Alto come una montagna assolata sopra le valli brumose, il
suo cuore s’empiva della luce d’innumerevoli aurore, gl’inni rosei della
giovinezza.
Ricordava vagamente le parole di un canto appreso
nell’adolescenza : “ Tu sei la mia terra natìa, la tua luce mai mi mancherà.”
Ah, sì, non era mai mancata quella luce, che ora lo conduceva per i sentieri
solitari d’una vita altrimenti oscura.
Vedeva elevarsi la nebbia sopra la valle, cingere i fianchi
del monte, carezzare le cime dei pini, fluttuare, ruotare in su e sperdersi
agli sbuffi del vento o frangersi contro le rupi. Sopra il mare di nebbia il
suo cuore cercava il sole e la sua ombra si coricava sull’erba. Vedeva intorno
a sé la distesa delle montagne e la propria solitudine. Era al mondo, doveva
essere nel mondo, ma dov’era il mondo ? Era il sibilo del vento contro le
fronde degli alberi, era il lento ascendere della nebbia, era il silenzio della
montagna. Non altro era il mondo.
E pensava all’amore di Petrarca per Laura e a quella
meravigliosa solitudine di Valchiusa, così immaginava, immersa nel verde degli
ulivi, dei castagni e dei pini, una passione incurabile e nello stesso tempo
pura come la segretezza d’un chiostro, di un “hortus conclusus”. E ricordava le
meditazioni del poeta quando ascendeva, con il fratello, al monte Ventoso, e si
riconosceva in quelle parole, perché avrebbero potuto essere le sue.
Così guardava dall’alto del colle la campagna d’intorno e le
altre colline digradanti verso il mare, tutte coperte d’una fitta distesa di
fronde. E il sole faceva capolino tra i rami degli alberi sopra di lui, mentre
il suo manto di luce d’oro si stendeva sui prati ridenti di fiori. Gli uccelli
cantavano per la vasta selva.
Ed egli sentiva dentro di sé l’eco d’una musica insistente,
suasiva, impetuosa, e che il rullo di mille tamburi esplodesse nello squillo di
trombe ad annunciare un evento straordinario. Invaso da una forza sovrumana si
volse verso il sole. In alto, invincibile, eterno, il dio egizio gli apparve
allora nella sua gloria. Il datore di vita, il re dell’universo forse lo
esortava a non temere, a non fuggire più la vita, ad abbracciarla, a viverla in
tutta la pienezza, a colmare le vene del suo stesso fuoco ? Gli occhi gli si riempirono di
quella luce. Abbacinato, chinò lo sguardo ed ebbe l’impressione strana di
scorgere se stesso o meglio l’immagine se non il fantasma di sé, correre nel
buio d’un’infinita foresta, mentre i suoi occhi splendevano nell’oscurità come
smeraldi irradiati.
E quella musica, insistente, invincibile attraversava la
foresta nell’impeto del vento e la cingeva fragorosa con le onde d’un fiume
risuonante.
Ebbe allora la chiara visione dell’Occhio universale. Si
librava sopra il vasto lago dell’Essere e lo guardava, con la sua iride
trasparente. Brillava della luce del cosmo e pareva, o forse era, il suo stesso
occhio, i suoi stessi occhi, la sua stessa intelligenza senza corpo, rilucente
del suo proprio lume.
Allora ebbe chiara intorno a lui l’apparizione della volontà
senza limiti, della vita rinnovantesi in ogni vana determinazione, ma in realtà
rinascente in nuove forme sempre identica a se stessa.
E vide se stesso come affermazione, come “sì” al richiamo
della vita, e nella sua giovinezza fugace egli scorse tutta la giovinezza degli
uomini, di tutti i secoli, l’eterna giovinezza. E udì attorno a sé un inno di
gioia, un inno empire la volta del cielo, un murmure di voci, quali ondate del
vasto mare risonante, un fragore di flutti iridescenti, un canto sublime e
possente fluire quale un fiume impetuoso senza ostacoli, senza argini, senza confini.