Misandra abitava fuori dal
paese, nella villa antica.
L’unica figlia del
defunto zio era un’attrattiva senza paragone, quando si mostrava
per le vie del paese, anche se ciò accadeva assai di rado. Era
bellissima.
Sposata al conte Oberto
Aloisio d’Ormengo s’era ritirata nella campagna, per una sorta di
riserbo, o secondo i maligni, di alterigia nobiliare, in realtà
perché il conte Aloisio aveva dilapidato buona parte delle sue
sostanze e con quel che rimaneva s’era ritirato in volontario
esilio nei possedimenti aviti, che non erano stati perduti al gioco
come tutto il resto del patrimonio.
E mentre pensava lungo il
cammino, Mauro osservava intorno.
La foresta s’estendeva
fitta e profondissima.
Solo la torre a cupola
della vecchia villa emergeva rilucendo d’un verde smeraldo. Un
mondo davvero incantato le sorgeva intorno; le piante erano cresciute
dapprima educate nelle loro aiuole e nei loro vivai e trattenute
alcune e legate a paletti e sempre opportunamente sfrondate, e gli
arbusti e gli alberi da frutto potati nella giusta stagione, dipoi,
col trascorrere del tempo, erano state a poco a poco trascurate se
non abbandonate completamente, sicché, con l’assottigliarsi del
patrimonio famigliare, avevano per così dire ripreso l’antico
stato di natura e, affrancate, erano tornate libere e selvagge.
Esse parevano veramente
quei pensieri e quelle fantasie che, repressi e circoscritti e
ostacolati in ogni modo durante la veglia, prendono irresistibile
vigore nel sonno e, crescendo smisuratamente, invadono
l’immaginazione superando ogni argine, quasi un fiume in piena
nutrito dalle piogge abbondanti sulle montagne.
E, colmato dalle piogge e
nutrito da una piccola fontana sormontata da un simulacro di delfino
corroso dal tempo, faceva scintillare le sue fievoli onde un
laghetto, dalle acque verdastre, circondato da lauri e da pini, sul
quale il vento sibilava provenendo dal mare e tentava di conferirgli
il suo stesso odore salino ch’effondeva nell’aria.
Intorno la fitta boscaglia
lasciava filtrare i fasci luminosi, dove svolazzavano le tortore
grigiastre. Le lunghe e tenaci piante rampicanti intessevano vaste
trame tra gli alti rami delle querce, stendendo ampie tele verdi
incompiute fra i legni contorti, che fungevano da naturali telai. E
il manto smeraldino si confondeva qua e là in ombre senza fondo o si
lacerava in squarci di luce abbagliante. Talvolta un silenzio
assoluto e l’assenza di vento lasciava sospesa nell’immobilità
quella visione d’acque limpide e di lussureggianti intrecci
floreali, quasi si fosse innanzi ad un quadro dipinto da un pittore
ammaliato, ma poi, quando il silente incantesimo si rompeva o per
l’improvvisa irruzione d’un colombo agitato o per gli sbuffi
capricciosi dell’aria frizzante, allora il movimento inaspettato
animava improvvisamente le piante e gli elementi, come se si
destassero degli spiriti potenti dal pacifico sonno dei secoli.
Talvolta una radura
s’apriva, investita dai raggi del sole che s’innalzava
trionfante, e da quel luogo era possibile volgere lo sguardo alle
montagne intorno, dove i pini erano più radi e lasciavano libera la
nuda roccia che pareva in alcuni punti riflettere il giorno fulgido.
E più lontano ancora più
alte erano le montagne e una vegetazione ignota le possedeva, bruna e
impenetrabile.
E se si procedeva nella
foresta, allora s’udiva anche il mormorìo sommesso d’un ruscello
che scorreva tra i sassi e poi fluiva in un rivo quasi sepolto dai
giunchi sulle sponde, ma dove s’allargava e stazionava in
insenature, formava specchi d’acqua profonda sulla quale le ninfee
navigavano dai fiori bianchi, sorreggendo qualche rana sonnolenta e
sfidata dal volo d’una rapida libellula.
Così discendendo a valle
il rivo alimentava qua e là degli stagni nel terreno irregolare,
nutrendo un folto canneto e malve e trifoglio.
Si sentiva cantare in un
intrico di castagni e di querce abbracciati da liane robuste. Era un
trillo argentino di merlo o una gazzarra di passeri o di storni
pasciuti dove il folto delle foglie si confondeva con l’erba alta,
ma in alto appariva il falco nel giro ampio delle grandi ruote :
planava immobile e maestoso.
C’era un vecchio mulino
ad acqua nascosto dalla vegetazione. Le erbacce e i rovi avevano
formato un alto recinto attorno ad esso, ma la sua fabbrica tozza
appariva ugualmente, anche se rivestita d’uno spesso strato di
rampicanti.
Le pale lignee erano in
parte consunte dal tempo e divorate dai vermi e dall’umidità.
L’acqua che cadeva nel bacino di pietra sembrava aver fretta di
lasciare quel luogo desolato, come avesse orrore dei muschi e delle
erbe tra i quali doveva correre e che avevano riempito quel rudere
senza gloria.
Il canale era ostruito dal
fango e dai detriti trasportati dall’acqua, sì che il rivo
s’allargava in nere pozzanghere dove s’agitavano girini e larve
di zanzara.
Un sentore d’umor
fracido aleggiava sotto i rami contorti d’un fico gigantesco, i cui
frutti caduti imputridivano gonfi nel liquame.
E oltre la siepe di
pittòsporo selvatico il suolo declinava seguendo la fuga del
fiumiciattolo.
Ora era nella pineta
presso al mare.
Sotto ad un alto pino
stavano due ragazze. Erano seminude e non s’erano accorte della sua
presenza. La brezza marina enfiava loro delicatamente le chiome e
sollevava un poco le vesti deposte ai piedi.
Erano molto simili tra
loro, parevano riflettersi l’una nell’altra. Erano bionde, e le
membra avevano d’un incarnato roseo, che, quando era illustrato dai
raggi tralucenti fra le fronde lievemente mosse, risplendeva.
Così chiaro era il loro
incarnato quale hanno le rose pallide non ancora trascorse e al
culmine della loro pienezza.
Veramente pareva
realizzarsi il sogno dei suoi sensi, un’illusione sfuggiva agli
occhi profondi, quale sorgiva cilestre, della più casta, mentre
l’altra sorrideva d’un caldo anelito, come un ansito del giorno
estivo che forse si soffermava sperando fra i suoi capelli.
Preso da quella visione,
siccome fosse in deliquio, non udiva neppure il mormorio del mare.
Nel boschetto irrigato
dagli accordi delle onde sonore e regolari si disperdeva e si
smarriva il venticello carico d’umidi vapori, e al largo la vasta
distesa non si muoveva, assonnata, rifrangendo la luce
perpendicolarmente sfrecciante al cielo.
E nell’ombra e nel
silenzio dello spazio raccolto, nell’ombra e nel silenzio s’udiva
un dolente sospiro, un impercettibile, un sussurrato richiamo.
Dov’era il suo anelito ?
Oltre le montagne, oltre i mari ?
Là nel trionfo del sole,
là intorno alle vette superbe delle montagne il suo cuore aveva
sfidato distese infinite di nubi, s’erano inebriati i suoi occhi
della vertigine degli abissi.
Aveva cantato il suo cuore
un canto di potenza e di gioia, mentre ascendeva di roccia in roccia,
e udiva il gracchiare dei corvi echeggiare e il volo rapido
scomparire nella luce, fra le nuvole.
Tutte le vette intorno, e
tutti i boschi allora vibravano perdutamente nell’immensa ebbrezza.
Ma un gemito, un sospiro
pareva salire dalla valle.
E, preso dal ricordo,
volle riposare un momento all’ombra degli alberi.
Trascorreva il primo
pomeriggio.
“L’ora che lo suo
dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno;
e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per
venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi
partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera,
e puosimi a pensare di questa cortesissima.”
Rammentò il dolce
rapimento che lo aveva colto alla lettura della Vita
Nova e il dono che aveva diligentemente
preparato per un amico, confidente dei suoi sogni, il Libro
di Coloro che temono.
E insieme a quel breve
scritto era fuggita anche la sua adolescenza. Ma la rimembranza di
essa era cresciuta tanto da colmare la sua vita che rimaneva, siccome
la stanca celebrazione ad opera d’un popolo vecchio della
straordinaria storia degli avi.
E così ricordava il dolce
amore dell’adolescenza, il dolce amore sognato.
E la memoria anche gli
donava per pochi istanti i giorni del passato, quando durante
l’estate, da fanciullo, saliva per un sentiero nel bosco fino a un
cascinale abbandonato.
Il giorno splendeva d’una
luce intensa.
Gli alberi erano avvolti
da un alone dorato.
I ruderi delle cascine
erano seminascosti dai rovi e dalle gaggìe.
E da quel sito solitario
in alto sulla collina, si scorgeva un panorama di colli e balze
prealpine, coverti da un unico manto selvoso, d’un verde lucido.
E poi rammentava la
villetta che sovrastava la casa colonica, coi due ippocastani dal
lato sinistro e il giardino e il frutteto, e il grande prato davanti.
Dopo il giardino c’erano
in un boschetto tre alti cedri del libano che ondeggiavano
maestosamente nei giorni di vento. E c’era una nera quercia
frondosa che affondava le nodose radici nel lieve pendìo come
braccia forti. E poi v’era qualche abete e poi ancora una china
erbosa che terminava in un torrentello.
Quanti sogni viaggiando
avevano un poco sostato in quel luogo, e, come i cavalli d’una
vecchia diligenza, s’erano abbeverati alla stazione, e, riposatisi,
di nuovo avevano ripreso la loro corsa per dileguarsi all’orizzonte.
Quelle colline peraltro
erano già ricche di memorie. Uno scrittore che aveva abitato in una
casa non lontana, passando in carrozza o a cavallo aveva ricevuto
sicuramente l’ispirazione dal fascino del paesaggio, dall’atmosfera
sognante o forse dalle bellezze locali. Ma c’erano altre memorie,
meno feconde di volumi, certo, pure assai più vive e tenaci, e vaste
per ogni vita per lui che ricordava.
E ricordava ogni evento in
un alone di giorno luminoso, ogni giorno del suo passato immerso in
una pura bellezza, in un quadro radioso di colori e di spazi
sconfinati, quasi che, avendo appena terminato la lettura del più
bello dei romanzi, ora ne ripercorresse le vicende, facendo rivivere
i personaggi e le emozioni e le peripezie, nella rimembranza.
E così rammentava la
vasta distesa delle montagne, e l’altezza dei picchi rocciosi,
immersi tra le nubi. E la coltre delle nebbie che s’adagiava sui
fianchi del monte distaccava, come in un sogno, un mondo insperato di
dei dal mondo, oscuro nella valle, degli uomini. Lassù, per certo,
un altro sole, più grande e più benevolo, illustrava della sua
gioia, del suo gaudio immenso, le vette e le rupi ardite e le rendeva
partecipi d’una vita celeste ed immortale.
Non avrebbe voluto tornare
indietro.
Lassù lo attendeva la
visione del mondo.
Lassù gli si sarebbe
mostrata la verità in tutta la sua grandezza.
Pure, doveva tornare.
Certo a quell’ora Misandra lo aspettava.
La selva appariva d’un
verde cupo, qua e là tra le nebbie vaganti come spettri che, più
spesse a valle, si diradavano, s’allungavano, si frastagliavano man
mano che, innalzandosi, volitavano verso le alte montagne.
Ed egli s’inoltrò per
un sentiero, tra i castagni ombrosi, nell’umido silenzio del
sottobosco.
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