mercoledì 11 settembre 2013

In alto




Egli era solo innanzi al mare.
Nei suoi occhi il mare irradiava il palpito della vita, e un sentore di sale e d’alghe gli bruciava le narici. Si sentì animato da uno spirito. E nella visione gli era presso un cavallo bianco.
Immobile, lo attendeva da molto tempo.
Dietro di esso una selva estendeva le propaggini rigogliose.
Scorse nel folto bocci di rose rosse, e, avvicinatosi, vide che tra giacinti e camelie passavano sfiorando il suolo esseri straordinari dalla pelle turchina, dai fluenti capelli lisci o ricciuti di vario colore, dagli occhi oblunghi e dalle dita affusolate in unghie cresciute quali punte di picca.
Un vapore blu aerava sotto l’ampia volta delle fronde, i cui tronchi mentivano ad occhio sano volute di capitelli e scanalature di colonne e reggevano in gran copia frutti d’ogni sorta, limoni profumati, arance, bergamotti, melagrane, mele rosate, lucidi cachi e fichi verdi.
S’incupiva più oltre l’atmosfera maliosa.
Egli montò allora sul cavallo bianco, che non lo aveva lasciato per un attimo, quasi fosse la sua ombra, e si mise dentro al dedalo misterioso.
Oltre le rocce, in lontananza, sovra il promontorio che incombeva sul mare e si drizzava in torrioni eccelsi, il sole s’era vestito d’un bagliore rosso, brillante come un rubino, e suscitava l’idea d’un rogo immenso o che fosse l’occhio d’un mostro dell’Erebo svincolatosi dai ferrei legami del mondo sotterraneo, salito sulla terra per spiare, invido, i mortali.
Un vapore ceruleo aliava sotto un cielo coperto di nubi grigie.
Innanzi, una parete rocciosa s’offeriva, infranta dal logorìo dei venti e dei diluvii, come un portale, aperta nel centro mirabilmente, quasi un arco ad ogiva, e sembrava segnare i confini di una regione sconosciuta.
Ed egli s’inoltrò nella valle solitaria.
Ai lati del sentiero una nebbia leggera inumidiva i tronchi scuri delle querce e dei castagni, le cui folte frasche erano traversate dai raggi mattutini.
Percepiva il rumoreggiare della corrente di qualche rivo, più avanti, dove la luce illustrava un morbido prato di asfodeli.
Un fiume bagnava con onde regolari e flemmatiche le sponde erbose e fiorite.
Giovani donne bionde dalle vesti purpuree trapunte di fili d’argento lanciavano in aria tra loro una sfera dorata, che ritraeva il fulgore del sole.
Una fanciulla si allontanò, prendendo il cammino della foresta. La veste si sollevava lievemente sopra i piedi rosei, che sfioravano il suolo. E pareva che la circondasse il profumo di tutti i fiori dei prati.
E trasse il cavaliere nella scia del volo sino ai lembi estremi della boscaglia, umidi e di nebbia e di placidi archi d’acque delicatamente segnati dal vento.
Quivi sorgeva un castello sulle onde, intessuto dei vapori e delle nebule che veleggiavano sopra la ferma distesa. Era un miraggio di vortici e correnti che erge la forza dell’estate, siccome un labirinto di sogni sullo specchio dormente delle paludi.
Ed egli attese sopra il cavallo bianco che si disserrasse il portone dell’ardua dimora e che calasse il ponte levatoio.
E, come fu entrato, vide una scalea smarrirsi in un complesso di archi rampanti, di bastioni turriti, di logge e colonnati, per i quali una folla di fanciulle discorreva suonando su magici strumenti incantate armonie.
Indossavano un candido peplo e avevano le chiome intrecciate e coronate di lauro e un nastro di seta stringeva loro la veste sotto il seno.
Ed una di esse, la più splendente, dal viso ambrato, dall’iride del colore dei capelli castanei e fulvidi siccome un ordimento di fili di rame, dalla formosa apparenza gentile, gli s’appressò, reggendo nella sinistra uno scettro d’oro.
E presolo per mano intraprese l’ascesa di grado in grado.
Ed egli comprendeva allora la vanità della propria piccola esistenza e la meschinità dei desideri e delle speranze che albergano nel cuore, e il senso chiaro dell’inutile affanno e il ricordo delle azioni passate, un agitarsi tormentoso destinato a svanire nel nulla.
Non era egli certamente quello che finora era stato. Era stato soltanto una maschera, uno sciocco manichino, un burattino manovrato dalle passioni del suo carattere avverso.
Ma una vita più profonda era in lui, una vita arcana, dolce e immutabile.
E, mentre saliva, lentamente avvertiva nascere in sé una consapevolezza nuova, e un Io più grande, cui il suo corpo apparteneva insieme alla vastezza e alla beltà del mondo.
E rammentò quando sulle montagne della sua terra saliva nella neve, tra i verdi abeti e i larici spogli, nella fresca aria invernale, insieme a tre amici, per il sentiero a tratti indicato da piccoli cumuli di sassi o da lembi di stoffa o da segnali dipinti sui tronchi.
Ascendevano all’assoluto silenzio del bosco, dei fianchi montani, delle rupi sopra le quali planavano e volteggiavano i corvi, delle catene dei monti candidi e luminosi.
Immensa era la vastità del silenzio. Non altri uomini s’aggiravano per le pendici, qua e là brune e spogliate del bianco vello, dove la neve s’era presto dissolta.
Ascendevano rapidi e ostinati su per il corpo illimitato della montagna coi loro piccoli corpi, violatori dell’immobilità, spettatori di uno spettacolo gelosamente custodito.
Ma a lui la neve inviava bagliori più vivaci. E i rami, attraversati dalla lucentezza cristallina del mattino invernale, gioivano in guizzi e scintillii istantanei.
E colmo era il cuore suo di quella luce. Invaso da un sentimento nuovo, da una passione non mai provata, era spronato da un pungolo invisibile, anelava alla vetta.
Il dorso della montagna nascondeva il disco del sole, ma i dardi infallibili del Titano discendevano per la selva, un’ondata di chiarità irresistibile.
Una tempesta di raggi travolgeva gli alti fusti e le fronde, irrompendo sulla neve e forzando e abbattendo i muri delle ombre.
Una musica potente si frangeva contro il suo cuore. Egli ne fu sommerso, e rigenerato.
E come venne alla fine del bosco e del cammino, sulla cresta erbosa del monte, il sole immenso l’avvolse nello splendore, e le giogaie e le rupi e i picchi audaci ardevano inondati dalla luce.
E vide il baratro al di sotto e l’altezza dell’azzurro sopra di sé, e la sconfinata estensione delle catene montuose, che si perdevano a vista d’occhio sempre meno evidenti e più sfumate verso l’orizzonte.
E scorse alcuni rapaci che aliavano in larghe ruote nell’aria irradiata, dove sparse reti di nebbia svanivano lentamente.
E si smarrì il suo sguardo nella luce dell’infinito azzurro. 
Gli sembrò che il corpo si mutasse in un alato sfrecciante nel libero volo, e le piume scarmigliandosi incontrassero i flutti gelidi dei venti vorticosi e le ali navigassero per sconfinati oceani di silenzio, su, sopra le nubi, verso l’occhio del Titano.  



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