Il lago era esteso come un mare.
Egli si fermò nel recinto petroso. E tra le colonne dei
tronchi osservava la distesa delle onde placide, che appena mormoravano.
Ed ecco che, inaspettatamente, scorse proprio la sua stessa
immagine, davanti ai suoi occhi, convolta di pallore d’alba, che procedeva
sovra i ciottoli della riva, priva di vestimento, quale antico fauno.
Ma, all’improvviso, apparve approssimarsi al galoppo un
imponente corsiero negro, pungolato dagli aculei della Rabbia, con le orbite
ignite siccome sfere di fuoco.
Esso pareva il Destino cui gli uomini bruciano le vite sugli
altari dell’immolazione. Esso pareva la Vendetta che arde e consuma il cuore di
coloro che inclinano il capo innanzi all’esistenza.
Percuoteva con gli zoccoli il suolo e ne levava frammenti di
pietre e nugoli di sabbia, che vaporavano dinnanzi alla sua testa quali fumi di
sacrifici. Un’ostinazione incrollabile, un’energia inesauribile esprimeva la
sagoma furiosa. Irrompeva con l’impeto d’un torrente in piena, che sormonta e
scardina ogni barriera. L’assalto che non si può respingere era in lui, la
brama della vita universa, l’orgoglio insanabile, la sete perpetua della
conoscenza, la superbia di Lucifero.
E il lago ora s’agitava per subitanea tempesta, tumultuando
con l’urlo di mille titani liberati, frangendosi con ira prodiga contro le ripe
rocciose, con l’ostinazione d’un rancore sempre nuovo.
Le nubi erano trascinate nel cielo dai vortici ventosi e si
scontravano nella foga delle correnti. Sembravano ardentemente slanciarsi verso
le albescenti contrade dell’alto azzurro.
Il cavallo continuava a correre, mentre nuvole nerastre
macchiavano le regioni luminose e profonde. Si dilatavano tra il biancore, così
che il cielo ospitava insieme la notte ed il giorno.
Un corteo di fiaccole defluì verso il lago, un torrente di
turbinosa fiamma. Genti sconosciute seguivano una vestale dalle chiome rosse,
ch’erano accese del lucore delle lampade crepitanti.
La donna li dispose, a un cenno, in circolo, intorno a un
tumulo di tronchi, ma quando depose la fiamma sulla pira, una vampa sulfurea in
un istante consunse tutto il legno e la terra scoperta rivelò un’ampia
fenditura.
Il giovane aderì al gruppo dei fedeli, e come il suolo
divaricò le pareti di roccia, s’immisero dentro alla cavità segreta.
La luce di un sole occiduo colorava il sotterraneo, d’un
astro morente o intorpidito nella sua forza, illanguidito in un mondo di stanco
oblio e di fievoli larve.
Un interminabile Alhambra li ospitava sotto le volte e le
arcate incise di linee enigmatiche e di sigilli zoomorfi. Le colonne
terminavano in capitelli fioriti in grandi fiori tropicali, misteriosi
arabeschi s’arrampicavano sovra le pareti. La luce, quasi un’acqua torbida,
assorbiva ogni sostanza più appariscente nella tonalità bronzina e cuprea come
un chiaroscuro di tinta verdastra e cupa e di chiazzature rossicce.
Sagome d’animali in legno d’ebano o in metallo sbalzato
erano poste ai lati di lunghi corridoi, imponenti elefanti di cedro fissavano
con gli occhi di topazio gli intrusi, minacciandoli con le zanne dorate.
E mentre s’addentravano, alcuni, tra i quali anche il
giovane curioso, incespicarono in inattesi rialzi del pavimento, che dapprima
furono percepiti e ritenuti come suppellettili, ma subito dopo si rivelarono
cadaveri, abbandonati ancora caldi sulle lastre marmoree che erano in parte
divenute scivolose per la copia del sangue.
Erano corpi di gioventù guerriera, depredata dell’armatura,
e taluni seminudi offrivano al lume delle torce il fianco dilaniato o l’eburneo
tronco e i muscoli e le linee del costato, che apparivano in rilievo sotto la
pelle.
Sparsi giacevano, isolati o ammucchiati, ai piedi di
simulacri marmorei, le cui effigi, adorne di doni votivi e di ghirlande,
sembravano aver rappresentato per essi, in vita, un oggetto di desiderio e di
speranze, un punto di riferimento più che materiale, un’aspirazione custodita
gelosamente nel cuore, un ideale che anima l’esistenza di fantasmi abbaglianti
e persuasivi, più evidenti della realtà stessa.
Sparsi giacevano, bianchi e puri della loro bellezza,
divelti nel fiore degli anni dall’antica branca diramata delle generazioni,
come germogli arsi dal gelo in una primavera immatura.
E nel sotterraneo s’apriva una cavità senza confini. E in
essa altri giovani, a migliaia, correvano, ebbri, cosparse le membra nudate di
sudore, dietro un possente corsiero candido che galoppava imbizzarrito sopra le
sabbie. E in alto sovra l’abisso una fanciulla danzava nei raggi rossi del
tramonto e il vento giocava coi suoi capelli.
E quei giovani, come a festa, si cingevano l’armi che
posavano sulle sabbie, e agitavano le lance e brandivano le spade e cantavano
canti di guerra e marciavano ritmicamente, sì come una danza.
Il cavallo bianco percuoteva la spuma delle onde e il sudore
del suo corpo era raggelato dai venti impetuosi e la criniera e la coda erano
agitate nell’impeto degli spiri e nella furia del moto.
E come quella sagoma nuda e bianca, così parevano attratti
dal ritmo d’una musica primitiva e dalle movenze d’un’arcaica danza i giovani
guerrieri che si destreggiavano in una corsa cadenzata e minacciosa dietro una
guida ignota, contro un nemico invisibile.
Ma innanzi a loro gli araldi e i vessilliferi sorreggevano
sulle spalle robuste, vestite dell’armatura, un pesante sarcofago nero, e il
loro piede sprofondava nella sabbia ed avanzavano a fatica.
Un canto di vittoria s’udì provenire dal promontorio che
s’innalzava sopra le onde, arduo e scosceso, quale erta montagna. Inerpicandosi
con le armi lucenti indosso, incedevano inarrestabili di rupe in rupe alcuni
guerrieri dardeggiando raggi nel cielo violaceo.
E ogni loro passo era un inno vittorioso e il piede colpiva
la terra e sollevava polvere e imprimeva l’orma nella terra.
Ed egli vide l’esercito trascorrere innumerabile siccome il
manto delle foglie mutevoli nella stagione autunnale. Quale la stirpe delle
foglie, tale la progenie umana passava dopo un breve rigoglio, dalla vita al
colore cupo della morte. Trascinate dal vento impetuoso dell’Ovest esse si
disperdono, così le vite degli orgogliosi mortali sparge sulla terra e nei
recessi del mare il soffio del definitivo tramonto. Oh, vento dell’Ovest !
Il loro sangue era assorbito dalle aride arene. Le armi
lucenti si maculavano affondando nelle corazze, le urla di dolore si fondevano
coi canti di guerra.
Come foglie morenti i loro morenti spiriti esalavano
nell’ultimo anelito l’ardore e la speranza, quale sacrificio estremo e sangue e
seme versato a riscatto della progenie, per una nascita nuova.
Sentì nel cuore l’impeto della lotta. In lui agivano forze
opposte, l’una matrice di debolezza e tormento, l’altra lo esortava alla
conoscenza e al superamento d’ogni contrasto. Aveva assistito a quella danza
con lo stato d’animo di chi può finalmente dire d’essere libero. Non era
libertà forse quell’assalto delle onde contro gli scogli, o la correntìa dei
venti sulle vie delle montagne, o la tempesta che rimbomba sulle pianure ? Era
dunque lotta, era guerra inesorabile e senza fine la libertà. Era lotta e
guerra inesorabile contro tutti i limiti della carne e dell’anima, per
l’affermazione dell’io, del sé che mai potrà né distruggere né intaccare la
natura e il tempo con le vicende della corruzione e della malattia. Dioniso avrebbe
sempre vinto e sempre avrebbe sottomesso e domato l’eterna sposa.
Le tempie gli dolevano. Egli percepiva in sé medesimo il
contrasto della debolezza e della forza, riassumeva in sé medesimo il dolore
universale. Ma doveva per sopravvivere appigliarsi a qualunque spuntone di
roccia si fosse offerto per non precipitare nel baratro. Ed ecco che il
corsiero furente in corsa sul litorale lo invitava a partecipare a quella vita
fremida, possente, all’agone che chiama alla vittoria. Non importa che lungo il
cammino soccombiate, non importa il morire, pareva annunciasse, ma affrontare
il nemico a viso aperto, ma drizzare gli occhi al vessillo della libertà.
Ed egli ora era presso la donna, sul litorale. E si specchiò
nell’oscurità dei suoi occhi, e la luce del crepuscolo e il tenue candore della
luna sorgente attraversarono la notte entro la sua pupilla senza fine. Ed egli
ammirò l’infinita distesa delle acque ove al brillìo argentino fluiva a
connubio il rosso ondeggiare dei raggi oltremarini. E vide le onde fiammee
estinguersi sul lido, e il cavallo disparire nella penombra del plenilunio
prossimo, mentre la luce lunare a oriente lo implicava nel pallore e il sole sprizzava tra i crini della coda e
della giuba gli estremi ardori, avvolgendosi ad occidente nel purpureo
languore.
Era l’ultimo giorno, l’eterno attimo che preannunzia
l’esistenza intera, che la riassume nella sensazione del compimento e della
perdita, era un dolce riposo in fronte a orizzonti lucenti di promesse non
mantenute. Così la speranza, morendo, pareva perpetuarsi nella maestà della
linea infinita, colorata d’argento e di sangue. Dietro quel confine mortale era
lo spazio senza termine, l’abisso del nulla, cui tende la stanca nostalgia
dell’uomo. E dal nulla sarebbe sorto un nuovo sole e un primo giorno per nuovi
esseri, e un’altra genesi si sarebbe affidata alla memoria di rinnovate
illusioni.
La lunga fantasmagoria del passato era dunque una pietruzza
nel mosaico del crepuscolo che nella solennità della fine consacrava la certa
resurrezione, cui forse la sua debole fiammella non avrebbe preso parte, e si
sarebbe spenta per non accendersi mai più.
La vita incessante, tuttavia, nell’irresistibile gorgo
rinnovava i suoi sogni come una nascita nuova. Quale alba che s’annuncia sulle
rosee acque, egli vide nello specchio delle sue visioni sorgere la vita e sentì
l’anima sua empirsi del fremito di ardori e di desiderii non dimenticati. Che
importa il morire, se la vita in noi è colma di speranze oltre la morte ?
Ascese sovra le rocce inondate dalla spuma algosa. E diresse
il piede di rupe in rupe, sospinto dal vento impetuoso.
E gli sembrava d’ascendere in una danza insieme alla luce e
al vento e all’effervescenza marina. Gli pareva che la natura palpitasse al
palpito del suo cuore e respirasse nel suo respiro.
Era ora, era finalmente iniziato al Mistero.
Vide erigersi per il promontorio un grande centauro.
Un grande centauro bruno recava sopra le spalle il corpo
inerte d’un giovane dalla lunga chioma castana, e bianco e grigio del colore
che hanno le membra esangui.
Il volto era trasumanato nell’estasi estrema o estenuato
nell’arduo sforzo di raggiungere i vertiginosi astri e le altezze abbaglianti
del sentimento.
E in lui riconobbe l’ansia d’amore, uccisa ancor prima che,
sbocciata, fiorisse e gli rivelasse l’essere suo. E allora si vide sul lido
marino, accanto alla donna, e gli pareva che una dolcezza e una gioia
indefinibili fluissero per l’animo e il corpo quale libera corsa per lo spazio
senza confini, e credeva d’avere ormai raggiunto il sapere supremo e la
rivelazione d’ogni Mistero. Avrebbe trovato la sospirata e tanto cercata
redenzione dalle sofferenze del desiderio, e l’anima si sarebbe placata in un
riposo soave come una nave che giunge nel porto dopo la burrasca, cui è
sfuggita miracolosamente, e l’equipaggio sbarca e discende in una nuova terra.
E innanzi alla donna stava adorante, rapito per l’apparizione d’una divinità
costantemente pregata, e apriva a lei il cuore ingenuamente, e il volto era
ebro e incantato.
Riviveva l’Ideale, il fiore dal talamo aureo che, irrorato
dal giorno nascente, rispecchia nel suo incarnato la primavera, alla brezza
odorosa dei morbidi vaneggiamenti. Non può essere sradicato senza arrecare un
vivo dolore e così condurre allo smarrimento per la vista delle sofferenze e
dell’oblio nella notte.
Allora esso estendeva le radici fino ai profondi recessi
dell’anima. E si alimentava delle speranze e assorbiva il liquore infuocato dal
calice delle passioni.
Ma s’oppose la donna, col rifiuto. La frigida femmina
s’irrigidì, compresa di sé, avvolta nel bozzolo della propria desolazione,
incapace d’amare.
Il disdegno e l’ira saturarono il petto di lui. La congedò
con durezza, appena rivolgendole le parole necessarie. Ed ella fuggiva, la
vestale dalle chiome rosse, la sterile messaggera della luna, e piangeva il
destino e l’eterna condanna.
Così dunque svaniva ogni illusione. E il desiderio
d’un’esistenza comune ai mortali ne veniva frustrato per sempre. Ma egli non
ignorava che la piccola felicità degli uomini brilla d’attrattive esteriori e
si nutre di squallide miserie, e chi la incontra o ben presto si allontana o
s’accontenta e non cerca più felicità alcuna.
Eppure la Vita, imperiosa e implacabile, comandava
d’inseguire le chimere del sogno e i fantasmi del desiderio, a costo della
disillusione e del dolore che si presentavano sempre come la certa e
inevitabile conseguenza.
Quale gioia in quale eternità era promessa ? A che il
tormento e la sofferenza continuamente rinnovati ?
Un insopportabile manipolo d’affanni strinse il suo cuore in
una morsa. Sentì chiaramente la pena infinita dello spirito che anela alla
liberazione, e un senso irreprimibile di rivolta sorse entro il petto e gli
chiuse la gola nell’angoscia.