mercoledì 11 aprile 2012

Le tre madri






Era con lei sulla riva del mare.
La brezza le animava i capelli che respiravano i vividi raggi. Gli occhi erano lo specchio profondo della distesa delle acque azzurre e luminose nel mattino. In essi lo sguardo altrui si smarriva come a cercarne l’orizzonte.
Ella l’osservava misteriosamente, senza parola.
Ma egli la ricambiò con un’occhiata d’odio troppo a lungo represso. In quali contrade voleva condurlo, ch’egli non avesse già percorso ? O quali conoscenze poteva comunicargli questo essere affascinante, ma pur sempre limitato dai vincoli del corpo, bello d’una bellezza che aveva egli già ammirato nell’animo e nella mente, e dotato d’attrattive assai inferiori a quelle che avevano ammaliato i suoi sogni ?
Provò il desiderio d’ingannarla, di violarla, di soffocarla col rancore della delusione, ma non poté che continuare a guardarla, costernato.
Ella era davanti a lui, impassibile, indifferente. Se fosse stata una statua o un blocco di pietra non avrebbe fatto diverso effetto.
Gli occhi, profondi e immutabili, l’osservavano senza emozione.
Senza comprensione alcuna non mirava ella che un’immagine riflessa nelle sue pupille.
Ella era perduta. Perduta dal destino incontestabile, dal fato silente.
Non l’aveva già conosciuta nella figlia dei vicoli bui, dal volto innaturale, dalla maschera d’apparente freschezza, dagli occhi sensuosi di daina, che nascondono la servitù ? Non l’aveva già vista ai margini delle strade nella piccola creatura bruna dell’accattone vizioso, che rispecchiava nello sguardo ancora innocente l’immonda e ostinata sicumera paterna, e nella petulanza infantile ne ripeteva la folle ribellione ?
Una dura e irreprensibile condanna era su di lei. Sul frutto del ventre suo e sulle generazioni a venire. E l’infamia non avrebbe risparmiato nessuno.
Una stirpe cui non è concesso il perdono s’aggira nel baratro della terra e sui figli pesano le colpe dei padri e contro le madri si leva il biasimo della progenie. E non è grazia alla pena, né alcun sollievo al tormento del cuore, ma per lei che genera questa stirpe è il pianto e i gemiti nella solitudine e l’odiosa vecchiaia.
E fino a quando avrebbe egli dovuto sopportare la vista di questa umanità sofferente e disgustosa, acida eppure sempre pronta ad elemosinare compassione ?
Sino alla fine dei tempi dovevano trascinare la miserabile esistenza, senza elevare gli occhi al cielo, senza una particella di nobile sentimento, sino alla fine dei tempi.
E vide prostrato nell’inverno silenzioso, presso ai margini d’una foresta estesa come un mare e immersa nella neve, un uomo, abbattuto, giacere.
Il suo capo presentava il colpo dell’agente divino, le occhiaie insanguinate erano coverte da un velame di gelo. La bocca aperta e storta sul suolo pareva prorompere in un ultimo grido blasfemo, e tra le mascelle spezzate si dipartiva sul terreno una profonda spaccatura ramificata quale quella d’un vaso infranto.
I vestiti ardevano ancora e nel cielo, sopra le brume echeggianti, s’udiva il rombo minaccioso, e il fulmine con l’artiglio accecante dilaniava l’aria.
E lontano in una piana mefitica s’ammassavano le costruzioni della città, dove una folla febbricitante di esseri famelici s’affannava ad accumulare ricchezze, senza requie, senza altro pensiero, prona al suolo, avida come una tribù di topi.
E allora ricordò le compagnie dei falsi amici pronti all’abbandono per trenta denari dietro il primo ricco anfitrione, e ne  rammentò gli sguardi lucidi di lurida cupidigia, e vide le giovani innamorate ammiranti lo splendore dell’oro, ed ebbe nella mente il volto turpe e scuro della femmina volgare che mentiva l’affetto.
E così la Figlia del Libano per lungo tempo aveva mendicato negli angoli bui e si era prostituita ai figli degli uomini. E aveva conosciuto tutte le miserie del cuore umano e nelle pupille aveva riflesso la foia impura dei malnati e le occhiate dure degli ipocriti e il corpo suo era stato oppresso dall’incubo.
Ed egli l’aveva incontrata nella via di Damasco, e gli era parsa pura quale angelo fra tanta impurità, e le aveva toccato la fronte e aveva desiderato liberarla.
E le aveva detto : “ O più divina e bella della magnificenza di Salomone e più candida e luminosa dei gigli, sei calpestato, povero fiore ? A questa esistenza sei nata tu, la cui bellezza è riflesso dei bagliori del cielo ? “
Ed ora ella era innanzi a lui.
E sul viso impassibile trascorrevano i peccati di tutte le generazioni e le grida di tutte le miserie ai suoi piedi s’affollavano come ondate.
Era ella la Mater Lachrymarum che piange i volti dei figli perduti e reca nell’urna il dolore delle madri orbate dei nati, e cieche nella disperazione, ma talvolta i suoi occhi si dirigono in segno di biasimo al cielo cui rivolge dure parole, degnamente poi che è coronata del diadema divino, ed è regina dei sogni e insinua il tormento nelle camere più segrete e opprime il cuore.
Era ella la Mater Suspiriorum coronata d’un diadema privo di gemme, che erra fra le rovine di Cartagine e di Roma, che geme sulle mura di Gerusalemme, che s’annida quale uccello rapace e notturno entro i ruderi dell’antico splendore, e le vesti sanno la polvere del tempo e il suo volto la noia d’innumerevoli vite senza un senso.
Era ella la Mater Tenebrarum, il cui diadema è cinto di torri come quello di Cibele, il cui viso intollerabile alla vista è nascosto da un triplice velo nero, ed ella sfida la potenza di Dio e negli occhi reca la perpetua sofferenza, ed ogni capello della lunga chioma s’estende quale raggio e sfiora la mente degli uomini, così genera la follia, e non ha riposo, ma balzando simile a fiera carpisce e divora le anime dei mortali, e suo regno è la desolazione e il silenzio o un rantolo roco.
E allora ella lo prese per mano e lo portò via dal lido del mare, volando su per la rabbia dei venti, che fugano in un turbine ogni immagine quando il corpo cade preda del sacro morbo, e lo condusse nella valle del principio senza luce.
Qui ben celata ai sensi dei mortali è la porta della Femmina oscura, radice del cielo e della terra.
E la valle è rocciosa ed aspra e altissimi alberi afferrano con le barbe nodose e artigliate il dorso ineguale e scabro del pendio, e una penombra lugubre non mai viene offesa dai raggi diurni, poi che le foglie quasi d’autunno perenne restano o cadono e sopra è frescura e sotto un manto che putre.
Sopra una rupe s’adergeva, sulle zampe spietate, un leone ruggendo spaventosamente, e ne tremava l’aria e ne rimbombava la foresta.
E, dietro, un’ immensa porta moresca si dischiuse lentamente cigolando sui cardini, e luci della notte e fiammelle verdi vi si sperdevano in un’ombra ardente infinita.
Su un trono supremo apparve ella allora. Rivestita d’uno splendore opalino apparve nella maestà imperiale, e pallida quale sogno reggeva tra le mani un cuore sanguinante.

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