Ricordava come Achille n’era inebriato, quando, offeso
nell’orgoglio, aveva trafitto con la daga la restia e fredda Pentesilea. Quella
era una vergine ostile, dal corpo di giovinetto, dallo sguardo invido di mala
femmina, che lo aveva sfidato e n’era morta, sopraffatta, e vittima di colui
che aveva stoltamente tenuto per preda. Immaginò che l’eroe l’avesse appesa per
i piedi a un albero alto e le avesse reciso l’unico seno e avesse lasciato che
il sangue colasse sul terreno fino a formare la melma. Quindi, liberata una
muta di veltri famelici, avesse assistito al progressivo laceramento delle
membra di lei, strappate dai morsi dei cani, e avesse osservato compiaciuto che
da un vicino nido un nugolo di ronzanti vespe le s’appostava sul viso, ed
entrava nelle nari e nella bocca e nelle orecchie e le divorava gli occhi.
E gli veniva anche alla mente, tratta dalla memoria di
antiche letture, la perfidia dell’inumana Atalia, la figlia della malvagia
Iezabel. Ella, in quanto figlia di Acab, re di Israele, era andata sposa a
Ioram, figlio del re di Gerusalemme. E quando Ioram salì sul trono, ella
divenne regina. E una superbia terribile s’impadronì di lei e divenne così
gelosa del trono che non deponeva mai le insegne regali e s’intrometteva in
ogni disegno della corte e in ogni piano di battaglia, e controllava i
contabili della reggia e oziava nella sala del tesoro facendo scorrere tra le
dita le gemme preziose e meticolosamente disponendo piramidi di monete d’oro.
E come la forza misteriosa, oscura del destino, fosse in
qualche modo influenzata dalla sua ambizione, ella non condivise più ben presto
l’autorità regale col marito, poi che il re venne a morte e a lei toccò la
reggenza in nome del figlio.
E le intime cupidigie, quelle che non sogliono manifestarsi
ma che si nutrono dei veleni nefasti che albergano nell’animo umano, aprirono
agli eventi una via inaspettata e dolorosa all’apparenza, eppure tanto
maggiormente ricca di soddisfazioni e di speranze raggiunte. Infatti morì anche
Ocozia, il figlio regio.
Veramente il giovane Nemrod poteva meditare sulla
insaziabile malizia della femmina, la cagna ignobile che guaisce e lambisce
umile i piedi del padrone e latra ai deboli e morde spietata i reietti.
Quale incerta muove i passi invasati quando, già accolto il
dio, la menade impazzisce, tale correva per la reggia agitata, forsennata, rosa
dal dèmone dell’avarizia, la regina, con i segni della cupa follia in volto.
Indossando le vesti regali, ella si copriva di gioielli e di
collane e di corone forgiate dalle mani dei più valenti artefici. Il volto le
s’infiammava, le si mozzava il respiro. La prendeva una febbre che consumava a
poco a poco le membra e bruciava il sangue nelle vene.
Ora alzava la voce inaspettatamente, gridava, ora lacrime improvvise
rigavano le sue gote, ora sogghignava, ora assumeva figura d’ogni sentimento
opposto. Un’ira, un desiderio feroce di liberarsi dalle angosce la invase in
un’ondata di furore. Non pretese d’essere soddisfatta nei diritti principeschi
e non meditò un piccolo o mediocre crimine, ma si gettò a capofitto nella
strage immane.
E ordinò l’uccisione di tutti i maschi della stirpe di
Davide, che potessero essere stimati legittimi successori ed eredi del defunto
re.
Nei sotterranei del palazzo fece raccogliere i bambini e i
giovinetti dannati e ad uno ad uno, nelle camere segrete, li eliminò,
escogitando ogni forma di tormento, esaltandosi in macabri riti, ormai votata
alle potenze infernali.
Né si limitava a torturare il corpo della vittima, ma per
l’ebbrezza satanica volle far soffrire anche l’anima.
Quando l’innocente veniva appeso per essere impiccato e
stava per esalare l’ultimo respiro, la regina ordinava di trarlo giù,
all’improvviso accorrendo a lui da una stanza vicina, mentre aveva prima
assistito da un pertugio alla scena, e così appariva quale ancora di salvezza e
nobile dispensatrice di giustizia. Quindi prendeva il fanciullo sulle ginocchia
e lo rianimava, lo consolava e lo compativa accorata e premurosa, mostrava con
disprezzo i carnefici e diceva che presto lo avrebbe consegnato ai poveri
genitori, e lo abbracciava e baciava lacrimando. E poi, quando il giovincello,
riavutosi, smarrito per la gioia, le ricambiava l’affetto e le poneva, vinto
dall’amore, la testa leggiadra sul seno, ella gli immergeva rapidamente un
pugnale nella nuca e beveva il sangue che spicciava dalla vena.
Così ricordava il giovane principe e paragonava il proprio
odio alla misoginia di Goya, e pensava all’uomo incatenato dai fantasmi
dell’orrore, al pittore d’incubi nella Casa del Sordo, al corteo di donne
ghignanti.
E in disparte, come già allo spagnolo, si mostrava la donna
misteriosa sulla roccia, grave e meditabonda, distaccata, lontana, un enigma.
Il coro delle Parche nerovestite assillava la sua fantasia
come quella dell’artista oppresso dall’angoscia della morte, le cui
rimembranze, rivolgendosi agli anni felici, trasformavano i sorrisi e le
bellezze delle giovani donne amate in ghigni e in orribili smorfie di vecchie
vizze.
E ricordava la gentildonna in nero, dal gran nastro roseo
sui crini ispidi, il cui viso guardava siccome immota e ambigua statua di cera.
E pensava a Fuseli tratto per mano da Lady Macbeth
nell’inferno della fantasia, tra donne soffocate nel sonno o fra assassini
inseguiti dalle Furie.
E la memoria lo attrasse nella corrente sinfonica del musico
Bruckner, che lo incantava talora più di altri maggiori. In un viaggio senza
meta si sentiva trasportare, in una dolce ondata di malinconia. E alternandosi
i momenti di abbandono sentimentale al vigore, alla forza maestosa che
interpretava la lotta incessante, universale, egli si smarriva in un labirinto,
in un mondo irreale, ma assai più autentico di quello in cui vivono le ombre
sicure degli uomini, un mondo di impeti ciechi e funesti, di esaltazioni
sublimi, di vera vita.
Nel nostro cuore è il paradiso e l’inferno, nella nostra
fantasia i mondi perduti tra le stelle, e i sonni ci fanno vivere migliaia di
esistenze. Che cos’è la realtà se non un attimo che si dissolve nella coscienza
?
E scorse verso l’orizzonte le tenebre farsi prossime, e udì
un rombo sordo, lontano.
Chi sei tu che porti il giorno, chi sei tu che rechi la
notte, che sollevi i venti, che disperdi le nubi, che incessantemente ti muovi,
Dio ?
Lo riprese l’ossessione di Lady Macbeth e delle streghe
della landa, e presentì che con le prossime tenebre si dovevano rinnovare i
riti oscuri, cari ad Ade. Come nel quadro di Fussli sarebbe ancora apparso
l’inviato d’oltre mare, l’inviato dell’Occidente, a condurre via nell’impeto
del galoppo l’anima sacrificata.
Una fiamma bianca subito varcò l’estremo limite occiduo. Udì
un nitrito al pari d’un tuono empire lo spazio e quasi schiantare le ombrose
nebule della notte. Un cavallo candido correva sopra le acque prodigiosamente
con l’empito degli otto zoccoli, levando nugoli di spuma. Sleipnir correva a
lui sopra le acque, e la terra sembrava ritrarsi, impaurita. Doveva venire il
grande Odin.
Doveva rivelarsi, prima o poi, il dio. Doveva rivelarsi al
suo spirito il dio terribile, il dio dominatore, che percorre i campi di
battaglia, Ares insaziabile, che favorisce la lotta, Dioniso, creatore e
distruttore, cui è debitore il cosmo dell’incessante divenire, Colui Che crea
senza fine, il Supremo Artefice, proteso nella corsa infinita.
Il grande cavallo bianco arcava il dorso e irrigidiva e
scuoteva furente il forte collo e i crini della giuba erano bagliori di luce
astrale e gli occhi due neri soli in cui si perdeva l’infinito.
E al principe venne alla mente il gran carro del sole, sul
quale Apollo, guidando i cavalli infuocati, vinse il mostro degli abissi, il
serpente Pitone. Apollo afferrò l’arco e diresse l’infallibile freccia nella
gola di Pitone, e vinse, il lungisaettante. E intorno precipitavano dal cielo i
demoni malvagi e si nascondevano negli elementi inferiori, e fuggivano
atterriti il lume accecante.
Ma come volse la vista all’ombra del promontorio, ecco un
altro cavallo, nero, nitrire disperatamente, e sulla groppa un uomo nudo legato
da corde, sanguinante, il volto lacerato dai giorni, la bocca arsa dalla sete.
E galoppava a rotta di collo giù dal promontorio tra i pini e i cespi di
ginestra, e smuoveva i sassi sotto gli zoccoli, sollevando la polvere.
Il corsiero nutrito d’erbe marine si precipitava nello
spazio immenso, verso l’interminabile orizzonte.
Ed ecco su fumanti destrieri seguire l’esercito dei giovani
eroi, impetuosi nella corsa funesta tra le onde sterili e il vasto manto arido
delle sabbie, quale muta ansimante di veltri dietro una preda che trascina
nell’insidia.
E il prigioniero della bestia gigantesca si torceva nei
morsi delle corde insanguinate e alzava le pupille nere velate di rosso pianto
al cielo violaceo venato di effusioni d’oro e di vaste frange scarlatte.
E seguitavano i giovani guerrieri, pronti a procombere sotto
i dardi dell’infallibile arciere, del fato ineluttabile.
Le sabbie svanirono, all’improvviso, in una voragine,
nascosta dalle ombre della notte imminente, una larga fenditura nella roccia,
spalancata quasi una bocca. La quale tutti accolse in un tumulto inaudito, e lo
scalpito continuò ad echeggiare nel grembo della terra, come un tuono nel
cielo.
Le onde riversarono i cadaveri sul litorale. Grossi stormi
di gabbiani voraci immersero il becco nelle orbite, nel costato, nel molle
ventre. Il fetore ammorbava l’aria, e i topi s’incoraggiarono e s’avvicinavano
alla riva.
E, sullo spettacolo di quella miseria, ascendeva la luna,
calma, radiosa, impassibile. E la luce sua avvolgeva candidamente i corpi
smembrati e i divoratori intenti a strappare e a rodere le carni, i grigi topi
crudeli e gli avidi gabbiani nutriti dei rifiuti del mare.
E oltre l’orizzonte il sole scompariva definitivamente. E
andava a illuminare un altro mondo, correndo nella corsa infinita, e andava a
illuminare nascite e morti e volti addolorati e volti pieni di speranze. E
roteava nello spazio senza confini, l’immane globo di fuoco, e intorno ad esso
i globi ignei degli astri precipitavano, precipitavano nella notte senza fine.
E la luna calma, radiosa, impassibile illustrava l’incedere
maestoso d’una donna mitrata che nella destra reggeva il loto, nella sinistra
lo scettro, ed era ignuda, fuor che le spalle coronate da un manto ceruleo
segnato di rabeschi d’argento. Due negre pantere erano ai lati, mostranti le
candide zanne nelle fauci ignite.
E di nuovo, sul lido, correva il grande cavallo bianco,
divino. I suoi occhi lucevano nella notte stellata come nere gemme.
E le pantere si lanciarono a inseguirlo. Ombre rapide e
furtive di sicarii, esse balzavano nella notte senza rumore, ma s’intravedeva
il digrignare d’avorio e gli occhi parevano guizzanti fiammelle. Con un ruggito
si gettarono sulla preda raggiunta, ed iniziarono l’aspra contesa.
Il corsiero s’inarcò sopra le zampe possenti, menando con
gli zoccoli anteriori colpi mortali che fendevano l’aria quali cozzi di maglio.
Ansimando per le froge umide mordeva lo spiro marino, che
scoteva i crini e la coda fluente. Le pantere saltando sul dorso gli laceravano
con gli artigli l’ampia schiena muscolosa, e rivoli di sangue escivano, ed
erano assorbiti dalla sabbia come un caldo ruscello. Ma il cavallo gigantesco
ergendosi nella sua forza le ributtava, scaraventandole con furia nella
polvere. Esse tornavano ad attaccare più maligne e crudeli, ruggendo d’ira e di
scorno.
Oppresso dai ripetuti assalti il destriero fu travolto e
cadde in una nube di sabbia. Le pantere si slanciarono per sgozzarlo, ma esso
le involse nel turbine sollevato dal vasto corpo.
Confusi nella mischia i tre animali sembravano un unico
organismo che ruotasse su se stesso, spargendo un polverio fitto, come una
cortina di nebbie.
Si rizzò infine il corsiero spaventosamente grande e
luminoso, un nume uscito dalla terra, le orbite erano globi di fuoco e dalla
bocca scaturiva il vapore intriso di minutissime gocce di sangue pompato da un
cuore impazzito.
Liberatosi, in una corsa cieca e disfrenata maciullò con gli
zoccoli le sabbie del lido e, allontanandosi, sparve nella notte come un
fantasma o una forma vaga e fluorescente.