domenica 19 agosto 2012

Albii Tibulli liber III elegiarum





III

Quid prodest caelum uotis implesse, Neaera,
    blandaque cum multa tura dedisse prece,
non ut marmorei prodirem e limine tecti,
    insignis clara conspicuusque domo,
aut ut multa mei renouarent iugera tauri               5
    et magnas messes terra benigna daret,
sed tecum ut longae sociarem gaudia uitae
    inque tuo caderet nostra senecta sinu,
tum cum permenso defunctus tempore lucis
    nudus Lethaea cogerer ire rate?               10
Nam graue quid prodest pondus mihi diuitis auri,
    aruaque si findant pinguia mille boues?
Quidue domus prodest Phrygiis innixa columnis,
    Taenare siue tuis, siue Caryste tuis,
et nemora in domibus sacros imitantia lucos               15
    aurataeque trabes marmoreumque solum?
Quidue in Erythraeo legitur quae litore concha
    tinctaque Sidonio murice lana iuuat,
et quae praeterea populus miratur? In illis
    inuidia est: falso plurima uulgus amat.               
20
Non opibus mentes hominum curaeque leuantur
    nec Fortuna sua tempora lege regit.
Sit mihi paupertas tecum iucunda, Neaera:
    at sine te regum munera nulla uolo.
O niueam quae te poterit mihi reddere lucem!               25
    O mihi felicem terque quaterque diem!
At si, pro dulci reditu quaecumque uouentur,
    audiat auersa non meus aure deus,
nec me regna iuuant nec Lydius aurifer amnis
    nec quas terrarum sustinet orbis opes.               30
Haec alii cupiant; liceat mihi paupere cultu
    securo cara coniuge posse frui.
Adsis et timidis faueas, Saturnia, uotis,
    et faueas concha, Cypria, uecta tua.
Aut si fata negant reditum tristesque sorores,               35
    stamina quae ducunt quaeque futura neunt,
me uocet in uastos amnes nigramque paludem
    diues in ignaua luridus Orcus aqua.

III 3, Lígdamo, Voti d'amore

Che giova aver riempito il cielo di voti, Neèra,
e averlo blandito d'incenso con tante preghiere?
non per uscirmene da un palazzo di marmo,
famoso e ammirato per la splendida casa,
non perché i miei buoi arassero molti iugeri di terra
e questa, generosa, mi fruttasse grandi messi,
ma per dividere con te le gioie d'una lunga vita
e spegnere la mia vecchiaia sul tuo seno,
quando in morte, percorso il tempo della luce,
fossi costretto a salpare ignudo sulla barca del Lete.
Che mai mi serve il fardello d'una montagna d'oro
o che mille buoi lavorino i miei campi fecondi?
che mi serve un palazzo sorretto da colonne di Frigia
o dalle tue, Tènaro, dalle tue, Caristo?
e un giardino in casa che riproduca i boschi consacrati
e travi dorate, pavimenti di marmo?
E che mi giova la perla raccolta sul lido eritreo,
la lana tinta con porpora di Sidone
e tutto quanto in piú la gente ammira? L'odio
vi è dentro: un'infinità di cose si amano a torto.
I tormenti del cuore umano non s'alleviano con gli agi,
perché la sorte con la sua legge regge gli eventi.
La povertà mi sarebbe dolce con te, Neèra;
ma senza di te nemmeno dai re voglio favori.
O luce abbagliante che a me potrà restituirti!
o mille volte felice sarà per me quel giorno!
Ma se il dio, che ostile mi volta le orecchie, ascoltasse
anche uno solo dei miei voti per il tuo dolce ritorno,
non mi gioverebbero regni, il fiume aurifero di Lidia,
tutte le magnificenze racchiuse in questo mondo.
Altri le brami: a me sia concesso, in una vita modesta,
di poter godere, senza affanni, della sposa che amo.
Esaudisci i miei trepidi voti, Saturnia, qui al mio fianco
e anche tu, nella tua conchiglia, esaudiscili, dea di Cipro.
Ma se il fato e le tristi sorelle, che tendono l'ordito
e filano il futuro, mi negano il tuo ritorno,
il livido Orco, signore della morta gora,
mi chiami ai suoi fiumi desolati, alla sua nera palude.

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