’uno non è sinonimo dell’altra. Sembra poi superfluo anche solo accennare al fatto che “poesia” deriva da un verbo del greco antico che significa “creo”, “produco” e quindi il suo significato è di per sé molto generico. Ma la nostra tradizione letteraria a partire dalla più remota antichità ha legato la poesia al verso, perché questo era unito strettamente al canto, a sua volta considerato invocazione e preghiera, formula rituale, collegata ai riti magici e apotropaici. La formula magica richiede precisione e ripetizione, il canto melodia, così si spiega la nascita del verso.

Dunque la poesia è tradizionalmente legata al verso e quindi al canto. Ma con il trascorrere dei secoli il connubio di poesia e musica è venuto meno, com’è noto. E tuttavia il verso è rimasto e con questo bisogna fare i conti. Vogliamo fare il verso libero? Bene. Libero da che cosa? Dalla rima? E’ stato fatto con la nascita dell’endecasillabo sciolto già nel XVIII secolo. Dal numero delle sillabe? Anche questo è avvenuto e se ne hanno esempi anche prima del Novecento. Dal numero delle sillabe e dal ritmo degli accenti? Allora perché comporre versi? Vogliamo il verso assolutamente libero? Un non-verso, oppure un versaccio, una pernacchia?

Il risultato dell’inconsapevolezza degli aspiranti poeti è come quello dell’apprendista stregone, un pasticcio. Una sequela di frasette ridicole che hanno la pretesa di esprimere pensieri profondi, che però sono tanto profondi da non venire più a galla.

Prendiamo invece ad esempio uno scrittore consapevole, che ha scritto versi liberi : Cesare Pavese. Come giustamente nota Tiziano Scarpa nella sua introduzione alle poesie dello scrittore, la metrica di Pavese è proprio quella del blank verse inglese, cioè tiene conto solo dell’accento ritmico e non del numero delle sillabe, così come è computato nella verseggiatura italiana. Ne segue che soprattutto nei componimenti più “maturi” si avverte comunque una certa regolarità nella lettura nonostante la lunghezza irregolare dei versi. Questo è infatti il vero verso libero.

Si è detto che la parola “poesia” deriva da un verbo del greco antico che significa “creare”. Ebbene questo attiene chiaramente al contenuto del verso, sempre che il componimento venga realizzato in versi e non in prosa. Perché molti sono stati i poeti, soprattutto in epoca moderna, che hanno scritto poesia in prosa, basti pensare a Macpherson, ma naturalmente non bisogna dimenticare Shakespeare, e poi pensiamo a Rimbaud, a Lautréamont. Qual è l’intento del poeta, dove vuole arrivare, che cosa ci vuol far vedere con le sue parole o capire? Ovviamente questo dipende dal poeta, dalla sua personalità, dalla sua mente. Ma in ogni caso egli trasferirà in parole e figure aspetti della vita che altrimenti sarebbero perduti e dimenticati. Egli coglie l’istante e gli dona un alone di eternità, nella metamorfosi dell’immagine ideale. E quanto più è alto e nobile il suo intento tanto più egli s’avvicinerà al sovrumano regno della Bellezza. Inoltre egli è capace di cogliere il segreto delle cose, della realtà comune, del mistero che si nasconde ai profani. Sua è la sensazione che vi sia qualcosa di vero oltre le parvenze, un mondo oltre il mondo umano.

Nel libro che presento, consiglio tra le altre assai pregevoli questa poesia di Antonio Marcianò, intitolata appunto “Oltre”, di cui riporto alcune strofe :


Un giorno andrò oltre le alture,

oltre le vette avvolte nel perenne

silenzio, dove colpisce la scure

del fulmine, all’ombra solenne


delle vette, su sentieri a precipizio

sul cielo. Laggiù la notte sprofonda

nell’aurora ed ogni fine è un inizio.

Laggiù l’alba dilaga e inonda


valli e pendii, scintilla sugli abeti,

verdi stalagmiti grondanti luce …

Il destino tradirà i suoi segreti.


L’antologia infatti contiene una vasta raccolta di poesie di Marcianò cui segue un minor numero di composizioni dovute alla penna di altri autori (fra questi anche lo scrivente).

Antonio Marcianò esordisce conducendo il lettore tra poemi narrativi e di contenuto storico, tra effuse liriche e istantanee folgorazioni. Egli possiede in misura ammirevole la conoscenza dell’Arte e soprattutto ha la rara capacità di cogliere nell’istante il segreto senso della vita. Come scrive Edgar Allan Poe nel suo Principio poetico, è vero poeta non colui che descrive semplicemente con belle frasi e belle parole un paesaggio o una creatura attraente, ma chi si protende nello sforzo di voler raggiungere la Bellezza al di sopra di noi, la Bellezza celeste e in ciò manifesta l’immortalità donata all’anima umana. In tale innalzamento verso un mondo superiore egli è solo e di questa solitudine porta la pena, nel dolore dell’estraniamento e della diversità. Allora lo coglie la delusione, lo scoraggiamento, la solitudine senza conforto, come nella lirica “That day” :


Ma solo nella tua stanza, la fronte


sul vetro, attendi chi non arriva.

Conosci solo l’inerte orizzonte,

fra silenzi e memorie, alla deriva …


Devo dire la verità, proseguendo nella lettura ci si imbatte in componimenti di vario livello, talvolta troppo ricchi di termini ricercati o dotti, ma le poesie di lessico più semplice e di stile lineare ci pongono di fronte a una personalità complessa, a un pensiero che si delinea in vertiginose altezze, a un’anima nobilmente sofferente alla ricerca della risposta all’eterna domanda sullo scopo dell’esistenza, come si avverte in “La vita si dissolve in un istante” :


Quando sarò nelle lande del mistero

e il passato sarà un colore muto,

non piangete : si piange chi si è perduto.


Io avrò trovato, infine, il mio sentiero.


Talvolta la disperazione prende il sopravvento, il senso angoscioso di una vita perduta, come nella bellissima lirica “L’angelo”, dove si immagina che l’angelo custode parli al suo pupillo con parole di conforto che però non riescono a consolare.

La vita fugge e lascia dietro di sé un velo di malinconia in “Fine dell’estate”, dove l’eleganza del dettato si accompagna alla profondità del sentimento :


E vai, mentre l’ombra s’allunga;

i platani chinano le fronde presaghi :

ora qualcosa per sempre si spezza.


L’eco di stagioni lontane, lunga …

sembra che in spazi eterni dilaghi

settembre e la sua dolente bellezza.


L’avvicinarsi dell’autunno, anche in senso metaforico, suscita uno stato d’animo pervaso da cupa malinconia in “Il colchico”, componimento pregevole sia per la metrica perfetta di gusto pascoliano sia per il lessico :


Solitario fiore, tu non conosci

il tiepido favonio e le vanesse

che si librano leggere fra scrosci

di luce; tesse


un velo bigio la pioggia autunnale

per te, quando le Pleiadi arcane

tramontano nella notte spettrale,

cupa, inane.


Così la consapevolezza della fuga del tempo, della brevità d’ogni gioia, dell’illusione della vita è il messaggio de “La meteora”, poesia, come tutte queste di contenuto meditativo ed esistenziale, intensa e universale, cosmica nel suo pessimismo “leopardiano”. E’ un pessimismo che coinvolge tutta la modernità, la società caotica rappresentata dal complesso disordinato e tumultuoso delle città, come appare in “Non so”, dove si contrappone la spensierata fanciullezza che corre in campi di grano ai giorni che non sono più gli stessi della vita adulta, esiliata nel tedioso e cupo tumulo urbano. L’alienazione conduce a una sorta di sdoppiamento in “Un altro me stesso”, dove s’immagina durante un viaggio in treno un colloquio con un interlocutore al quale intimamente non si presta la minima attenzione e si affidano a una sorta di meccanismo esterno le risposte.

Il filone interpretativo sin qui tracciato è a mio parere quello dotato di maggior persuasione, ma è facile smarrirsi nel numero forse eccessivo delle liriche e dei poemetti, che denota una vena copiosa, ma che avvolge il lettore in una selva che sarebbe opportuno sfrondare. Ciò nulla toglie al valore della poesia di Marcianò, che raggiunge vette inaccessibili alla quasi totalità dei contemporanei nonché agli altri scrivani inversi. Né mi riferisco ai bellissimi paesaggi e descrizioni di natura che sono frequenti, piuttosto alla necessità di disporre le poesie secondo una tematica più evidente, in modo da non disorientare il lettore.

Nella lirica “Esilio”, in versi liberi ma disposti secondo un’armonia interna, si coglie il motivo fondamentale dell’esclusione, della solitudine, del “male di vivere” montaliano :


Esule dalla vita,

ne ricomponi gli sparsi frammenti :

[…]

Nel vuoto della notte

sprofonda il silenzio.


Qui si nota anche una certa affinità con le poesie di Pavese, attraversate dal medesimo senso di stupore angoscioso innanzi all’esistenza.

Un motivo ricorrente è quello della fuga del tempo, anzi direi dell’inafferrabilità del tempo, come in “Ciclisti” :


Domenica mattina :

la strada che scende verso il mare

è silenzio e ombre fragili di eucalipti.

D’un tratto

la nuvola rosso-oro di un gruppo di ciclisti.


Un istante

ed è già scomparsa alla vista.


Non si cattura il tempo e non si comprende la verità. In “Un sogno” l’ardire d’un angelo viene punito nel gelo dell’incomprensione, non basta la conoscenza delle realtà immateriali se non si intuisce l’intima verità del mondo. La poesia di endecasillabi in quartine a rima alternata è ispirata al Vathek di William Beckford, dove il califfo temerario subisce la sorte di chi sfida i limiti posti al destino umano.

E il destino è come il volo senza scopo d’una farfalla notturna nell’elegante componimento d’intonazione pascoliana “La pavonia” per la precisione del lessico nel nominare fiori, piante, insetti. Questa attenzione ai termini scientifici della botanica e della zoologia è diffusa in tutte le poesie, e parimenti si estende alla cura dei versi, alla metrica, alle rimembranze letterarie. Anche l’invocazione finale, colma d’angoscia, tradisce una notevole affinità con il sentire del poeta di Castelvecchio.

In molte poesie si sente la nostalgia per un personaggio femminile dai lineamenti vaghi, la presenza di un amore perduto, in altre appare il desolato rimpianto della madre, come in “Nostalgia”, dove i ricordi della vita familiare si fanno vivi e sfumati nel contempo, in “Carole” e in “Arazzi” in cui tra il sonno e la veglia la voce della madre parla al figlio dalle remote terre della morte. E così bellissima è la poesia “Mirti” dove nitido appare il ricordo della madre :


Un’ombra appena sulla fronte,


un velo di mestizia negli sguardi.

Madre, anche se sei lontana

e so che è oramai tardi,

accogli il mio amore, non sia vana


la pena. Andiamo fra i mirti,

lungo sentieri verso le stelle.


Qui, tra parentesi, si può notare l’uso dell’accento ritmico soltanto. Ma, messa da parte la pedanteria metrica, si tratta di versi semplici di una efficacia straordinaria.

La presenza vaga della donna si avverte, come ho detto, qua e là, più evidente in “Fiori di campo”, in “Sogni ancora, amica mia?”, sempre quartine che racchiudono immagini di vita desiderata e svanita nel nulla.

Nel “Prugno” prevale il tema della noia :


Ma il tedio su ogni cosa stende

un velo grigio : tutto è vano,

vuoto e nulla ormai accende

una vita inerte, un ricordo lontano.


Mi avvio verso casa triste e solo.

E’ perduta per sempre la serenità.

S’infrangono le onde sul molo,

tramonta il sole sulla città.


E in “Senza amore” risalta la confessione :


Traspare la filigrana dei rami,

sulle vette indugia qualche bagliore.

Vorresti, ma non vivi più, non ami …

E la vita è cenere senza amore …


In “La voce del fiume” nella solitudine della notte ascolta la voce del fiume e immagina un paesaggio campestre sotto le stelle, le colline azzurre, le “pendici argentate”, i “boschi nereggianti”, ma la voce non esprime nulla, è muta.

In “Monte Saccarello” e “Che cosa resta?” la nostalgia, il senso di disperata solitudine si accompagnano al rimpianto per l’amore finito, per un’illusione d’amore :


Nel tiepido chiarore che scema,

mentre indugia il sole sui fastigi,

il tuo viso sfioro con mano che trema.


Vorrebbe il poeta trovare nella propria Arte una consolazione dalla delusione del vivere, ma “La poesia non salva” :


Oscilla il silenzio

impiccato al ramo del vuoto.

[…]

Ma la poesia non salva :

dalle vene

fuoriesce la vita

e gli spari,

che ancora echeggiano

nel tetro cavedio,

non erano a salve.


Mi sembra di aver dato al lettore un’idea sufficientemente chiara del messaggio e dell’Arte di Marcianò. Naturalmente non pretendo di esaurire l’argomento, ma questo richiederebbe al lettore un’attenzione troppo prolungata e al critico in questione una disamina tanto impegnativa e onerosa da partorire un libro, e per il momento se ne ritiene incapace.

In appendice al volume seguono alcune poesie di autori che il nostro poeta ha gentilmente ospitato, su questi giudicherà direttamente il lettore.

Rosario Marcianò ha ornato l’opera d’una suggestiva illustrazione in copertina e di links che rimandano alle sue melodie.


martedì 9 settembre 2025

Eustasia

 

Il tuo sguardo profondo come un vortice

saetta ancora adesso prima

dei fulmini della tempesta, ora in questo

pomeriggio allucinato e cupo d’ombre

nebulose. Ma l’anima abbandonata giace

nella desolante certezza. Ogni fede

pare svanire nel finire senza sole

del giorno. Quale illusione può colmare

la visione degli anni tramontati ?

La vita è piena di mistero, la via

si dirama e si volge altrove,

non ho mai saputo dove,

ma non mai come si spera.


mercoledì 3 settembre 2025

Jorge Luis Borges, Il libro di sabbia

 


Jorge Luis Borges, Il libro di sabbia, Milano, Adelphi, 2004



Il primo racconto “L’altro” è una variazione sullo stesso tema che ispirò Papini nel racconto “Due immagini in una vasca” de Il tragico quotidiano e il pilota cieco, per confessione dello stesso Borges. Si tratta dell’autore ormai anziano che incontra il suo “doppio” più giovane, in un punto di incontro tra passato e futuro.

Il seguito dell’opera rivela un puro gusto di narrare fine a se stesso, senza inseguire particolari tesi, una narrazione intessuta di riferimenti dotti talvolta o allusivi, ma sempre frutto della immaginazione feconda dell’autore.

P. 45, il racconto alla maniera di Lovecraft “There are more things” testimonia con il finale lasciato in sospeso la capacità di Borges di adattarsi a tutti gli stili e a tutti i generi con la duttilità dell’erudito dalle letture sterminate e del letterato raffinato e a volte stravagante.

P. 68, il racconto “UNDR” è decisamente enigmatico, gioca sull’infinita possibilità di significato delle parole e perciò idoleggia l’unica parola dai sensi infiniti.

P. 98, il titolo della raccolta è dato da un racconto che appunto s’intitola “Il libro di sabbia” ed è incentrato su un volume misterioso dalle pagine infinite che si generano l’una dall’altra al solo sfogliarlo. Per chi accidentalmente ne è venuto in possesso ciò costituisce un vero incubo, tanto da spingerlo ad abbandonare il mostruoso oggetto nei sotterranei di una biblioteca pubblica.

P. 109, in “Venticinque agosto 1983” viene ripreso il tema del doppio che è anche nel primo racconto, influenzato dalla lettura di Papini. In genere trovo una certa affinità tra Papini e Borges, entrambi hanno a base del loro narrare un interrogativo esistenziale, un problema filosofico, una posizione metafisica.


giovedì 28 agosto 2025

Giovanni Papini, Il tragico quotidiano e il pilota cieco

 


Giovanni Papini, Il tragico quotidiano e il pilota cieco, Firenze, Vallecchi, 1920



L’uomo che non poté essere imperatore


Stile allocutivo in questo racconto in cui lo scrittore si rivolge a un ipotetico lettore, che ha specularmente le sue stesse caratteristiche psicologiche. L’impossibilità di realizzare la propria esistenza secondo la propria volontà fa dell’uomo ambizioso un pensatore, un filosofo metafisico, un sognatore insomma. L’attività intellettuale come conseguenza del fallimento nell’azione : il filosofo come uomo politico fallito, un antieroe, un décadent, secondo una visione molto nietzscheana.



I consigli di Amleto


Stile allocutivo si è detto, ma qui rasenta un tono da comizio elettorale. Ed è qui il difetto principale di Papini (che osa rimproverare a D’Annunzio !), quello cioè di giocare con le parole in un crescendo retorico e ripetitivo degli stessi concetti. Ciò non toglie nulla però all’abilità e duttilità della scrittura che è quella di uno spirito originale che talvolta esagera in originalità.



Il demonio mi disse


Il narratore incontra uno strano personaggio che si presenta come il demonio e che lo esorta a una morale superomistica (i grandi peccatori non vengono puniti ma esaltati, sono i piccoli e meschini peccatori ad essere puniti). Bisogna mangiare tutti i frutti dell’albero del bene e del male, non solo uno, per diventare Dei !



Il demonio tentato


E’ un discorso paradossale in cui si rimprovera al diavolo di non essere stato un vero nemico della Divinità per non avere distrutto interamente la creazione, ma anzi avere contribuito al cambiamento e alla diversità e quindi alla moltiplicazione degli stati e degli atti, in una incosciente collaborazione con il Creatore. Ciò dicendo il narratore giunge a far piangere di delusione il demonio stesso. Se fosse stato filosofo avrebbe fatto invece in modo da ridurre tutto a un’unica sostanza o al nulla, il che non sarebbe stato granché differente.



La preghiera del palombaro


Qui si rivela il genio di Papini nella rappresentazione quasi leopardiana del genere umano, una massa di disperati che abita tetri tuguri in attesa della morte, illudendosi di poter procrastinare la propria condanna.



Il mendicante di anime


Uno scrittore alla ricerca di argomenti per un racconto che gli farà sbarcare il lunario incontra il suo soggetto preferito : l’uomo comune. Ma la vita di costui, che si fa narrare brevemente, è talmente piatta, banale e scontata nella sua monotonia che egli ne prova orrore. E’ un po’ come la vita di Ivan Iljìc di Tolstoj, una esistenza calma, confortevole, economicamente sicura, ma priva di passione, di slancio vitale, di creatività. Una vita da automa insomma.



Colui che non poté amare


E’ il lamento di Don Giovanni, sempre alla ricerca dell’amore e di una donna che non trova mai, la donna amata appunto. Così è passato di passione in passione di corpo in corpo senza mai appagamento e sincero sentimento. Ormai vecchio si trova solo in compagnia dell’Ebreo Errante a raccontare la propria vita in una birreria. Quest’ultimo cerca di consolarlo esponendo la sua filosofia del cambiamento, che egli ha sempre consapevolmente praticato, ma non riesce a consolare l’amante deluso.



L’ultima visita del gentiluomo malato


Uno strano personaggio, un gentiluomo rinascimentale dall’aria malaticcia, confessa di essere solo un sogno e di essere alla ricerca del suo sognatore per chiedergli di lasciarlo vivere ancora. Poi però cambia idea e vorrebbe sparire per sempre provocando il risveglio del suo creatore. Infine scompare alla vista del narratore.



Lo specchio che fugge


Immaginiamo di fermare per un attimo il tempo e di pietrificare la vita che fugge e conduce gli uomini verso il futuro. Gli uomini resi come statue immobili cominceranno a rendersi conto della miseria del presente senza la prospettiva di un futuro che la riscatta nella speranza del meglio. Ma se si rendessero conto che il futuro diviene presente e a sua volta richiama altro futuro a diventare presente sino alla morte che non ha più futuro, allora capirebbero che la vita è assurda perché la si detesta nel presente per una speranza vana. E l’illusione conduce poi alla morte. La vita è abominevole noia, sofferenza, dolore, male, ma lo specchio che fugge ci fa inseguire una catena di illusorie lusinghe, dietro le quali si apre a inghiottirci il baratro della fine.



Non voglio più essere quello che sono


Discorso rivolto ai lettori di colui che non vuole essere più se stesso, perché sa che non potrà mai non essere se stesso. Già da questa espressione si può notare l’assurdità della pretesa. Inoltre l’aspirante all’alienazione non vuole ricorrere al suicidio per sopprimere il proprio Io, perché questo gli toglierebbe appunto la possibilità di essere un altro. Infine giunge un demonio ad annunciargli che presto sarà accontentato, lasciando un vago odore di incenso nella stanza.



Uomo tra uomini


E’ difficile riconoscere l’uomo del destino. Per la folla egli è uno tra i tanti, uno sconosciuto, un individuo anonimo. Ma basta che si riveli e allora tutti immaginano di averlo incontrato, di averlo visto.



Elegia per ciò che non fu


Il rimpianto del tempo perduto, di ciò che non è stato, ma avrebbe potuto essere. Il protagonista prova rimpianto, e spavento per il vuoto della propria esistenza.



Due immagini in una vasca


(Racconto che ha ispirato Jorge Luis Borges nella novella “L’altro” de Il libro di sabbia).

Un uomo ritorna nella città dove ha vissuto la sua giovinezza. Ritrova i luoghi di un tempo e in un giardino affacciandosi su una vasca d’acqua morta vede due immagini riflesse : il sé di oggi e il sé del passato. Il sé della sua giovinezza ora gli si affianca quale assiduo compagno e all’inizio la sua presenza, pur così ossessiva, è piacevole. In seguito però l’uomo non ne può più e decide di eliminarlo affogando in quella stessa vasca il suo sé giovanile. E’ il solo uomo che viva ancora dopo aver ucciso se stesso.



Storia completamente assurda


Il narratore riceve la visita d’uno strano personaggio, attratto dalla sua fama letteraria. Costui estrae da una valigetta un libro consunto e, chiesto il permesso di poterlo leggere e di poterne ricevere il parere (se positivo l’avrebbe accolto con gioia, se negativo si sarebbe suicidato), comincia la lettura. Il narratore-ascoltatore al suono della voce di quello è sempre più sbalordito sino allo stupore più assoluto. Infatti il soggetto del libro è l’esposizione di tutta la sua vita passata, punto per punto. Fuori di sé decide di eliminare l’incomodo lettore e gli presenta alla fine il suo parere negativo. Quello, uscito di casa insieme a lui, si getta nel fiume. Al mattino il narratore appena desto dal sonno ha come la sensazione di essere morto. Ma è solo una sensazione.



Chi sei ?


E’ la voce narrante di un tale che ha molte relazioni e tra queste un buon numero di epistolari. Ma una mattina non gli giunge nessuna lettera e così le mattine seguenti, passate in tormentosa attesa. Uscito in strada, nessuno dei suoi conoscenti mostra di riconoscerlo, neppure gli abituali avventori del caffè, dove è solito recarsi assai spesso. Sul punto di impazzire ritorna affranto a casa sua. Qui a forza di meditare trasforma la domanda degli altri : “Chi è lei ?” in una domanda più profonda rivolta a se stesso : “Chi sei tu ?”. La riflessione su se stesso lo libera a poco a poco dai legami con gli altri e dai loro pregiudizi. Entra in una fase di consapevolezza che gli restituisce fiducia in sé solo. Quindi ritorna nel mondo e scopre che tutto è tornato come prima della mattina fatale. Finalmente riceve la posta, finalmente gli amici lo riconoscono e gli parlano. E’ ritornato l’uomo noto di un tempo, ma nell’animo ormai è segnato da un senso di irrimediabile solitudine.



Il giorno non restituito


Il narratore riferisce di aver conosciuto un’anziana principessa, un tempo bellissima, ma ora relegata in una villa decadente. Costei lo aveva ricevuto e in segno di amicizia gli aveva confidato di aver prestato molti anni prima un anno della sua vita a un misterioso personaggio. Quest’ultimo le aveva garantito che a sua richiesta le avrebbe restituito nel corso della sua esistenza dei giorni di giovinezza compatibilmente agli anni raccolti da altre nobildonne per mantenere in vita sua figlia ammalata. La principessa ogni tanto si era tolta la voglia di ritornare giovane, ma poi non aveva più tenuto il conto dei giorni spesi e si era trovata a disporre di poco tempo residuo. Ora era disperata perché le rimaneva solo un giorno di gioventù. Il narratore ottiene per quel giorno di esserle amante e quando si reca all’appuntamento trova la principessa morta di dolore alla notizia, recatale per via epistolare, che il suo debitore non poteva momentaneamente restituirle nulla del tempo dovutole e le chiedeva di aspettare (chissà per quanto !).



I muti


Il narratore presenta l’incontro con uno strano personaggio che vuole mostrare agli uomini la loro grande miseria. Costui è ritenuto un maestro di saggezza e, eccentrico com’è, ammette al suo insegnamento solo una volta ogni uomo che desideri riceverlo. Nessuno perciò ha mai avuto a che fare con lui in più di una occasione nella vita. Il suo nome è Ariele (rammenta Shakespeare, La tempesta) e il suo insegnamento consiste nello svelare il fatto che tutta la realtà dell’universo è un infinito discorso interrogativo a cui l’umanità finora non è stata in grado di presentare delle risposte. Per questo motivo gli uomini soffrono, vivono nel dolore, muti e poi muoiono. Ma se sapessero rispondere all’universale domanda un nuovo mondo li attenderebbe, una gioia immensa !



L’orologio fermo alle sette


Interessante svago letterario su un orologio dal meccanismo rotto che segna imperturbabile sempre la stessa ora, le sette. Mentre il tempo scorre inesorabile per gli altri, da quell’orologio è segnato invece l’attimo dell’eternità consegnato ad essa definitivamente. E così il narratore sa che il tempo nel suo giro, nel suo ciclo obbligato ripasserà ogni giorno per quel punto del quadrante, che in quel momento darà l’impressione di essere ancora un meccanismo in funzione, vivo.



Noi tutti abbiamo promesso !


Un tale si rivolge a noi tutti, affermando di essere roso dal rimorso di non ricordare la promessa fatta prima di venire al mondo. La vita è senza senso senza appunto il ricordo di questa promessa fatta nell’interesse dell’umanità. Non si vive per godere, si vive per adempiere alla promessa. Sì certo, ma quale ? Il nostro interlocutore, anzi locutore, non se ne ricorda.



Perché vuoi amarmi ?


Elegia in prosa sul desiderio di amare e di essere amati e sulla impossibilità di realizzarlo. L’amato si chiude all’amore dell’amante, in una ripulsa che sdegna l’insistenza della donna, che non può capirlo, non può unirsi a lui veramente nell’anima. Ma poi prevale il senso e qualsiasi ragionamento sfuma, svaporando nella brama.



Più presto !


Sembra quasi una parodia del mito futurista della velocità e del dinamismo. La vita umana è fatta di troppi momenti di noia e di nulla, potrebbe essere condensata anche in un giorno, purché sia di gloria e poi venga la morte !



Una morte mentale


Parodia della Noluntas di Schopenhauer. Un certo Kressler (cognome allusivo di origine tedesca) mette in pratica la sua teoria del suicidio mentale, secondo la quale è sufficiente per morire non volere più vivere. Egli così semplicemente non agisce, non compie nulla che possa spronarlo a vivere. E così alla fine riesce a morire e a realizzare la sua teoria filosofica.



La zia di tutti


Una zitellona, ritenuta, caso singolare, depositaria di tutta la sapienza matrimoniale, dispensa consigli ai suoi devoti, che pullulano sempre più numerosi in tutto il mondo. Un bel giorno arriva a casa sua una giovane ammiratrice che le reca una strana richiesta : avere un figlio straordinario da un uomo straordinario, s’intende senza sposarsi. La zitellona ci pensa e poi promette. In breve trova il soggetto adatto, un grande scrittore, colto e bello, però ahimè ammogliato. Non fa nulla, va bene lo stesso. L’importante è avere un figlio super. Così la giovane donna un po’ stramba ottiene quanto vuole. Però la moglie di lui, donna di larghe vedute, esige il divorzio e lui, il grand’uomo, si sposa con un’altra donna, non la giovane stramba. Quest’ultima, si ritrova sola con un figlio, cacciata di casa dalla sua famiglia inorridita, ed errabonda di paese in paese. Il bello è che il figlio super tanto super non è, anzi è idiota. Così va il mondo.

La vicenda, che è garantita come vera, mi ricorda la sorte di alcune mie colleghe, che in seguito a matrimoni sfortunati sono divenute femministe sfegatate antipatriarca e adoratrici prone a terra dei loro divini rampolli.



Il suicida sostituto


Un uomo annuncia all’amico di volersi uccidere per amor suo, per sostituirsi a lui che, nell’abbandono dei suoi ideali di un tempo, dovrebbe uccidersi necessariamente. In una sorta di parodia del sacrificio di Cristo, l’aspirante suicida vuole annientarsi per la salvezza, se non dell’umanità, dell’amico che ama più di se stesso. Ma l’amico sorride, scettico. Allora l’aspirante suicida salvatore si dilegua alla sua vista, scomparendo nella nebbia della strada, verso la morte.



Lettere d’amore


Un tale ritrova in fondo a un cassettone un plico di lettere d’amore scrittegli anni prima da una donna innamorata (caso attualmente impensabile !). E invece di ricordare la perduta passione e immergersi nel ricordo nostalgico del passato, calcola il peso del pacco di lettere, il loro costo complessivo, il tipo di carta, l’origine e il costo dei francobolli. E’ infatti assolutamente incapace di essere sentimentale (e in questo prelude alla nostra epoca di esibizionisti del sesso).


Indubbiamente si tratta di una lettura che incuriosisce per la spiccata originalità del testo, il cui tono oscilla tra l’ironico e il grottesco.


mercoledì 20 agosto 2025

Circe

 

Sulla collina nel silenzio del vento

cinta da solitaria selva,

quale rupe selvaggia sovra i dorsi

ombrosi, giace la casa,

lontano in coro lamento di gabbiani.

Ella tesse la tela perenne

di trame auree del sole,

quando un ospite giunge

apre labirinti di melodie eternali.

Non sanno quali meraviglie

nasconda, poi che nel giardino azzurro

ripara lieve nelle virenti aurore

e fiori elegge per il suo mistero.

Invano, straniero, volgeresti

la tua vana parola. Ella è sola,

ode il verde mormorio del mare,

nei suoi pensieri assorta,

e vede ciò che tu non vedi.

Non tentare lusinga, non sia mai

ch’ella attinga ai tuoi pensieri !

Quando è presso il tramonto

la veste sèrica indossa ricamata d’oro

e di marini sorrisi di smeraldo

ed al tardo soggiorno dice addio.

Svanisce allora tra le coltri della notte

e sulle ali della sera attende

a porti un sogno.


sabato 9 agosto 2025

Speranza


Forse la pace della Natura universa

non vede l’uomo nel cielo, non vede

nel respiro del mare, non ode nell’ombra

delle selve sonore e il cuore è colmo

di tempesta. S’arresta allora la vita,

l’animo incupisce, sorgono le tenebre

dell’odio, l’occhio non più s’apre

alla luce, non scorge più di notte

le stelle. Dov’è la via, dove

degli avi l’antico sentiero ?  Ecco

buio intorno, non lume s’avverte

lontano, sospira la selva di lamenti.

Il dolore ci assale e in vano errare

disperatamente. Ma poco basta

alla vita e quando all’alba s’irradia

un sorriso sulle acque serene e i monti,

ti consola una rinata fede e il coro

suadente delle creature arboree e il soffio

dei venti canori tra i mormoranti rami.

Allora tace il tumulto e il volto

in alto s’erge e gli occhi attendono,

finché giù dalle cime e dai tetti

lente calano silenti le ombre.