domenica 7 agosto 2011

La strega, II

Talvolta ella rimaneva
per ore alla finestra della sua
capanna e lo sguardo vagava
per remote contrade.
Avvenne che in un pomeriggio d’estate,
quando il bosco echeggiava
dello stridìo delle cicale e il vento
carezzava le chiome degli ulivi,
una compagnia di giovani  uomini
della città s’avvicinasse allo stagno,
vicino alla sua casa.
Ella li osservava dalla camera
e il torpore estivo l’avvinceva
e l’ombra delle mura fresche.
Fuori il verde delle siepi
e del prato e del canneto ondeggiante
isolava lo specchio d’acqua
color d’opale, e le libellule
indugiavano immote, mentre
soltanto le loro iridescenti
ali elettriche scintillavano
come i raggi sul velo
liquido. E la quiete della palude
regnava col caldo effluvio
e un lento ansare sollevava
le lunghe foglie delle canne.
E tre giovani uomini
sulla riva deposero i loro
abiti e scesero nell’acqua.
E nuotavano, scherzavano e ridevano,
mentre la luce giocava
con le barbe e i capelli d’oro,
e le membra erano pari
a quelle degli eroi. Come
l’onda all’aurora, quando
dorme ancora il mare,
delicata si effonde sul lido
sabbioso e palpita dei primi
raggi, così la sua
invisibile mano sfiorava
le umide tempie ed errava
sui corpi insieme all’acque
dello stagno e alla brezza tiepida
del pomeriggio. Ed ella rimaneva
per ore alla finestra della capanna,
timorosa della visione degli dei.
E piangeva in silenzio, nella solitudine.

Per quanto tempo aveva
atteso sulla scogliera,
rivolta all’orizzonte ! E aveva
respirato la brezza del mare,
inebriandosi come all’ansimo
d’un amante. E il ritmo delle onde
calme la carpiva, quasi
parole colme di blandizia
fossero per misteriosi incantesimi.
Un mormorio la circondava di remote
promesse ed ella ne provava
meraviglia. Una strana ansia
le sollevava il petto, e le pareva
d’udire la formula d’un giuramento
e il nome d’una potenza terribile.
Ed ella sentiva una profonda
forza salire dalla terra
e sentiva di essere forte.
Sapeva che solo dalla terra
proviene la forza, e biasimava
i momenti nei quali la sua
mente aveva vacillato.
Nei sacri riti le era stata
insegnata la disciplina della vita
ed aveva appreso le virtù
occulte della materia, che negano
gli sciocchi e gli ignoranti. Aveva
visto l’implacabile occhio
della Madre. Nubi minacciose
erano sorte dal mare
e il tuono imponeva il sollevarsi
delle acque. E il pianto di mille
anime risuonava e scuoteva
i grandi alberi della selva
e si udiva un coro di voci
sommesse e soffocate. Aveva
visto il gladio degli dei
abbattersi sul gigantesco avversario,
mentre un corteo di lamenti
procedeva lentamente sulla sabbia.
Aveva udito il gemito
del suo spirito, ed un cappio
invisibile le stringeva la gola.
E nelle pupille si riflettevano le fiamme
di rovine crepitanti e il crollo
di mura altissime e il sangue
di membra straziate giù
per le vie della città. E queste
vie rimbombavano dello scalpito
d’un cavallo nero che si dissetava
ai rivoli purpurei e i suoi occhi
di fuoco davano la morte.
E dalle rupi  delle montagne dalla voce
remota piombava a volo
tra le spire dei venti l’aquila
dalle ali forti come
arco flessuoso, oracolo
del cielo irato. Dalle ondate
marine, dalle criniere di fuoco
sorsero due serpenti
dagli occhi cerulei e avanzarono
sino a lei solcando
i flutti. Ella levò
in alto lo sguardo e le apparve
il padre dei raggi acuti,
colui che tiene i forti
cavalli che spirano vampe
ignee. Ed egli ora
sfolgorava, il dio auriga.
Una voce selvaggia la invase.
Il vento la cinse e ne sparse
i capelli con mano d’amante.
E gli occhi s’illuminarono dell’infinito
sorriso delle acque. Un velo
asperse le dita del piede
leggero. Il suo corpo
irrorato di luce si fortificò
e si protese, le sue gambe
non vacillarono. Le nubi
e le onde e le rocce e i pini
del promontorio riverberarono inni
di gratitudine e di gioia, vive
creature del sole, e si inebriarono
di luce. Respirò l’abisso,
e si volse e si trasse sino
a lei, fervente fluttuare
d’ali, e l’avvinse d’aromi
e di volute spumose quale
veste nuziale, ed ella
divenne la sposa del mare.  


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