domenica 18 novembre 2012

Il lago





















Il lago era esteso come un mare.
Egli si fermò nel recinto petroso. E tra le colonne dei tronchi osservava la distesa delle onde placide, che appena mormoravano.
Ed ecco che, inaspettatamente, scorse proprio la sua stessa immagine, davanti ai suoi occhi, convolta di pallore d’alba, che procedeva sovra i ciottoli della riva, priva di vestimento, quale antico fauno.
Ma, all’improvviso, apparve approssimarsi al galoppo un imponente corsiero negro, pungolato dagli aculei della Rabbia, con le orbite ignite siccome sfere di fuoco.
Esso pareva il Destino cui gli uomini bruciano le vite sugli altari dell’immolazione. Esso pareva la Vendetta che arde e consuma il cuore di coloro che inclinano il capo innanzi all’esistenza.
Percuoteva con gli zoccoli il suolo e ne levava frammenti di pietre e nugoli di sabbia, che vaporavano dinnanzi alla sua testa quali fumi di sacrifici. Un’ostinazione incrollabile, un’energia inesauribile esprimeva la sagoma furiosa. Irrompeva con l’impeto d’un torrente in piena, che sormonta e scardina ogni barriera. L’assalto che non si può respingere era in lui, la brama della vita universa, l’orgoglio insanabile, la sete perpetua della conoscenza, la superbia di Lucifero.
E il lago ora s’agitava per subitanea tempesta, tumultuando con l’urlo di mille titani liberati, frangendosi con ira prodiga contro le ripe rocciose, con l’ostinazione d’un rancore sempre nuovo.
Le nubi erano trascinate nel cielo dai vortici ventosi e si scontravano nella foga delle correnti. Sembravano ardentemente slanciarsi verso le albescenti contrade dell’alto azzurro.
Il cavallo continuava a correre, mentre nuvole nerastre macchiavano le regioni luminose e profonde. Si dilatavano tra il biancore, così che il cielo ospitava insieme la notte ed il giorno.
Un corteo di fiaccole defluì verso il lago, un torrente di turbinosa fiamma. Genti sconosciute seguivano una vestale dalle chiome rosse, ch’erano accese del lucore delle lampade crepitanti.
La donna li dispose, a un cenno, in circolo, intorno a un tumulo di tronchi, ma quando depose la fiamma sulla pira, una vampa sulfurea in un istante consunse tutto il legno e la terra scoperta rivelò un’ampia fenditura.
Il giovane aderì al gruppo dei fedeli, e come il suolo divaricò le pareti di roccia, s’immisero dentro alla cavità segreta.
La luce di un sole occiduo colorava il sotterraneo, d’un astro morente o intorpidito nella sua forza, illanguidito in un mondo di stanco oblio e di fievoli larve.
Un interminabile Alhambra li ospitava sotto le volte e le arcate incise di linee enigmatiche e di sigilli zoomorfi. Le colonne terminavano in capitelli fioriti in grandi fiori tropicali, misteriosi arabeschi s’arrampicavano sovra le pareti. La luce, quasi un’acqua torbida, assorbiva ogni sostanza più appariscente nella tonalità bronzina e cuprea come un chiaroscuro di tinta verdastra e cupa e di chiazzature rossicce.
Sagome d’animali in legno d’ebano o in metallo sbalzato erano poste ai lati di lunghi corridoi, imponenti elefanti di cedro fissavano con gli occhi di topazio gli intrusi, minacciandoli con le zanne dorate.
E mentre s’addentravano, alcuni, tra i quali anche il giovane curioso, incespicarono in inattesi rialzi del pavimento, che dapprima furono percepiti e ritenuti come suppellettili, ma subito dopo si rivelarono cadaveri, abbandonati ancora caldi sulle lastre marmoree che erano in parte divenute scivolose per la copia del sangue.
Erano corpi di gioventù guerriera, depredata dell’armatura, e taluni seminudi offrivano al lume delle torce il fianco dilaniato o l’eburneo tronco e i muscoli e le linee del costato, che apparivano in rilievo sotto la pelle.
Sparsi giacevano, isolati o ammucchiati, ai piedi di simulacri marmorei, le cui effigi, adorne di doni votivi e di ghirlande, sembravano aver rappresentato per essi, in vita, un oggetto di desiderio e di speranze, un punto di riferimento più che materiale, un’aspirazione custodita gelosamente nel cuore, un ideale che anima l’esistenza di fantasmi abbaglianti e persuasivi, più evidenti della realtà stessa.
Sparsi giacevano, bianchi e puri della loro bellezza, divelti nel fiore degli anni dall’antica branca diramata delle generazioni, come germogli arsi dal gelo in una primavera immatura.
E nel sotterraneo s’apriva una cavità senza confini. E in essa altri giovani, a migliaia, correvano, ebbri, cosparse le membra nudate di sudore, dietro un possente corsiero candido che galoppava imbizzarrito sopra le sabbie. E in alto sovra l’abisso una fanciulla danzava nei raggi rossi del tramonto e il vento giocava coi suoi capelli.
E quei giovani, come a festa, si cingevano l’armi che posavano sulle sabbie, e agitavano le lance e brandivano le spade e cantavano canti di guerra e marciavano ritmicamente, sì come una danza.
Il cavallo bianco percuoteva la spuma delle onde e il sudore del suo corpo era raggelato dai venti impetuosi e la criniera e la coda erano agitate nell’impeto degli spiri e nella furia del moto.
E come quella sagoma nuda e bianca, così parevano attratti dal ritmo d’una musica primitiva e dalle movenze d’un’arcaica danza i giovani guerrieri che si destreggiavano in una corsa cadenzata e minacciosa dietro una guida ignota, contro un nemico invisibile.
Ma innanzi a loro gli araldi e i vessilliferi sorreggevano sulle spalle robuste, vestite dell’armatura, un pesante sarcofago nero, e il loro piede sprofondava nella sabbia ed avanzavano a fatica.
Un canto di vittoria s’udì provenire dal promontorio che s’innalzava sopra le onde, arduo e scosceso, quale erta montagna. Inerpicandosi con le armi lucenti indosso, incedevano inarrestabili di rupe in rupe alcuni guerrieri dardeggiando raggi nel cielo violaceo.
E ogni loro passo era un inno vittorioso e il piede colpiva la terra e sollevava polvere e imprimeva l’orma nella terra.
Ed egli vide l’esercito trascorrere innumerabile siccome il manto delle foglie mutevoli nella stagione autunnale. Quale la stirpe delle foglie, tale la progenie umana passava dopo un breve rigoglio, dalla vita al colore cupo della morte. Trascinate dal vento impetuoso dell’Ovest esse si disperdono, così le vite degli orgogliosi mortali sparge sulla terra e nei recessi del mare il soffio del definitivo tramonto. Oh, vento dell’Ovest !
Il loro sangue era assorbito dalle aride arene. Le armi lucenti si maculavano affondando nelle corazze, le urla di dolore si fondevano coi canti di guerra.
Come foglie morenti i loro morenti spiriti esalavano nell’ultimo anelito l’ardore e la speranza, quale sacrificio estremo e sangue e seme versato a riscatto della progenie, per una nascita nuova.
Sentì nel cuore l’impeto della lotta. In lui agivano forze opposte, l’una matrice di debolezza e tormento, l’altra lo esortava alla conoscenza e al superamento d’ogni contrasto. Aveva assistito a quella danza con lo stato d’animo di chi può finalmente dire d’essere libero. Non era libertà forse quell’assalto delle onde contro gli scogli, o la correntìa dei venti sulle vie delle montagne, o la tempesta che rimbomba sulle pianure ? Era dunque lotta, era guerra inesorabile e senza fine la libertà. Era lotta e guerra inesorabile contro tutti i limiti della carne e dell’anima, per l’affermazione dell’io, del sé che mai potrà né distruggere né intaccare la natura e il tempo con le vicende della corruzione e della malattia. Dioniso avrebbe sempre vinto e sempre avrebbe sottomesso e domato l’eterna sposa.
Le tempie gli dolevano. Egli percepiva in sé medesimo il contrasto della debolezza e della forza, riassumeva in sé medesimo il dolore universale. Ma doveva per sopravvivere appigliarsi a qualunque spuntone di roccia si fosse offerto per non precipitare nel baratro. Ed ecco che il corsiero furente in corsa sul litorale lo invitava a partecipare a quella vita fremida, possente, all’agone che chiama alla vittoria. Non importa che lungo il cammino soccombiate, non importa il morire, pareva annunciasse, ma affrontare il nemico a viso aperto, ma drizzare gli occhi al vessillo della libertà.
Ed egli ora era presso la donna, sul litorale. E si specchiò nell’oscurità dei suoi occhi, e la luce del crepuscolo e il tenue candore della luna sorgente attraversarono la notte entro la sua pupilla senza fine. Ed egli ammirò l’infinita distesa delle acque ove al brillìo argentino fluiva a connubio il rosso ondeggiare dei raggi oltremarini. E vide le onde fiammee estinguersi sul lido, e il cavallo disparire nella penombra del plenilunio prossimo, mentre la luce lunare a oriente lo implicava nel pallore  e il sole sprizzava tra i crini della coda e della giuba gli estremi ardori, avvolgendosi ad occidente nel purpureo languore.
Era l’ultimo giorno, l’eterno attimo che preannunzia l’esistenza intera, che la riassume nella sensazione del compimento e della perdita, era un dolce riposo in fronte a orizzonti lucenti di promesse non mantenute. Così la speranza, morendo, pareva perpetuarsi nella maestà della linea infinita, colorata d’argento e di sangue. Dietro quel confine mortale era lo spazio senza termine, l’abisso del nulla, cui tende la stanca nostalgia dell’uomo. E dal nulla sarebbe sorto un nuovo sole e un primo giorno per nuovi esseri, e un’altra genesi si sarebbe affidata alla memoria di rinnovate illusioni.
La lunga fantasmagoria del passato era dunque una pietruzza nel mosaico del crepuscolo che nella solennità della fine consacrava la certa resurrezione, cui forse la sua debole fiammella non avrebbe preso parte, e si sarebbe spenta per non accendersi mai più.
La vita incessante, tuttavia, nell’irresistibile gorgo rinnovava i suoi sogni come una nascita nuova. Quale alba che s’annuncia sulle rosee acque, egli vide nello specchio delle sue visioni sorgere la vita e sentì l’anima sua empirsi del fremito di ardori e di desiderii non dimenticati. Che importa il morire, se la vita in noi è colma di speranze oltre la morte ?
Ascese sovra le rocce inondate dalla spuma algosa. E diresse il piede di rupe in rupe, sospinto dal vento impetuoso.
E gli sembrava d’ascendere in una danza insieme alla luce e al vento e all’effervescenza marina. Gli pareva che la natura palpitasse al palpito del suo cuore e respirasse nel suo respiro.
Era ora, era finalmente iniziato al Mistero.
Vide erigersi per il promontorio un grande centauro.
Un grande centauro bruno recava sopra le spalle il corpo inerte d’un giovane dalla lunga chioma castana, e bianco e grigio del colore che hanno le membra esangui.
Il volto era trasumanato nell’estasi estrema o estenuato nell’arduo sforzo di raggiungere i vertiginosi astri e le altezze abbaglianti del sentimento.
E in lui riconobbe l’ansia d’amore, uccisa ancor prima che, sbocciata, fiorisse e gli rivelasse l’essere suo. E allora si vide sul lido marino, accanto alla donna, e gli pareva che una dolcezza e una gioia indefinibili fluissero per l’animo e il corpo quale libera corsa per lo spazio senza confini, e credeva d’avere ormai raggiunto il sapere supremo e la rivelazione d’ogni Mistero. Avrebbe trovato la sospirata e tanto cercata redenzione dalle sofferenze del desiderio, e l’anima si sarebbe placata in un riposo soave come una nave che giunge nel porto dopo la burrasca, cui è sfuggita miracolosamente, e l’equipaggio sbarca e discende in una nuova terra. E innanzi alla donna stava adorante, rapito per l’apparizione d’una divinità costantemente pregata, e apriva a lei il cuore ingenuamente, e il volto era ebro e incantato.
Riviveva l’Ideale, il fiore dal talamo aureo che, irrorato dal giorno nascente, rispecchia nel suo incarnato la primavera, alla brezza odorosa dei morbidi vaneggiamenti. Non può essere sradicato senza arrecare un vivo dolore e così condurre allo smarrimento per la vista delle sofferenze e dell’oblio nella notte.
Allora esso estendeva le radici fino ai profondi recessi dell’anima. E si alimentava delle speranze e assorbiva il liquore infuocato dal calice delle passioni.
Ma s’oppose la donna, col rifiuto. La frigida femmina s’irrigidì, compresa di sé, avvolta nel bozzolo della propria desolazione, incapace d’amare.
Il disdegno e l’ira saturarono il petto di lui. La congedò con durezza, appena rivolgendole le parole necessarie. Ed ella fuggiva, la vestale dalle chiome rosse, la sterile messaggera della luna, e piangeva il destino e l’eterna condanna.
Così dunque svaniva ogni illusione. E il desiderio d’un’esistenza comune ai mortali ne veniva frustrato per sempre. Ma egli non ignorava che la piccola felicità degli uomini brilla d’attrattive esteriori e si nutre di squallide miserie, e chi la incontra o ben presto si allontana o s’accontenta e non cerca più felicità alcuna.
Eppure la Vita, imperiosa e implacabile, comandava d’inseguire le chimere del sogno e i fantasmi del desiderio, a costo della disillusione e del dolore che si presentavano sempre come la certa e inevitabile conseguenza.
Quale gioia in quale eternità era promessa ? A che il tormento e la sofferenza continuamente rinnovati ?
Un insopportabile manipolo d’affanni strinse il suo cuore in una morsa. Sentì chiaramente la pena infinita dello spirito che anela alla liberazione, e un senso irreprimibile di rivolta sorse entro il petto e gli chiuse la gola nell’angoscia.      



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