Dal libro sesto, “ L’invincibile “ :
Ma nel preludio del Tristano e Isolda l'anelito dell'amore verso la morte
irrompeva con una veemenza inaudita, il desiderio insaziabile si
esaltava in una ebrezza di distruzione.
«...Per bere laggiù in onor tuo la coppa dell'amore eterno, io
voleva consacrarti con me sul medesimo altare alla morte.»
E quell'immenso vortice di armonie li avviluppò entrambi
irresistibilmente, li serrò, li trascinò; li rapì nel «meraviglioso
impero».
Non sul meschino istrumento che non poteva rendere neppure
una fievole eco della pienezza torrenziale, ma nell'eloquenza, ma
nell'entusiasmo dell'esegeta comprendeva Ippolita tutta la
grandiosità di quella Rivelazione tragica. E, come un giorno la
deserta città guelfa dei conventi e dei monasteri, così ora alle
parole dell'amante le appariva nella fantasia la vecchia città grigia
di Bayreuth solinga al conspetto delle montagne bàvare in un
paesaggio mistico ov'era diffusa la stessa anima che Albrecht
Dürer imprigionò in intrichi di segni al fondo delle sue stampe e
delle sue tele.
Giorgio non aveva dimenticato alcun episodio di quel suo
primo pellegrinaggio religioso verso il Teatro Ideale; poteva
rivivere tutti gli attimi della straordinaria emozione nell'ora in cui
aveva scorto su la dolce collina, all'estremità del gran viale
arborato, l'edificio sacro alla festa suprema dell'Arte; poteva
ricomporre la solennità del vasto anfiteatro cinto di colonne e
d'archi, il mistero del Golfo Mistico. - Nell'ombra e nel silenzio
dello spazio raccolto, nell'ombra e nel silenzio estatico di tutte le
anime, su dall'orchestra invisibile un sospiro saliva, un gemito
spirava, una voce sommessa diceva il primo dolente richiamo del
desiderio in solitudine, la prima confusa angoscia nel
presentimento del supplizio futuro. E quel sospiro e quel gemito e
quella voce dall'indefinita sofferenza all'acuità di un impetuoso
grido si elevavano dicendo l'orgoglio d'un sogno, l'ansia di
un'aspirazione sovrumana, la volontà terribile e implacabile di
possedere. Con una divorante furia, come un incendio
all'improvviso erotto da un abisso ignorato, il desiderio si
dilatava, s'agitava, fiammeggiava sempre più alto, sempre più
alto, alimentato dalla più pura essenza di una duplice vita. Tutte
le cose abbracciava l'ebrezza della fiamma canora; tutte le cose
del mondo sovrane vibravano perdutamente nell'immensa ebrezza
ed esalavano la loro gioia e il loro dolore più occulti
sublimandosi, consumandosi. Ma, ecco, gli sforzi d'una
resistenza, ma le collere d'una lotta fremevano, stridevano
nell'impeto di quell'ascensione turbinosa; ma contro un invisibile
ostacolo quel gran getto vitale si frangeva d'improvviso, ricadeva,
s'estingueva, non risorgeva più. Nell'ombra e nel silenzio dello
spazio raccolto, nell'ombra e nel silenzio trepido di tutte le anime,
su dal Golfo Mistico un sospiro saliva, un gemito moriva, una
voce estenuata diceva la tristezza dell'eterna solitudine,
l'aspirazione verso l'eterna notte, verso il divino originario oblìo.
Ed ecco, un'altra voce, di realtà umana, modulata da labbra
umane, giovine e forte, mista di malinconia e d'ironia e di
minaccia, cantava una canzone del mare, dall'alto dell'albero, sul
naviglio recante a Re Marco la bionda sposa irlandese. Cantava:
«Verso occidente erra lo sguardo, verso oriente fila il naviglio.
Fresco soffia il vento verso la terra natale. O figlia d'Irlanda, ove
t'induci tu? Gonfiano la mia vela i tuoi sospiri? Soffia, soffia, o
vento! Sventura, ah sventura, fanciulla d'Irlanda, amor
selvaggio!» Era l'ammonimento, era l'annunzio profetico della
vedetta, allegro e minaccioso, carezzevole e beffardo,
indefinibile. E l'orchestra taceva. «Soffia, soffia, o vento!
Sventura, ah sventura, fanciulla d'Irlanda, amor selvaggio!» La
voce cantava sola sul mare tranquillo, nel silenzio; mentre sotto la
tenda Isolda, immobile sul suo letto, pareva profondata nel sogno
oscuro del suo destino.
S'apriva così il Dramma. Il tragico soffio, che già aveva
agitato il preludio, passava e ripassava nell'orchestra.
Subitamente la potenza di distruzione sì manifestava nella donna
maga contro l'uomo da lei eletto, da lei votato alla morte. La sua
collera irrompeva con l'energia dei ciechi elementi, invocava tutte
le forze terribili della terra e del cielo a distruggere l'uomo ch'ella
non poteva possedere. «Svégliati al mio appello, potenza
intrepida, lèvati su dal cuore ove ti sei celata! O vènti incerti,
ascoltate la mia volontà! Scotete dal letargo questo sognante
mare, risuscitate dal suo fondo la cupidigia implacabile,
mostrategli la preda che io gli offro! Infrangete la nave,
inghiottite i rottami! A voi, o vènti, tutto che qui palpita e respira
io do in premio.» All'ammonimento della vedetta rispondeva il
presentimento di Brangæne. «Ah sventura! Quale ruina io
presento, o Isolda!» E la dolce e devota donna si affannava a
placare quel folle furore. «Oh dimmi la tua tristezza, dimmi il tuo
segreto, Isolda!» E Isolda: «Il mio cuore soffoca. Apri, apri la
cortina tutta quanta!»
Tristano appariva, in piedi, immobile, con le braccia conserte,
con lo sguardo fisso nelle lontananze del mare. Dall'alto
dell'albero la vedetta riprendeva la sua canzone, su l'onda saliente
dell'orchestra. «Sventura, ah sventura!...» E, mentre gli occhi
d'Isolda accesi d'una cupa fiamma contemplavano l'eroe, sorgeva
dal Golfo Mistico il motivo fatale, il grande e terribile simbolo di
amore e di morte, in cui era chiusa tutta l'essenza della tragica
finzione. E Isolda con la sua bocca medesima proferiva la
condanna: «Da me eletto, da me perduto».
La passione metteva in lei una volontà omicida, le svegliava
nelle radici dell'essere un istinto ostile all'essere, un bisogno di
dissolvimento, d'annientamento. Ella s'esasperava cercando in sé,
intorno a sé una potenza fulminea che colpisse e distruggesse
senza lasciar vestigio. Il suo odio si faceva più atroce al conspetto
dell'eroe calmo ed immobile che sentiva sul suo capo addensarsi
la minaccia e sapeva l'inutilità d'ogni difesa. La sua bocca
s'empiva di sarcasmo amaro. «Che pensi tu di quel servo?» ella
chiedeva a Brangæne, con un sorriso inquieto. Ella faceva servo
un eroe, si dichiarava dominatrice. «Digli che io comando al mio
vassallo di temere la sua sovrana: me, Isolda.» Ella gli inviava
così la disfida a una suprema lotta; ella gittava così l'appello della
forza alla forza. Una cupa solennità accompagnava il passo
dell'eroe verso la soglia della tenda, quando era scoccata l'ora
irrevocabile, quando il filtro aveva già riempita la coppa e il
destino aveva già stretto il suo cerchio intorno alle due vite.
Isolda, appoggiata al suo letto, pallida come se la gran febbre
avesse consumato tutto il sangue delle sue vene, attendeva in
silenzio; in silenzio appariva su la soglia Tristano: entrambi alti di
tutta la loro altezza. Ma l'orchestra diceva l'indicibile ansietà dei
loro cuori.
Da quel momento ricominciava la turbinosa ascensione.
Pareva che di nuovo il Golfo Mistico s'infiammasse come una
fornace e lanciasse in alto, sempre più in alto le sue fiamme
sonore. «Conforto unico a un lutto eterno, salutare bevanda
d'oblìo, senza tema io ti bevo!» E Tristano accostava la coppa alle
labbra. «A me la metà! Per te io la bevo!» gridava Isolda
strappandogli la coppa dalle mani. Vuota la coppa d'oro cadeva. -
Avevano essi entrambi bevuta la morte? Dovevano essi morire? -
Attimo di sovrumana agonia. Il filtro di morte non era se non un
veleno d'amore che li penetrava d'un fuoco immortale. Entrambi
da prima attoniti, immobili, si guardavano cercando ne' loro occhi
l'indizio della fine a cui credevano d'essere omai sacri. Ma una
vita nuova, incomparabilmente più intensa di quella che avevano
vissuta, agitava tutte le loro fibre, palpitava nelle loro tempie e
nei loro polsi, gonfiava d'un'immensa onda i loro cuori.
«Tristano!» «Isolda!» Si chiamavano a vicenda; erano soli; nulla
rimaneva intorno; tutte le apparenze erano scomparse; il passato
era abolito; il futuro non era se non una tenebra che non potevano
rompere neppure i baleni della repentina ebrezza. Essi vivevano;
si chiamavano con una vivente voce; tendevano l'un verso l'altra
per una fatalità che nessuna forza omai poteva arrestare.
«Tristano!» «Isolda!»
E la melodia di passione si dispiegava, si allargava, si esaltava,
palpitava e singhiozzava, gridava e cantava, su la profonda
tempesta delle armonie sempre più agitate. Dolorosa e gaudiosa
volava irresistibilmente verso i culmini delle estasi sconosciute,
verso le cime della suprema voluttà. «Liberato dal mondo, io ti
posseggo dunque, o tu che sola riempi l'anima mia, suprema
voluttà d'amore!»
«Salute! Salute a Marco! Salute!» gridava la ciurma, tra gli
squilli delle trombe, salutando il Re che moveva dalla riva ad
incontrare la sposa bionda. «Salute a Cornovaglia!»
Era lo strepito della vita comune, era il clamore della gioia
profana, era lo splendore abbagliante del giorno. Chiedeva
l'Eletto, chiedeva il Perduto levando lo sguardo ove cupa
fluttuava la nube del sogno: «Chi s'appressa?» «Il Re.» «Qual
Re?» Chiedeva Isolda, pallida e convulsa sotto il manto regale:
«Dove sono? Vivo io ancóra? Debbo io ancóra vivere?» Dolce e
terribile il motivo del filtro saliva, li avvolgeva, li serrava nella
sua spira ardente. Le trombe squillavano. «Salute a Marco! Salute
a Cornovaglia! Gloria al Re!»
Ma nel secondo preludio tutti i singhiozzi di una gioia troppo
forte, tutti gli aneliti del desiderio esasperato, tutti i sussulti
dell'aspettazione furiosa si alternavano, si mescevano, si
confondevano. L'impazienza dell'anima feminile comunicava i
suoi fremiti a tutta la notte, a tutte le cose nella pura notte d'estate
respiranti, vigilanti. A tutte le cose l'anima ebra gittava i suoi
richiami perché rimanessero deste sotto le stelle, perché
assistessero alla festa del suo amore, al nuzial convito della sua
allegrezza. Insommergibile, fluttuava su l'inquieto oceano
armonico la melodia fatale, rischiarandosi, oscurandosi. L'onda
del Golfo Mistico, simile al respiro d'un petto sovrumano, si
gonfiava, si levava, ricadeva per risollevarsi, per ricadere ancóra,
per diminuir pianamente.
«Odi tu? A me sembra che lo strepito sia già dileguato nella
lontananza.» Isolda non udiva se non i suoni che le fingeva il suo
desiderio. Le fanfare della caccia notturna echeggiavano per la
foresta, distinte, da presso. «È l'ingannevole susurro delle frondi
che il vento agita ne' suoi giochi... Non è dei corni questo suono
così dolce. È il murmure della fonte che pullula, che scorre, nella
notte silenziosa...» Ella non udiva se non i lusinghevoli suoni che
suscitava nella sua anima il desiderio componendo l'antica e
sempre nuova malìa. Come nei sensi dell'illusa, così
nell'orchestra le sonorità della caccia si trasformavano, si
mutavano per incantesimo, si dissolvevano negli infiniti rumori
della foresta, nella misteriosa eloquenza della notte d'estate. Tutte
le sommesse voci, tutte le tenui lusinghe avvolgevano l'anelante,
le suggerivano la prossima ebrezza; mentre invano Brangæne
ammoniva, supplicava, nel terrore del suo presentimento. «Oh
lascia che risplenda la fiaccola protettrice! lascia che la sua luce ti
mostri il pericolo!» Nulla valeva a rischiarare la cecità del
desiderio. «Fosse anche la fiaccola della mia vita, senza paura io
la spegnerei! Senza paura io la spengo.» Con un gesto di supremo
disdegno, superba e intrepida, Isolda gittava a terra la fiaccola;
offriva la sua vita e quella dell'Eletto alla notte fatale; entrava con
lui nell'ombra per sempre.
Allora il più inebriante poema della passione umana si
svolgeva trionfalmente come in una spira attingendo le sommità
dello spasimo e dell'estasi. Era la prima stretta frenetica, mista di
gaudio e d'angoscia, in cui le anime avide di confondersi
incontravano l'ostacolo impenetrabile dei corpi. Era il primo
rammarico verso il tempo in cui non esisteva l'amore, verso il
passato vacuo ed inutile. Era l'odio verso la luce ostile, verso il
perfido giorno che acuiva ogni pena, che suscitava tutte le fallaci
apparenze, che favoriva l'orgoglio ed opprimeva la tenerezza. Era
l'inno alla notte amica, all'ombra benefica, al divino mistero ove
s'aprivano le meraviglie delle visioni interiori, ove s'udivano le
lontane voci dei mondi, ove fiorivano ideali corolle su steli
inflessibili. «Da che il sole s'è occultato nel nostro petto, le stelle
della felicità diffondono il loro lume ridente.»
E nell'orchestra parlavano tutte le eloquenze, cantavano tutte le
gioie, piangevano tutti i dolori che mai voce umana espresse. Su
da le profondità sinfoniche le melodie emergevano, si
svolgevano, s'interrompevano, si sovrapponevano, si mescevano,
si stempravano, si dileguavano, sparivano per riemergere. Una
specie di ansia sempre più irrequieta e tormentosa passava per
tutti gli strumenti, significando un continuo e sempre vano sforzo
di raggiungere l'inarrivabile. Nell'impeto delle progressioni
cromatiche era il folle inseguimento d'un bene che sfuggiva ad
ogni presa pur da vicino balenando. Nelle mutazioni di tono, di
ritmo, di misura, nelle successioni di sincopi era una ricerca senza
tregua, era una bramosia senza limiti, era il lungo supplizio del
desiderio sempre deluso e mai estinto. Un motivo, simbolo
dell'eterno desiderio eternamente esasperato dal possesso fallace,
tornava ad ogni tratto con una persistenza crudele; si allargava,
dominava, ora illuminando le sommità delle onde armoniche, ora
oscurandole d'un'ombra tragica.
La tremenda virtù del filtro operava su l'anima e su la carne
dei due amanti già consacrati alla morte. Nulla poteva spegnere o
lenire quell'ardore fatale: nulla fuor che la morte. Entrambi
avevano tentato invano tutte le carezze, avevano raccolto invano
tutte le loro forze per congiungersi in un abbraccio supremo, per
possedersi ultimamente, per divenire un solo unico essere. I loro
sospiri di voluttà si mutavano in singhiozzi d'angoscia. Un
ostacolo infrangibile s'interponeva tra l'uno e l'altra, li separava, li
rendeva estranei e solitarii. Nella loro sostanza corporea, nella
loro persona vivente, era l'ostacolo. E un odio segreto nasceva in
entrambi: un bisogno di distruggersi, di annientarsi; un bisogno di
far morire e di morire. Nella carezza medesima essi
riconoscevano l'impossibilità di trascendere il limite materiale de'
loro sensi umani. Le labbra incontravano le labbra e
s'arrestavano. «Che mai» diceva Tristano «che mai
soccomberebbe alla morte se non quel che ci separa, se non quel
che impedisce a Tristano d'amar per sempre Isolda, di vivere in
eterno per lei sola?» Ed essi entravano già nell'ombra infinita. Il
mondo delle apparenze scompariva. «Così» diceva Tristano «così
noi morimmo, non volendo vivere se non per l'amore, inseparati,
sempre congiunti, senza fine, senza risveglio, senza tema, senza
nome nel seno dell'amore...» Le parole si udivano distinte sul
pianissimo dell'orchestra. Una nuova estasi rapiva i due amanti e
li sollevava alla soglia del meraviglioso impero notturno. Essi
pregustavano già la beatitudine del dissolvimento, si sentivano
già liberati dal peso della persona, sentivano già la loro sostanza
sublimarsi e fluttuare diffusa in una gioia senza fine. «Senza fine,
senza risveglio, senza tema, senza nome...»
«Vigilate! Vigilate! Ecco, la notte cede al giorno» ammoniva
Brangæne invisibile, dall'alto. «Vigilate!» E il brivido del gelo
mattutino attraversava il parco, risvegliava i fiori. Il freddo lume
dell'alba lentamente saliva a coprire le stelle che palpitavano più
forte. «Vigilate!»
Invano la fedele ammoniva. Essi non ascoltavano; non
volevano, non potevano risvegliarsi. Sotto la minaccia del giorno,
si profondavano sempre più in quell'ombra ove non poteva
giungere mai bagliore di crepuscolo. «Che in eterno la notte ci
avvolga!» E un turbine di armonie li avvolgeva, li serrava nelle
sue spire veementi, li trasportava nella remota plaga invocata dal
loro desiderio, là dove nessuna angoscia opprimeva l'impeto
dell'anima amante, oltre ogni languore, oltre ogni dolore, oltre
ogni solitudine, nell'infinita serenità del loro sogno supremo.
«Sàlvati, Tristano!» Era il grido di Kurwenal, che seguiva il
grido di Brangæne. Era l'assalto improvviso e brutale che
interrompeva l'amplesso estatico. E mentre nell'orchestra
persisteva il tema dell'amore, il motivo della caccia scoppiava con
un fragore metallico. Il Re e i cortigiani apparivano. Tristano
celava col suo ampio mantello Isolda reclinata sul letto dei fiori:
la sottraeva agli sguardi e alla luce, affermando in quel gesto il
suo dominio, significando il suo diritto non dubbio. «Il triste
giorno, per l'ultima volta!» Egli accettava per l'ultima volta,
nell'attitudine calma e ferma dell'eroe, il contrasto con le forze
estranee: omai sicuro che nulla poteva mutare o arrestare il corso
del suo fato. Mentre il sovrano dolore di Re Marco si esalava in
una melopea lenta e profonda, egli taceva immoto nel suo
pensiero segreto. E infine egli rispondeva alle domande del Re:
«Questo mistero io non posso a te svelarlo. Tu non potrai
giammai conoscere quel che tu chiedi.» Il motivo del filtro
addensava su la risposta l'oscurità del mistero, la gravità
dell'evento irreparabile. «Vuoi tu seguire Tristano, o Isolda?» egli
chiedeva alla regina, semplicemente, al conspetto di tutti. «Sulla
terra ove andare io voglio, non risplende il sole. È la terra della
tènebra, è il paese notturno, d'onde mia madre un tempo m'inviò
quando, concepito da lei nella morte, io venni nella morte alla
luce...» E Isolda: «Là dove è la patria di Tristano, là andar vuole
Isolda. Ella vuol seguirlo, dolce e fedele, pel cammino ch'egli le
mostrerà...»
E in quella terra la precedeva l'eroe moribondo, ferito dal
traditore Melot.
Levavasi intanto dal terzo preludio la visione del lido remoto,
delle rocce aride e desolate ne' cui seni occulti il mare piangeva
senza tregua come un inconsolabile duolo. Un vapore di leggenda
e di poesia misteriosa avviluppava le forme rigide del sasso, che
apparivano come in un'alba incerta o in un vespero quasi estinto.
E il suono della sampogna pastorale risvegliava le imagini
confuse della vita trascorsa, delle cose perdute nella notte dei
tempi.
«Che dice l'antico lamento?» sospirava Tristano. «Dove son
io?»
Il pastore modulava nella fragile canna la melodia imperitura,
trasmessagli dai padri a traverso i tempi; ed era senza
inquietudine nella sua profonda inconsapevolezza.
E Tristano, alla cui anima quegli umili suoni avevano tutto
rivelato: «Non son rimasto dove mi son desto. Ma dove ho io
fatto dimora? Non so dirtelo. Là non ho veduto il sole, né il
paese, né gli abitanti; ma quel che ho veduto, io non so dirtelo...
Era là dove fui sempre, dove andrò per sempre: nel vasto impero
dell'universal notte. Una sola unica scienza laggiù ci è data: il
divino, l'eterno, l'originario oblìo!» Il delirio della febbre
l'agitava; l'ardore del filtro lo corrodeva nell'intime fibre. «Ah,
quel ch'io soffro tu non puoi soffrire! Questo terribile desiderio
che mi divora, questo implacabile fuoco che mi consuma... Ah, se
io potessi dirtelo, se tu potessi comprendermi!»
E il pastore inconsapevole soffiava, soffiava nella sua canna.
L'aria era quella, le note erano sempre le stesse: parlavano della
vita che non era più, parlavano delle lontane cose perdute.
«Vecchia e grave melodia» diceva Tristano, «con i tuoi
lamentevoli suoni su i vènti della sera tu giungevi inquieta sino a
me quando nel tempo remoto fu annunziata al fanciullo la morte
del padre. Nell'alba cinerea, sempre più inquieta tu mi cercavi
quando il figlio apprese la sorte della madre. Quando mio padre
mi generò e morì, quando mia madre mi diede alla luce spirando,
la vecchia melodia pur giungeva ai loro orecchi languida e triste.
M'interrogò essa un giorno ed ecco m'interroga ancóra. Per qual
destino io nacqui? Per qual destino? La vecchia melodia me lo
ripete ancóra: - Per desiderare e morire! Per morire di desiderio! -
Ah, no, no! Non questo è il tuo senso... Desiderare, desiderare,
desiderare, fin nella morte; non di desiderio morire!...» Sempre
più possente, sempre più tenace lo corrodeva il filtro nelle
midolle. Tutto il suo essere si torceva nello spasimo insostenibile.
L'orchestra crepitava a tratti come un rogo. Talvolta la violenza
del dolore l'attraversava tutta con l'impeto d'una bufera,
avvivando le fiamme. Sussulti subitanei la scotevano; grida atroci
n'erompevano; singhiozzi soffocati vi si spegnevano. «Il filtro! Il
filtro! Il terribile filtro! Con qual furia io lo sentii dal cuore al
cervello salire! Nessun rimedio ora, nessuna dolce morte può
liberarmi dalla tortura del desiderio. In nessun luogo, in nessun
luogo, ahimè! troverò riposo. La notte mi respinge al giorno; e
l'occhio del sole si pasce del mio perpetuo soffrire. Ah come il
sole rovente mi brucia e mi consuma! E non il refrigerio
d'un'ombra, mai, a questa divorante arsura! Quale balsamo
potrebbe dare un sollievo all'orrendo mio strazio?» Egli portava
nelle sue vene e nelle sue midolle il desiderio di tutti gli uomini,
di tutta la specie, ammassato di generazione in generazione,
aggravato dalle colpe di tutti i padri e di tutti i figli, dalle ebrezze
di tutti, dalle angosce di tutti. Rifiorivano nel suo sangue i germi
della concupiscenza secolare, si rimescolavano le più diverse
impurità, ribollivano i più sottili e i più violenti veleni che fin nel
tempo immemorabile purpuree bocche sinuose di femmine
avevano infuso nei cùpidi maschi soggiogati. Egli era l'erede
dell'eterno male. «Questo terribile filtro, che mi danna al
supplizio, io, io medesimo lo composi! Con le agitazioni di mio
padre, con gli spasimi di mia madre, con tutte le lagrime d'amore
in altri tempi versate, col riso e col pianto, con le voluttà e con le
ferite, io, io medesimo composi il tossico di questo filtro. E io lo
bevvi, a lunghi sorsi di delizia... Maledetto sii tu, filtro terribile!
Maledetto sia chi ti compose!» Ed egli ricadeva sul suo giaciglio,
estenuato, esanime, per riprendere ancóra gli spiriti, per sentire
ancóra ardere la sua piaga, per vedere ancóra con i suoi occhi
allucinati l'imagine sovrana in atto di trascorrere i campi del
mare. «Ella viene, ella viene su alti flutti d'inebrianti fiori
mollemente cullata, verso la terra. Una divina consolazione ella
su me versa col suo sorriso; il supremo refrigerio ella mi reca...»
Così egli evocava, così egli vedeva, con quegli occhi omai chiusi
alla comune luce, la Maga, la maestra dei balsami, la medicatrice
d'ogni ferita. «Ella viene, ella viene! Non la vedi tu, Kurwenal,
non la vedi tu ancóra?» E le onde commosse del Golfo Mistico
risollevavano dal fondo confusamente tutte le melodie già note, le
rimescolavano, le trascinavano, le sommergevano in un gorgo, le
respingevano di nuovo alla superficie, le infrangevano: quelle che
avevano espresso le ansietà del decisivo conflitto sul ponte della
nave; quelle in cui erasi udito il gorgoglio del beveraggio versato
nella coppa d'oro e il rombo delle arterie invase dal liquido fuoco;
quelle in cui erasi udito il misterioso respiro della notte d'estate
persuadente a voluttà senza fine; tutte le melodie con tutte le
imagini, con tutte le ricordanze. E su quell'immenso naufragio
alta, sovrana, implacabile la melodia fatale passava a intervalli
ripetendo la condanna atroce: - Desiderare, desiderare, desiderare
fin nella morte; non di desiderio morire!
«Il naviglio getta l'àncora! Isolda, ecco Isolda! Ella si slancia
alla riva!» gridava Kurwenal dall'alto della torre. E nel delirio
della gioia Tristano lacerava le bende della sua ferita, incitava il
suo proprio sangue a scorrere in fiotti, a inondare la terra, a
invermigliare il mondo. All'approssimarsi d'Isolda e della Morte,
egli credeva udire la luce. «Non odo io la luce? Non odono i miei
orecchi la luce?» Un gran sole interiore lo abbagliava; da tutti gli
atomi della sua sostanza partivano raggi di sole e per onde
luminose e armoniose si diffondevano nell'universo. La luce era
musica; la musica era luce.
E veramente allora il Golfo Mistico s'irradiava come un cielo.
Le sonorità dell'orchestra parevano imitare quelle lontane
armonie planetarie che un tempo anime di contemplatori vigilanti
credettero cogliere nel silenzio notturno. A poco a poco i lunghi
fremiti dell'inquietudine, i lunghi sussulti dell'angoscia, e gli
aneliti del vano inseguire, e gli sforzi del desiderio sempre
deluso, e tutte le agitazioni della miseria terrena si placavano, si
disperdevano. Tristano aveva alfine varcato il limite del
«meraviglioso impero», era entrato alfine nell'eterna notte. E
Isolda, prona su la spoglia inerte, sentiva alfine lentamente
dissolversi il peso che ancor l'opprimeva. La melodia fatale,
divenuta più chiara e più solenne, consacrava il gran coniugio
funerario. Poi, come fili eterei le note attenuandosi tessevano
intorno all'amante creatura diafani veli di purità. Cominciava così
una specie di assunzione gaudiosa per gradi di splendore su l'ala
di un inno. «Di che soave sorriso egli sorride! Non lo vedete?
Come di sideral luce risplende! Non lo vedete voi? Non lo
sentite? Sola io dunque odo questa nuova melodia, infinitamente
dolce e consolante, che sgorga dal profondo dell'esser suo e mi
rapisce e mi penetra e mi avvolge?» La Maga d'Irlanda, la
formidabile signora dei filtri, l'arbitra ereditaria delle oscure
potenze terrestri, colei che dall'alto del naviglio aveva invocato i
turbini e le procelle, colei che aveva eletto al suo amore il più
forte e il più nobile degli eroi per attossicarlo e perderlo, colei che
aveva precluso il cammino della gloria e della vittoria a un
«dominatore del mondo», l'avvelenatrice, l'omicida, si
trasfigurava per la virtù della morte in un essere di luce e di gioia,
scevro d'ogni impura brama, libero d'ogni basso vincolo,
palpitante e respirante in grembo alla diffusa anima dell'Universo.
«Questi più chiari suoni che mormorano al mio orecchio son
forse le molli onde dell'aria? Debbo io respirare, bevere,
immergermi, naufragare dolcemente nei vapori, nei profumi?»
Tutto si dissolveva in lei, si fondeva, si distendeva, ritornava alla
fluidità originale, all'innumerevole oceano elementare da cui le
forme nascevano, in cui le forme sparivano per rinnovellarsi, per
rinascere. Nel Golfo Mistico le trasformazioni e le trasfigurazioni
si compivano di nota in nota, d'armonia in armonia,
continuamente. Pareva che tutte le cose vi si decomponessero, vi
esalassero le nascoste essenze, vi si mutassero in immateriali
simboli. Colori non mai apparsi nei petali dei più delicati fiori
terrestri, profumi di quasi impercettibile tenuità vi fluttuavano.
Visioni di segreti paradisi vi balenavano, germi di nascituri
mondi vi si schiudevano. E l'ebrezza pànica saliva saliva; il coro
del Gran Tutto copriva l'unica voce umana. Trasfigurata, Isolda
entrava nel meraviglioso impero trionfalmente. «Nell'infinito
palpito dell'anima universa perdersi, profondarsi, vanire, senza
conscienza: suprema voluttà!»
http://youtu.be/bex_S61AI-8