sabato 4 ottobre 2014

Misandra, cap. 3

Misandra abitava fuori dal paese, nella villa antica.
L’unica figlia del defunto zio era un’attrattiva senza paragone, quando si mostrava per le vie del paese, anche se ciò accadeva assai di rado. Era bellissima.
Sposata al conte Oberto Aloisio d’Ormengo s’era ritirata nella campagna, per una sorta di riserbo, o secondo i maligni, di alterigia nobiliare, in realtà perché il conte Aloisio aveva dilapidato buona parte delle sue sostanze e con quel che rimaneva s’era ritirato in volontario esilio nei possedimenti aviti, che non erano stati perduti al gioco come tutto il resto del patrimonio.
E mentre pensava lungo il cammino, Mauro osservava intorno.
La foresta s’estendeva fitta e profondissima.
Solo la torre a cupola della vecchia villa emergeva rilucendo d’un verde smeraldo. Un mondo davvero incantato le sorgeva intorno; le piante erano cresciute dapprima educate nelle loro aiuole e nei loro vivai e trattenute alcune e legate a paletti e sempre opportunamente sfrondate, e gli arbusti e gli alberi da frutto potati nella giusta stagione, dipoi, col trascorrere del tempo, erano state a poco a poco trascurate se non abbandonate completamente, sicché, con l’assottigliarsi del patrimonio famigliare, avevano per così dire ripreso l’antico stato di natura e, affrancate, erano tornate libere e selvagge.
Esse parevano veramente quei pensieri e quelle fantasie che, repressi e circoscritti e ostacolati in ogni modo durante la veglia, prendono irresistibile vigore nel sonno e, crescendo smisuratamente, invadono l’immaginazione superando ogni argine, quasi un fiume in piena nutrito dalle piogge abbondanti sulle montagne.
E, colmato dalle piogge e nutrito da una piccola fontana sormontata da un simulacro di delfino corroso dal tempo, faceva scintillare le sue fievoli onde un laghetto, dalle acque verdastre, circondato da lauri e da pini, sul quale il vento sibilava provenendo dal mare e tentava di conferirgli il suo stesso odore salino ch’effondeva nell’aria.
Intorno la fitta boscaglia lasciava filtrare i fasci luminosi, dove svolazzavano le tortore grigiastre. Le lunghe e tenaci piante rampicanti intessevano vaste trame tra gli alti rami delle querce, stendendo ampie tele verdi incompiute fra i legni contorti, che fungevano da naturali telai. E il manto smeraldino si confondeva qua e là in ombre senza fondo o si lacerava in squarci di luce abbagliante. Talvolta un silenzio assoluto e l’assenza di vento lasciava sospesa nell’immobilità quella visione d’acque limpide e di lussureggianti intrecci floreali, quasi si fosse innanzi ad un quadro dipinto da un pittore ammaliato, ma poi, quando il silente incantesimo si rompeva o per l’improvvisa irruzione d’un colombo agitato o per gli sbuffi capricciosi dell’aria frizzante, allora il movimento inaspettato animava improvvisamente le piante e gli elementi, come se si destassero degli spiriti potenti dal pacifico sonno dei secoli.
Talvolta una radura s’apriva, investita dai raggi del sole che s’innalzava trionfante, e da quel luogo era possibile volgere lo sguardo alle montagne intorno, dove i pini erano più radi e lasciavano libera la nuda roccia che pareva in alcuni punti riflettere il giorno fulgido.
E più lontano ancora più alte erano le montagne e una vegetazione ignota le possedeva, bruna e impenetrabile.
E se si procedeva nella foresta, allora s’udiva anche il mormorìo sommesso d’un ruscello che scorreva tra i sassi e poi fluiva in un rivo quasi sepolto dai giunchi sulle sponde, ma dove s’allargava e stazionava in insenature, formava specchi d’acqua profonda sulla quale le ninfee navigavano dai fiori bianchi, sorreggendo qualche rana sonnolenta e sfidata dal volo d’una rapida libellula.
Così discendendo a valle il rivo alimentava qua e là degli stagni nel terreno irregolare, nutrendo un folto canneto e malve e trifoglio.
Si sentiva cantare in un intrico di castagni e di querce abbracciati da liane robuste. Era un trillo argentino di merlo o una gazzarra di passeri o di storni pasciuti dove il folto delle foglie si confondeva con l’erba alta, ma in alto appariva il falco nel giro ampio delle grandi ruote : planava immobile e maestoso.
C’era un vecchio mulino ad acqua nascosto dalla vegetazione. Le erbacce e i rovi avevano formato un alto recinto attorno ad esso, ma la sua fabbrica tozza appariva ugualmente, anche se rivestita d’uno spesso strato di rampicanti.
Le pale lignee erano in parte consunte dal tempo e divorate dai vermi e dall’umidità. L’acqua che cadeva nel bacino di pietra sembrava aver fretta di lasciare quel luogo desolato, come avesse orrore dei muschi e delle erbe tra i quali doveva correre e che avevano riempito quel rudere senza gloria.
Il canale era ostruito dal fango e dai detriti trasportati dall’acqua, sì che il rivo s’allargava in nere pozzanghere dove s’agitavano girini e larve di zanzara.
Un sentore d’umor fracido aleggiava sotto i rami contorti d’un fico gigantesco, i cui frutti caduti imputridivano gonfi nel liquame.
E oltre la siepe di pittòsporo selvatico il suolo declinava seguendo la fuga del fiumiciattolo.

Ora era nella pineta presso al mare.
Sotto ad un alto pino stavano due ragazze. Erano seminude e non s’erano accorte della sua presenza. La brezza marina enfiava loro delicatamente le chiome e sollevava un poco le vesti deposte ai piedi.
Erano molto simili tra loro, parevano riflettersi l’una nell’altra. Erano bionde, e le membra avevano d’un incarnato roseo, che, quando era illustrato dai raggi tralucenti fra le fronde lievemente mosse, risplendeva.
Così chiaro era il loro incarnato quale hanno le rose pallide non ancora trascorse e al culmine della loro pienezza.
Veramente pareva realizzarsi il sogno dei suoi sensi, un’illusione sfuggiva agli occhi profondi, quale sorgiva cilestre, della più casta, mentre l’altra sorrideva d’un caldo anelito, come un ansito del giorno estivo che forse si soffermava sperando fra i suoi capelli.
Preso da quella visione, siccome fosse in deliquio, non udiva neppure il mormorio del mare.
Nel boschetto irrigato dagli accordi delle onde sonore e regolari si disperdeva e si smarriva il venticello carico d’umidi vapori, e al largo la vasta distesa non si muoveva, assonnata, rifrangendo la luce perpendicolarmente sfrecciante al cielo.
E nell’ombra e nel silenzio dello spazio raccolto, nell’ombra e nel silenzio s’udiva un dolente sospiro, un impercettibile, un sussurrato richiamo.
Dov’era il suo anelito ? Oltre le montagne, oltre i mari ?
Là nel trionfo del sole, là intorno alle vette superbe delle montagne il suo cuore aveva sfidato distese infinite di nubi, s’erano inebriati i suoi occhi della vertigine degli abissi.
Aveva cantato il suo cuore un canto di potenza e di gioia, mentre ascendeva di roccia in roccia, e udiva il gracchiare dei corvi echeggiare e il volo rapido scomparire nella luce, fra le nuvole.
Tutte le vette intorno, e tutti i boschi allora vibravano perdutamente nell’immensa ebbrezza.
Ma un gemito, un sospiro pareva salire dalla valle.
E, preso dal ricordo, volle riposare un momento all’ombra degli alberi.
Trascorreva il primo pomeriggio.
L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno; e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e puosimi a pensare di questa cortesissima.”
Rammentò il dolce rapimento che lo aveva colto alla lettura della Vita Nova e il dono che aveva diligentemente preparato per un amico, confidente dei suoi sogni, il Libro di Coloro che temono.
E insieme a quel breve scritto era fuggita anche la sua adolescenza. Ma la rimembranza di essa era cresciuta tanto da colmare la sua vita che rimaneva, siccome la stanca celebrazione ad opera d’un popolo vecchio della straordinaria storia degli avi.
E così ricordava il dolce amore dell’adolescenza, il dolce amore sognato.
E la memoria anche gli donava per pochi istanti i giorni del passato, quando durante l’estate, da fanciullo, saliva per un sentiero nel bosco fino a un cascinale abbandonato.
Il giorno splendeva d’una luce intensa.
Gli alberi erano avvolti da un alone dorato.
I ruderi delle cascine erano seminascosti dai rovi e dalle gaggìe.
E da quel sito solitario in alto sulla collina, si scorgeva un panorama di colli e balze prealpine, coverti da un unico manto selvoso, d’un verde lucido.
E poi rammentava la villetta che sovrastava la casa colonica, coi due ippocastani dal lato sinistro e il giardino e il frutteto, e il grande prato davanti.
Dopo il giardino c’erano in un boschetto tre alti cedri del libano che ondeggiavano maestosamente nei giorni di vento. E c’era una nera quercia frondosa che affondava le nodose radici nel lieve pendìo come braccia forti. E poi v’era qualche abete e poi ancora una china erbosa che terminava in un torrentello.
Quanti sogni viaggiando avevano un poco sostato in quel luogo, e, come i cavalli d’una vecchia diligenza, s’erano abbeverati alla stazione, e, riposatisi, di nuovo avevano ripreso la loro corsa per dileguarsi all’orizzonte.
Quelle colline peraltro erano già ricche di memorie. Uno scrittore che aveva abitato in una casa non lontana, passando in carrozza o a cavallo aveva ricevuto sicuramente l’ispirazione dal fascino del paesaggio, dall’atmosfera sognante o forse dalle bellezze locali. Ma c’erano altre memorie, meno feconde di volumi, certo, pure assai più vive e tenaci, e vaste per ogni vita per lui che ricordava.
E ricordava ogni evento in un alone di giorno luminoso, ogni giorno del suo passato immerso in una pura bellezza, in un quadro radioso di colori e di spazi sconfinati, quasi che, avendo appena terminato la lettura del più bello dei romanzi, ora ne ripercorresse le vicende, facendo rivivere i personaggi e le emozioni e le peripezie, nella rimembranza.
E così rammentava la vasta distesa delle montagne, e l’altezza dei picchi rocciosi, immersi tra le nubi. E la coltre delle nebbie che s’adagiava sui fianchi del monte distaccava, come in un sogno, un mondo insperato di dei dal mondo, oscuro nella valle, degli uomini. Lassù, per certo, un altro sole, più grande e più benevolo, illustrava della sua gioia, del suo gaudio immenso, le vette e le rupi ardite e le rendeva partecipi d’una vita celeste ed immortale.
Non avrebbe voluto tornare indietro.
Lassù lo attendeva la visione del mondo.
Lassù gli si sarebbe mostrata la verità in tutta la sua grandezza.
Pure, doveva tornare. Certo a quell’ora Misandra lo aspettava.
La selva appariva d’un verde cupo, qua e là tra le nebbie vaganti come spettri che, più spesse a valle, si diradavano, s’allungavano, si frastagliavano man mano che, innalzandosi, volitavano verso le alte montagne.
Ed egli s’inoltrò per un sentiero, tra i castagni ombrosi, nell’umido silenzio del sottobosco.




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