sabato 17 ottobre 2015

Gabriele D'Annunzio, Le Vergini delle Rocce ( 1895 )






Dal Libro I :


Messomi al conspetto della mia propria anima, io ripensai quel
sogno che più volte occorse a Socrate prendendo ciascuna volta
una diversa figura ma persuadendolo sempre al medesimo officio:
- O Socrate, componi e coltiva musica. - Allora appresi che l'officio
dell'uomo nobile sia ben quello di trovare studiosamente nel
corso della sua vita una serie di musiche le quali, pur essendo varie,
sieno rette da un sol motivo dominante ed abbiano l'impronta
d'un solo stile. Onde mi parve che da quell'Antico - eccellentissimo
nell'arte di elevare l'anima umana all'estremo grado del suo
vigore - potesse anche oggi discendere un grande ed efficace insegnamento.
Scrutinando sè medesimo e i suoi prossimi, colui aveva scoperto
i pregi inestimabili che conferisce alla vita una disciplina
assidua e intenta sempre in uno scopo certo. La sua somma saggezza
mi sembra risplendere in questo: ch'egli non collocò il suo
Ideale fuori della sua pratica quotidiana, fuori delle realità necessarie,
ma ne formò il centro vivo della sua sostanza e ne dedusse
le proprie leggi e secondo quelle si svolse ritmicamente negli
anni, esercitando con tranquilla fierezza i diritti che quelle gli
consentivano, separando - egli cittadino d'Atene, e sotto la tirannide
dei Trenta e sotto la tirannide plebea - separando per deliberato
proposito la sua esistenza morale da quella della Città. Egli
volle e seppe conservarsi a sè medesimo fino alla morte. «Io non
obbedisco se non all'Iddio» voleva significare «Io non obbedisco
se non alle leggi di quello stile a cui, per attuare un mio concetto
di ordine e di bellezza, ho assoggettato la mia natura libera.»
Egli con mano ferma, artefice assai più raro di Apelle e di Protogene,
riuscì a descrivere per una linea continua l'imagine integra
di sè medesimo. E la sublime letizia nell'ultima sera non gli
veniva dalla speranza di quell'altra vita ch'egli aveva rappresentata
nel discorso, ma sì bene dalla visione di quella sua propria imagine
che s'integrava con la morte.
Ah perchè non rivive oggi in qualche terra latina il Maestro
che sapeva con un'arte così profonda e così nascosta risvegliare
ed eccitare tutte le energie dell'intelletto e dell'animo in quanti gli
s'accostavano per ascoltarlo?
Una strana malinconia mi occupava, nell'adolescenza, alla lettura
dei Dialoghi, quando volevo raffigurarmi quel cerchio di discepoli
avidi e inquieti intorno a lui. Ammiravo i più belli, ornati
di più nitide eleganze, su i quali i suoi occhi rotondi e sporgenti -
quei suoi occhi nuovi, in cui era una vista propria a lui solo - si
posavano più spesso. Si prolungavano nella mia imaginazione le
avventure dei forestieri venutigli di lontano come quel trace Antistene
che faceva quaranta stadii al giorno per udirlo e come quell'Euclide
che - avendo gli Ateniesi fatto divieto d'entrare in Atene
ai cittadini di Megara e decretato per i trasgressori l'ultima pena -
si vestiva di abiti muliebri, e così vestito e velato esciva dalla sua
città in sul vespro, compiva un lungo cammino per trovarsi presente
ai colloquii del Saggio, quindi all'alba riprendeva la sua via
sotto la stessa larva pieno il petto di un entusiasmo inestinguibile.
E mi commoveva la sorte di quel giovinetto elèo Fedone bellissimo
che, fatto prigioniero di guerra nella sua patria e venduto a un
tenitor di postriboli, dal luogo di vergogna erasene fuggito a Socrate,
e aveva ottenuto per opera di lui il riscatto e partecipato alle
feste del puro pensiero.
Pareva a me veramente che quel gioviale maestro vincesse di
generosità il Nazareno. Forse l'Ebreo, se i suoi nemici non l'avessero
ucciso nel fiore degli anni, avrebbe scosso alfine il peso delle
sue tristezze e ritrovato un sapor nuovo nei frutti maturi della sua
Galilea e indicato al suo stuolo un altro Bene. Il Greco aveva
sempre amata la vita, e l'amava, ed insegnava ad amarla. Profeta e
divinatore quasi infallibile, egli accoglieva tutte le anime in cui il
suo sguardo profondo scoprisse una forza, ed in ciascuna sviluppava
ed esaltava quella forza nativa; cosicchè tutte, investite dalla
sua fiamma, si rivelavano nella lor diversità possenti. Il suo più
alto pregio era in quell'effetto di cui l'accusavano i nemici: che
dalla sua scuola - dove convenivano l'onesto Critone e Platone
uranio e il delirante Apollodoro e quel gentil Teeteto simile a un
rivo d'olio fluente senza strepito - escissero il molle cirenaico Aristippo
e Critia, il più violento dei Trenta Tiranni, e l'altro tiranno
Caricle, e il meraviglioso violator di leggi Alcibiade che non conobbe
limiti alla sua licenza meditata. «Il cuor mi balza assai più
che ai coribanti, quando io odo i discorsi di costui» diceva il figliuolo
di Clinia, leggiadra fiera coronata di edera e di violette,
tessendo il più fulgido elogio con cui siasi mai deificato in terra
un uomo, alla fine di un convito che dalla bocca del Sileno aveva
raccolto la grande iniziazione di Diotima.
Or quali energie avrebbe stimolate in me un tal maestro? Quali
musiche mi avrebbe condotto a trovare?
Primieramente mi avrebbe cattivato l'animo per quella eletta
facoltà ch'egli possedeva di sentire anche il fascino della bellezza
caduca e di distinguere con una qualche misura i piaceri comuni e
di riconoscere il pregio che l'idea della morte conferisce alla grazia
delle cose terrene.
Puro ed austero quant'altri mai nell'atto dello speculare, egli
possedeva tuttavia sensi così squisiti che potevan essere quasi direi
gli artefici eleganti delle sue sensazioni.
Non v'era nei banchetti - secondo Alcibiade ottimo giudice -
alcuno che sapesse goderne com'egli sapeva. Sul principio del
Simposio di Senofonte egli contempla con gli altri in lungo silenzio
la perfetta bellezza di Autolico, quasi riconoscendo una presenza
sovrumana. Con sottil gusto discorre, in séguito, dei profumi
e della danza e del bere non senza ornare il discorso d'imagini
vivide, come un saggio e come un poeta. Gareggiando quivi di
venustà con Critobulo per gioco, esce in queste parole carnali:
«Poichè ho le labbra tumide non credi tu che io abbia anche il bacio
più molle del tuo?» Al Siracusano, che dà quivi spettacoli con
una sua auleda e con una danzatrice mirifica e con un fanciullo
ceteratore, consiglia di non più costringere quei tre giovini corpi a
sforzi crudi e a prodigi perigliosi i quali non dànno piacere, ma di
lasciare che la lor puerile freschezza secondando il suono del
flauto prenda le attitudini proprie delle Grazie, delle Ore e delle
Ninfe nelle insigni pitture. Così al disordine che stupisce egli oppone
l'ordine che diletta, rivelandosi anche una volta cultore di
musica e maestro di stile.
Ma il suo ultimo gesto verso una cosa bella vivente amata e
frale fu ben quel che più a dentro mi commosse nel tempo lontano
e ancor mi commuove; perocchè la mia anima talvolta ami allentare
la sua tensione nelle malinconie voluttuose e nelle appassionate
perplessità che può produrre in una vita ornata di nobili
eleganze il sentimento del continuo trasmutare, del continuo trapassare,
del continuo perire.
Nel dialogo dell'ultima sera non tanto mi conturba quel punto
in cui Critone per incarico di chi deve propinar la cicuta interrom-
pe il discorso del morituro ammonendolo di non riscaldarsi se
vuol che il veleno abbia rapida efficacia e l'impavido ne sorride e
va innanzi nell'indagine; né tanto mi è dolce quella musicale similitudine
dei cigni indovini e del lor canoro giubilo; né tanto mi
stupiscono i momenti estremi in cui l'uomo compie con brevi atti
e con brevi detti la sua perfezione sì lucidamente e, come quell'artefice
il quale abbia dato alla sua opera l'ultimo tocco, contento riguarda
alfine la sua propria imagine - miracolo di stile - che rimarrà
immortale in terra; quanto mi rapisce l'impreveduta pausa
che segue i dubbii opposti da Cebete e da Simmia alla certezza
manifestata dal maestro eloquente.
Profonda pausa fu quella, in cui tutte le anime a un tratto cieche
si profondarono come in un abisso, spentosi a un tratto il raggio
di foco appuntato verso il Mistero da colui che stava per entrarvi.
Indovinò il maestro la tristezza di quell'oscurazione subitanea
ne' suoi fedeli; e le ali della sua idea per poco si ripiegarono. La
realità gli si ripresentò nei sensi e lo ritenne anche per poco nel
campo del finito e del percettibile. Egli sentì il tempo scorrere, la
vita fluire. Forse i suoi orecchi raccolsero qualche romore della
città magnifica, le sue nari aspirarono forse il profumo della nuova
estate sopravveniente, come i suoi occhi si posarono sul bel
Fedone chiomato.
Poichè era seduto sul letto e accanto a lui sopra uno sgabello
basso era Fedone, pose egli la mano sul capo del discepolo e gli
accarezzò e gli premette i capelli sul collo, avendo già consuetudine
di scherzare così con le dita in quella ricca selva giovenile.
Non parlava ancora, tanto la sua commozione doveva essere intensa
e rigata di delizia. Per mezzo di quella cosa bella vivente e
caduca egli comunicava anche una volta con la vita terrena in cui
aveva compiuto la sua perfezione, in cui aveva effettuato il suo
ideale di virtù; e sentiva forse che nulla eravi oltre, che la sua esistenza
finita bastava a sè stessa, che il prolungamento nell'eterno
non era se non una parvenza - simile all'alone di un astro - prodotta
dallo splendore straordinario della sua umanità. Non mai la
capellatura del giovinetto d'Elide aveva avuto per lui un pregio
tanto sublime. Egli ne godeva per l'ultima volta, dovendo morire;
e anche sapeva che al dimane in segno di lutto sarebbe stata recisa.
Disse alfine - e i suoi discepoli non gli avevano mai conosciuto
nella voce un tal suono - disse: «Domani, o Fedone, tu te le taglierai
queste belle chiome.» E il chiomato: «Sembra, o Socrate.»
Questo sentimento - che súbito assunsi ed esaltai in me medesimo
leggendo per la prima volta l'episodio nel dialogo platonico
- mi divenne in séguito per via di analogie tanto complesso, e tanto
l'ebbi familiare, ch'io ne feci il tema aperto o dissimulato delle
musiche alle quali volli attendere.
Così l'Antico m'insegnò la commemorazione della morte in un
modo consentaneo alla mia natura, affinchè io trovassi un pregio
più raro e un significato più grave nelle cose a me prossime. E
m'insegnò a ricercare e discoprire nella mia natura le virtù sincere
come i sinceri difetti per disporre le une e gli altri secondo un disegno
premeditato, per dare a questi con pazienti cure un'apparenza
decorosa, per sollevar quelle verso la perfezione somma. E
m'insegnò ad escludere tutto ciò che fosse difforme alla mia idea
regolatrice, tutto ciò che potesse alterare le linee della mia imagine,
rallentare o interrompere lo sviluppo ritmico del mio pensiero.
E m'insegnò a riconoscere con sicuro intuito quelle anime su cui
esercitare il beneficio e il predominio o da cui ottenere una qualche
straordinaria rivelazione. E anche mi comunicò in fine la sua
fede nel demònico; il quale non era se non la potenza misteriosamente
significativa dello Stile non violabile da alcuno e neppur
da lui medesimo nella sua persona mai.
Pieno di tale ammaestramento e solitario, io mi posi all'opera
con la speranza di riuscire a determinar per un contorno preciso e
forte quella effigie di me alla cui attualità avevan concorso tante
cause remote, operanti da tempo immemorabile a traverso un'infinita
serie di generazioni. La virtù di stirpe, quella che nella patria
di Socrate nomavasi eugenéia, mi si rivelava più gagliardamente
come più fiero diveniva il rigore della mia disciplina; e mi cresceva
l'orgoglio insieme con la contentezza, poichè pensavo che
troppe altre anime sotto la prova di quel fuoco avrebbero rivelato
o prima o poi la loro essenza volgare. Ma talvolta dalle radici
stesse della mia sostanza - là dove dorme l'anima indistruttibile
degli avi - sorgevano all'improvviso getti di energia così veementi
e diritti ch'io pur mi rattristavo riconoscendo la loro inutilità in
un'epoca in cui la vita publica non è se non uno spettacolo miserabile
di bassezza e di disonore. «Certo, è meraviglioso» mi diceva
il demònico «che queste antiche forze barbare si sieno conservate
in te con tanta freschezza. Esse sono ancor belle, se bene importune.
In un altro tempo ti varrebbero a riprendere quell'officio
che si conviene ai tuoi pari; ciò è l'officio di colui che indica una
mèta certa e guida i seguaci a quella. Poichè un tal giorno sembra
lontano, tu cerca per ora, condensandole, di trasformarle in viva
poesia.»

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