sabato 1 settembre 2012

Euripide, Elena





Tragedia rappresentata nel 412 a. C.

Argomento : Erodoto racconta che Elena andò in Egitto e che questo è testimoniato anche da Omero, il quale dice che Elena diede a Telemaco un farmaco che faceva dimenticare gli affanni, farmaco datole da Polydamna, moglie di Taone; in questo però non è d’accordo Euripide. Infatti Erodoto e Omero raccontano che Elena, assieme a Menelao, dopo la presa di Troia andò in Egitto e qui ebbe i farmaci; Euripide invece dice che Elena non andò affatto a Troia, ma vi andò una sua immagine. Ermes per ordine di Era la rapì a Paride e la affidò in custodia a Proteo, re dell’Egitto. Dopo la morte di Proteo, il figlio di lui Teoclimeno voleva sposarla, ma ella si rifugiò come supplice presso la tomba di Proteo. Qui le appare Menelao, che aveva perduto in mare le sue navi e conservato solo pochi compagni, lasciati in un antro. Venuti a parlare, tramano un inganno contro Teoclimeno : imbarcatisi con il pretesto di rendere onore a Menelao, simulando la sua morte in mare, ritornano in patria.
Stesicoro nelle Palinodie ( al fr. 193 ) : secondo il commentario papiraceo, cui appartiene il frammento contenente la notizia riportata dal peripatetico Cameleonte, Stesicoro compose due Palinodie : nella I avrebbe criticato la versione omerica della storia ( Elena andò a Troia con Paride ), nella seconda avrebbe polemizzato con Esiodo.
Possiamo ipotizzare che a Esiodo fosse fatta risalire la versione secondo la quale Elena, giunta in Egitto con Paride, fu sottratta al Troiano da Proteo e al posto suo andò a Troia un simulacro.
Se così fosse, Stesicoro potrebbe avere composto una prima palinodia di tipo esiodeo, e poi un’altra ancora, più radicale, nella quale Elena non sarebbe salita neppure sulla nave di Paride, ma sarebbe stata subito sostituita dal simulacro, così da escludere qualsiasi possibilità di adulterio.
La versione attribuita a Esiodo viene comunque smentita sia nel Catalogo delle donne che nelle Opere e giorni, dove Elena compare sempre come la responsabile del conflitto tra Achei e Troiani :
“ dopo che ( la guerra ) li aveva portati a Troia, a causa di Elena dalla bella chioma “
v. 165 delle Opere e giorni.
La tradizione era dunque in genere ostile ad Elena.
Eschilo aveva scritto nell’Agamennone :
“ Ahimé, ahimé, Elena pazza !
Tu sola molte innumerevoli vite sotto le mura di Troia
facesti perire; …”  ( vv. 1455 e seg. )

                  
                      Persistenza del mito di Elena nella letteratura moderna


  Giovanni Pascoli
  Poemi conviviali

                                                    ANTÌCLO

I
E con un urlo rispondeva Antìclo,
dentro il cavallo, a quell'aerea voce;
se a lui la bocca non empìa col pugno
Odisseo, pronto, gli altri eroi salvando;
e ognun chiamando tuttavia per nome
la voce alata dileguò lontano;
fin ch'all'orecchio degli eroi non giunse
che il loro corto anelito nel buio;
come già prima, quando già lì fuori
impallidiva il vasto urlìo del giorno,
l'urlìo venato da virginei cori,
che udian dietro una nera ombra di sonno;
nel lungo giorno; e poi languì, ché forse
era già sera, e forse già sul mare
tremolava la stella Espero, e forse
la luna piena già sorgea dai monti;
ed allora una voce ecco al cavallo
girare attorno, che sonava al cuore
come la voce dolce più che niuna,
come ad ognuno suona al cuor sol una

II
Era la donna amata, era la donna
lontana, accorsa, in quella ora di morte,
da molta ombra di monti, onda di mari:
sbalzò ciascuno quasi a porre il piede
su l'inverdita soglia della casa.
Ma tutti un cenno di Odisseo contenne:
Antìclo, no. Poi ch'era forte Antìclo,
sì, ma per forza; e non avea la gloria
loquace a cuore, ma la casa e l'orto
d'alberi lunghi e il solatìo vigneto
e la sua donna. E come udì la voce
della sua donna, egli sbalzò d'un tratto
su molta onda di mari, ombra di monti;
udì lei nelle stanze alte il telaio
spinger da sé, scendere l'ardue scale;
e schiuso il luminoso uscio chiamare
lui che la bocca aprì, tutta, e vi strinse
il grave pugno di Odisseo Cent'arte;
e sentì nella conca dell'orecchio
sibilar come raffica marina:
Helena! Helena! è la Morte, infante!

III
Ma quella voce gli restò nel cuore:;
e quando uscì con gli altri eroi - la luna
piena pendeva in mezzo della notte -
gli nereggiava di grande ira il cuore;
e per tutto egli uccise, arse, distrusse.
Gittò nel fuoco i tripodi di bronzo,
spinse nel seno alle fanciulle il ferro;
ché non prede voleva; egli voleva
udir, tra grida e gemiti e singulti,
la voce della sua donna lontana.
Ma era nella sacra Ilio il nemico
di gloria Antìclo, non in Arne ancora,
fertile d'uva, o in Aliarto erboso:
e in un vortice rosso Ilio vaniva
a' piè del plenilunïo sereno.
Morti i guerrieri, giù nelle macerie
fumide i Danai ne battean gl'infanti,
alle lor navi ne rapian le donne:
e d'Ilio in fiamme al cilestrino mare,
dalle Porte al Sigeo bianco di luna,
passavano con lunghi ululi i carri.

IV
Ma non ancora alle Sinistre Porte
Antìclo eroe dalla città giungeva.
Lì l'auriga attendeva il suo guerriero
insanguinato; e oro e bronzo, il carro,
e la giovane schiava alto gemente.
Voto era il carro, solo era l'auriga:
legati con le briglie abili al tronco
del caprifico, in cui fischiava il vento,
i due cavalli battean l'ugne a terra,
fiutando il sangue, sbalzando alle vampe.
Ma non giungeva Antìclo: egli giaceva
sul nero sangue, presso l'alta casa
di Deifobo. E dentro eravi ancora
fremere d'ira, strepere di ferro:
poi che, intorno all'amante ultimo, ancora
gli eroi venuti con le mille navi,
Locri, Etoli, Focei, Dolopi, Abanti,
contendean ai Troiani Helena Argiva;
tutti per lei si percotean con l'aste
i vestiti di bronzo e i domatori
di cavalli; e le loro aste, stridendo,
rigavano di lunghe ombre le fiamme.

V
Ma pensava alla sua donna morendo
Antìclo, presso l'atrïo sonoro
dell'alta casa. E divampò la casa
come un gran pino; ed al bagliore Antìclo
vide Lèito eroe sul limitare.
Rapido a nome lo chiamò: gli disse:
Lèito figlio d'Alectryone, trova
nell'alta casa il vincitore Atride,
di cui s'ode il feroce urlo di guerra.
Digli che fugge alle mie vene il sangue
sì come il vino ad un cratere infranto.
E digli che per lui muoio e che muoio
per la sua donna, ed ho la mia nel cuore.
Che venga la divina Helena, e parli
a me la voce della mia lontana:
parli la voce dolce più che niuna,
come ad ognuno suona al cuor sol una.

VI
Disse, e la casa entrò Lèito, e seguiva
tra le fiamme il feroce urlo di guerra,
che come tacque, egli trovò l'Atride
poggiato all'asta dalla rossa punta,
dritto, col piede sopra il suo nemico.
E contro gli sedeva Helena Argiva,
tacita, sopra l'alto trono d'oro;
e lo sgabello aveva sotto i piedi.
E Lèito disse al vincitore Atride:
Uno mi manda, da cui fugge il sangue
sì come il vino da cratere infranto:
Antìclo, che muore per te, che muore
per la tua donna, ed ha la sua nel cuore.
Oh! vada la divina Helena, e parli
a lui la voce della sua lontana,
la voce dolce forse più che niuna,
e come suona forse al cuor sol una.

VII
E così, mentre già moriva Antìclo,
veniva a lui con mute orme di sogno
Helena. Ardeva intorno a lei l'incendio,
su l'incendio brillava il plenilunio.
Ella passava tacita e serena,
come la luna, sopra il fuoco e il sangue.
Le fiamme, un guizzo, al suo passar, più alto;
spremeano un rivo più sottil le vene.
E scrosciavano l'ultime muraglie,
e sonavano gli ultimi singulti.
Stette sul capo al moribondo Antìclo
pensoso della sua donna lontana.
Tacquero allora intorno a lei gli eroi
rauchi di strage, e le discinte schiave.
E già la bocca apriva ella a chiamarlo
con la voce lontana, con la voce
della sua donna, che per sempre seco
egli nell'infinito Hade portasse;
la rosea bocca apriva già; quand'egli
- No - disse: - voglio ricordar te sola. –











Gabriele D’Annunzio, Maia

V

La vecchiezza di Elena


Al breve bagliore
scorsero i nostri occhi mortali
l’eterna tartarea faccia
d’Atropo che taglia lo stame,
dell’inevitabile Mira?
Sparvero l’inganno dell’ora
presente, l’angustia del luogo,
il turpe clamore degli ebri;
e tutti i secoli muti
che avean travagliato quel vólto,
incanutito quel crine,
sfatto quella bocca vorace,
smunto quel seno infecondo,
curvato quel dorso di belva,
scarnito quell’avida branca,
sepolto nell’orbita cava
quell’occhio ancor semivivo
senza cigli ingombro di sanie
e lacrimoso di sangue,
i millennii d’onta e di lutto
oppressero il cuor mio vivente.

E l’anima mia nel mio cuore
tremò d’infinita tristezza,
come innanzi all’aspetto senile
d’una già cognita gente,
di sùbito apparsomi in fondo
al funebre specchio dei tempi.
Ma risero i cari compagni.
E nell’artiglio proteso
dalla famelica lèna
io posi ridendo una dramma.
Mormorò ella parole
buie tra le vacue gengive
con la sua voce di tomba.
La grande sua bianca criniera
si dileguò nella notte.
E noi scendemmo la scala
di putrido legno. Cedette
un de’ gradi all’urto del piede,
s’infranse con gemito. Oh dolce,
dalla soglia del lupanare,
mirar le vergini stelle!

E disse un de’ cari compagni
tornando alla nave ancorata:
"Aedo, tu désti la dramma
a Elena figlia del Cigno,
che fatta è serva millenne
d’una meretrice di Pirgo".
Vidi il pastor frigio su l’Ida
pascere col flauto l’armento
all’ombra dei pini chiomosi,
innanzi che in talamo eburno
ei s’avesse Elena di Sparta.
E disse il compagno: "L’estremo
Eroe cui ella soggiacque
nomavasi, come l’idèo
rapitor suo primo, Alessandro.
Su quella zona terrestre
che si protende arenosa
tra il Mediterraneo Mare
e il Mareotide Lago,
il giovine Eroe la premette;
e fu la lor prole Alessandria".

Alessandria! Alessandria!
La forza la gioia la gloria
del trionfatore d’imperi
e il van balbettìo faticoso
del calvo grammatico! Io dissi
meco: "Se ancóra l’impronta
dei lombi divini rimane
laggiù nella sabbia palustre,
io andrò andrò adorante".
Parlava la voce del sogno.
"Votò l’Eroe la sua vasta
coppa. Meditò taciturno.
Votare la coppa ei soleva
dopo sovrumane fatiche.
Da lui stanco il vino traeva
una onniveggente potenza.
Ei vide le Forze immortali
salir dalla terra e dal ponto.
Tra il Mediterraneo e il Lago
segnò taciturno le sorti
della Città nascitura.

I Continenti oscurati
eran sotto l’ombra degli alti
pensieri. Ei vedea la ricchezza
dei regni versarsi infinita
su l’Arcipelago azzurro,
dalla Città nascitura
come da corno inesausto.
E vennegli Elena per l’acque
dai lidi argivi incurvati
secondo la forma del labbro
ledèo; sorridendo gli venne
Elena di Sparta che Achille
bramò; venne a lui col nepente
la bianca Tindaride; venne
recando nel cinto il profumo
dell’Ellade caro al signore
dell’Asia. E il Macedone scosse
la figlia di Zeus nudata
su le fondamenta fatali.
E fu quegli l’estremo
Eroe cui ella soggiacque.

Poi fu polluta per notti
e notti, tra il sangue e l’incendio,
dai centurioni di Roma,
premuta fu sotto le squamme
delle loriche pesanti.
Punsero l’ispide barbe
la sua mammella rotonda
che dava la forma alle coppe
d’avorio pei conviti
dei re. Nel suo ventre convulso
ruggire s’udì la lussuria
come rombo in conca marina.
Da sola ella fu la suburra
aperta all’esercito in foia.
Fu manomessa dai servi,
dai ladroni, dagli omicidi,
dai profanatori di tombe,
dai mercenarii fuggiaschi.
Calpesta in polvere e in fango,
lambì con la lingua lasciva
le calcagna dei violenti.

Soffiò dovunque il suo fiato
come insanabile peste.
Accrebbe i nomi del vizio.
Fece innumerevoli i nomi
e i modi, maestra di spintrie
pei Cesari enfii di murene
e roscidi di purulenza.
Vecchia d’indicibil vecchiezza,
tentò se le mille sue rughe
servir potessero a qualche
più mostruosa lascivia;
ma, come in solchi di sabbia
sol cresce la crambe marina,
crebbevi sol la vergogna.
E fu di postriboli cencio,
nettò dai vòmiti i letti,
gittò nel rigagno del vico
le rosse urine e lo sterco,
spezzò il suo ultimo dente
per rodere gli ossi ed i tozzi
contesi alla cagna scabbiosa.

Or tu la vedesti alla porta
di quella femmina elèa,
crinita di grande canizie.
Fu sua sapienza la frode,
sudore di opere infami
ne’ secoli fu suo lavacro;
e tuttavia biancheggiare
or noi la vedemmo nell’ombra!
Come neve su volutabro
sta su lei la grande canizie:
attonito l’occhio la mira.
Ahi fior di bianchezza sublime
che alle Scee mirarono i Vegli!
Aedo, tu désti la dramma
a Elena figlia del Cigno."
Così, questo sogno sognando
nell’amarissimo cuore,
tornammo alla nave ancorata.
E poi ci colcammo sul ponte,
il sonno invocammo dall’Orse.
Tal fu la notte di Patre.

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