Enrico
Thovez, Il viandante e la sua orma, Napoli, Ricciardi, 1923
“ Una
primavera in Grecia “ ( 1907 )
Anche
qui all'inizio si parla di Corfù e dell'isola dei morti di Boecklin
( pagg. 141-142 ) :
“ Dallo
spiazzo alto sul mare la visione mi appare subitamente, come
un'evocazione fantastica. Ai miei piedi, in un ampio specchio di mare
lucente come un lago, nell'arco dei monti violacei e azzurrini,
un'isola sorge, un'isola unica al mondo, un bruno dorso roccioso
coronato da una selva di lance nere di cipressi, tra i cui fusti
foschi si annida un umile monastero roseo, solitaria, silenziosa,
morta, come chiusa in un'atmosfera di leggenda e di sogno.
L'isola
d'Ulisse, la nave dei Feaci, ritornante dal ricondurre l'eroe,
impietrata da Posidone, l' “isola dei morti” di Boecklin. Omero,
Boecklin, il barbaro antico e il barbaro moderno, due fronti della
poesia leggendaria. Il pensiero erra dal mito dell'uno alla creazione
fantastica dell'altro. In quel bosco di pinastri che protendono
laggiù le loro ombrelle sul mare, Ulisse avrebbe incontrato Nausica,
la reginetta dei Feaci : e quella chiara casetta che traspare appena
tra le ombre dei cipressi evoca le edicole funeree del quadro
indimenticabile.
Da
anni ed anni questo braccio di mare azzurro, quel bosco verde, quei
lontani monti violati e quell'isola hanno arriso ai miei occhi ogni
alba allo svegliarmi da un'acquerello appeso alla parete della mia
stanza. Mi ero avvezzo a considerarli come il sogno di un poeta, e il
vederli in realtà mi dà quasi uno stupore. Dimentico che Boecklin
non la conobbe, e che, secondo gli archeologi, Ulisse non poté
sbarcare in questo punto : i poeti hanno intuizioni divine, e la
scienza filologica è cosa incerta. Nulla può togliere il senso
augusto e sacro che circonda quel profilo funereo. Nuvolette di un
biancore d'argento le passano sul capo nel cielo chiaro come a
cingerle un'aureola; nel bosco grigio di ulivi e cipressi che mi sta
a fianco, il vento scroscia a tratti con fragore; ai miei piedi nel
clivo precipitoso, irto di aloe e di mirti, ondulano all'aria le
margheritine. Un'altra isoletta è presso la sponda, connessa al lido
da una diga di pietre, tutta candida di casette deserte dai tetti
chiari : Nekierka. Dal bianco campanile veneziano a traforo una
campana suona. Il rombo vibra lungamente nell'aria calma, nel
silenzio immenso delle pause del vento e del mare.
No,
non è l'isola di Ulisse, di Omero, ma non è l'isola dei morti di
Boecklin : troppo sereno è questo mare, troppo dolce : è forse
meglio “l'isola delle tombe“ di Zarathustra, l'isola silenziosa
che accoglie i sepolcri dove dormono le speranze e le illusioni della
giovinezza, uccise dagli strali avvelenati degli uomini. E io pure
debbo attraversare questo mare. Qualche cosa m'attira laggiù, a
cercarvi su quelle rupi e sotto quei cipressi, l'orma di una persona
cara che vi visse la sua più silenziosa ora di poesia. “
Pag.
154, il Partenone :
“ E'
come immobile, grave, immerso in un sogno. Il sole lo ferisce in
fronte : il marmo di un giallo roseo con sgretolature e sfaldature
candide sembra imbeversene. In alto, nel frontone ruinato il gruppo
di Esculapio e di Igea, unico resto dei dispersi marmi di Fidia,
miserabili resti corrosi : sotto, le metòpe, irriconoscibili : tra
le colonne l'azzurro smagliante. Dinanzi al tempio il suolo di
macigno grigio, sgretolato e levigato, è invaso dall'erba;
fiorellini gialli ondulano al vento, tra rocchi di colonne, basi
infrante, triglifi spezzati, iscrizioni greche e bizantine, frammenti
di volute e di fioroni, tra i mille frantumi di cui il suolo è
cosparso.
Mi
avvicino. La pietra è sfaldata e spezzata più dagli uomini che dal
tempo. In alto dietro la trabeazione formidabile si svolge attorno al
muro della cella il fregio superstite delle Panatenee. Discerno gli
efebi sui cavalli che si impennano, i duelli delle metòpe. Le
scolture sono sformate, ingiallite, annerite.
Il
vento fruscia, scroscia, affatica le erbe, aggela le mani. Due operai
estirpano l'erba dalle commessure dello zoccolo : lo stridìo dei
loro coltelli che raschiano la pietra tufacea ferisce il silenzio. I
gradini sono incavati dai passi. Quanti piedi toccarono con fervore
quella soglia, mentre gli occhi si affiggevano alla statua della Dea
imperante nella cella ? Ma la cella è vuota, sventrata, scoperchiata
: traccie di pitture bizantine, rigide figure di santi guardano dalle
pareti : è come una piazzetta lastricata invasa dall'erba. La fronte
ad oriente ridotta ad un semplice intercolunnio si intaglia
nell'azzurro.
L'ombra
occupa già il luogo : sale fino a mezza altezza delle colonne che
nell'alto ancora sono immerse nel sole che le bacia con tenerezza
indicibile. Vi è in quelle colonne e in quell'architrave profilati
nel vuoto un tale senso di energia esatta e contenuta, una armonia
sgorgante da basi geometriche, una rispondenza così perfetta con le
linee della struttura fisica del paese, un così supremo equilibrio,
che la mente ne è esaltata. Le colonne sembrano fulgere e
fiammeggiare come steli d'oro chiaro : tra di esse si disegnano le
linee dolci delle colline di viola sotto il cielo cilestrino
chiarissimo. Penso che gli antichi che videro il tempio intatto,
ammirarono forme di bellezza suprema, ma non quella che a noi soli
appare, dalle rovine disposate, inserte nel paesaggio, ridotte ad
elemento fondamentale, a simbolo di un'arte e di una civiltà intera.
“
Pagg.
161-162 , l'Ilisso : “ Scendevo dalla spianata dello Zappeion
guardando lo Stadio, immensa mole marmorea biancheggiante nel cavo
della collina cespugliosa, quando mi avvenne di attraversare sopra un
modesto ponte di pietra l'alveo di un fiumicello. In nessun altro
paese del mondo l'avrei degnato di uno sguardo, ma nell'Attica un
corso d'acqua è cosa insueta; e un sospetto mi balenò nello spirito
: non è dunque l'Ilisso ?
A
quel nome famoso, che destava nella mia anima mille echi di poesia e
di leggenda, mi arrestai sulla spalletta del ponte, e mi balzarono in
mente quei soavi versi dell'Hoelderlin che il Carducci tradusse con
cantante sonorità di accenti e di rime, forse con lo struggimento
malinconico del poeta proteso in ispirito verso la patria ideale che
cantò e non vide, quei versi che, quasi a suggellare simbolicamente
il suo viaggio mortale, furono gli ultimi che egli corresse nelle
bozze con mano tremante, a matita :
Oh
ti avessi a le fresche ombre dei platani
ove
scorre l'Ilisso in mezzo ai fior,
ove
in sogni di gloria ardeano i giovani,
ove
dolce attrae a Socrate i cuor,
ove
Aspasia incedea bianca fra i mirti …
Mi
guardai da torno. Non v'erano più né platani, né fiori, né mirti.
Né filosofi passeggiavano fra i discepoli lungo le fresche linfe
correnti, godendo della frescura degli alberi, del canto delle cicale
e del vento dolce del mare; né Aspasie incedevano candide lungo le
rive. Vedevo due massicciate oblique a scarpa, dalle quali sporgevano
magri alberelli incassati, e in mezzo, tra un fondo ghiaioso sul
quale sorgevano cespugli di oleandri, un filo d'acqua, un ruscello
dalle acque torbide, ingombre di scatole di latta sventrate e di
rifiuti, insudiciate dagli scoli delle tintorie e dal sapone delle
lavandaie. L'immagine dell'Ilisso, quale stava sul frontone del
Partenone, quel simulacro del dio fluviale, sublime immagine di
forza, che, così mozzo e corroso, pone Fidia come sopra un culmine
non più raggiungibile da alcuno, mi sorse agli occhi, e per un
istante stetti per sorridere dell'antitesi fra quel povero rivolo di
acque sucide e la poetica rinomanza, antitesi che su molte labbra
straniere diviene quasi simbolo di tutta una realtà greca troppo
minore della fama, ma subito pensai : non è forse questa la qualità
cardinale del genio greco ? Di aver saputo esaltare gli elementi
fisici ed etnici di un piccolo paese arido e povero, abitato da un
popolo scarso e frugale, estraendone tipi eterni di bellezza ?
Quell'umile ruscello scorrente fra rive fiorite, all'ombra dei
platani, ispirò a Fidia e a Platone ciò che le cascate del Niagara
non hanno ancora suggerito ad alcun moderno. “
Pag.
200, “ Sulle tombe degli Atridi “, descrizione dell'Acropoli di
Micene corrispondente a quella di Emilio Cecchi :
“ Mi
avanzo : ho innanzi a me il campo delle meravigliose scoperte dello
Schliemann.
Un
vasto spiazzo si apre in forma di terrazza fra il muro ciclopico che
sorregge la parte superiore dell'Acropoli e il fianco precipitoso del
colle. Una doppia cinta di lastroni infissi verticalmente nel suolo
disegna un cerchio di una ventina di metri di diametro. Alcune delle
lastre orizzontali rimangono ancora a posto. E' quanto resta del
sedile circolare che cingeva l'agorà omerica, il luogo dove il re
riuniva a parlamento i capi del popolo.
Nel
centro della cinta rotonda è un gran vuoto : laggiù in fondo
vaneggiano cinque pozzi rettangolari : sono le tombe ricordate da
Pausania, in cui lo Schliemann scavò i diciassette cadaveri e quella
favolosa ricchezza d'oro che sta nel Museo di Atene. “
Pagg.
213-214, “ Nel paese di Apollo “, descrizione di Delfi :
“ E
in quella pace del mattino lucente, in quel languore del sole
d'aprile così dolce su la mia carne febbricitante, su le mie mani
che biancheggiavano con un lampo marmoreo, una musica confusa che mi
ronzava pel capo mi venne sulle labbra : una nenia vaga, ondulante,
infinita, come lo spirito musicale di quella serenità antica. Che
cos'era ? Wagner ? Tristano ? La nenia del pastore ? Ah, no : era
l'inno d'Apollo, l'inno delfico scoperto in quel luogo stesso, inciso
su quelle lastre cui si appoggiava il mio dorso : “ Muse
dell'Elicona dai boschi profondi, figlie di Zeus tonante, vergini
delle belle braccia, venite a blandire Febo dalla chioma d'oro, che
sui fianchi del Parnaso dalla doppia cima, fra le belle Delfiesi,
sale alla pura acqua della fonte Castalia. “
Mi
scossi e camminando fra l'erba fiorita mossi verso la fonte. Il sole
era così candido che i frammenti di marmo avevano tra il verde un
lampo violetto e accecavano. Giunsi al burrone che si apre fra i due
Fedriadi, uno spacco gigantesco di macigni grigi e rossastri stellati
di magri cespugli. Un ruscelletto limpido ne sgorgava gorgogliando.
Sul fianco la rupe era tagliata e incavata a grotta : una gradinata
scavata nel macigno scendeva al serbatoio : nel sasso apparivano
ancora le bocche antiche : nudo scheletro, spoglio della decorazione
che un tempo copriva la fonte.
Due
grandi platani ombreggiavano lo spiazzo. In basso tra le rovine della
cosidetta Marmaria, giovani americani di qualche scuola di
architettura misuravano le basi della tholos, l'elegante edificio
rotondo; tutte le rovine erano fiorite di fioretti viola e gialli che
ondulavano all'aria; un usignuolo cantava negli olivi. Contro le
gigantesche rupi dei Fedriadi a piombo sul capo i corvi roteavano
gracchiando, e nella pace immensa giungeva il ronzio delle api sui
fiori e il ritmico tonfo dei panni sbattuti sullo scanno dalle
lavandaie che sciacquavano in basso nell'acqua del ruscello. La fonte
del canto scaduta all'ufficio di lavacro per i panni sudici. Mi parve
il simbolo dello scadimento di un mondo. E ripresi a capo chino la
via della valle. “