sabato 9 marzo 2013

La passeggiata






La passeggiata era in effetti gradevole e il sole del pomeriggio inondando la vegetazione ne schiudeva il sentore acre e possente di resine e liberava il profumo dei fiori.
Giunto in un piccolo anfratto da cui la vista si perdeva sul golfo splendente, si sedette sull’erba e accese lentamente un sigaro. Il sapore del tabacco si fondeva con l’odore aspro e salmastro delle aghifoglie e il fumo espandendosi nell’aria si portava via anche le numerose immagini che sorgevano in lui disordinatamente.
Una distesa verde d’alberi, di cespugli e di macchia mediterranea si prolungava sino al mare, distinta dal flutto cilestre da un breve serpeggiare di sabbia.
Il fumo s’alzava nell’aria, si smarriva come i suoi sogni, svaniva nel puro cristallo dell’atmosfera, rapito da una brezza lieve.
Non più udiva voci di fanciulle. Il sito era silente e colmo d’un torpore lussureggiante. Circondato dalla natura si sentiva a poco a poco confondere negli esseri intorno, nelle piante centenarie e anche nei volatili che cinguettavano o più in alto gracchiavano bianchi con ampi voli lenti.
E ricordava quella bellissima immagine che Foscolo ricreò nelle Grazie, traendola da Omero, e gli parve che un infinito sciame d’api divine e luminose s’estendesse sul mare azzurro e calmo come gli occhi d’un biondo dio libero d’ogni passione, ed anche che a lui apportasse i profumi più varii della primavera, e, piano, piano, lo invadeva una dolce sensazione di placido riposo.
E osservava le onde, spumeggianti sulla battigia, e udiva il murmure delle acque ritraentisi e avvicendantisi incessantemente, instancabili.
Ascoltava rapito quel sonoro fluttuare, ripetuto innumerevoli volte, quasi una musica d’incantesimi, echeggiante, inebriante.
Non erano forse quei suoni come le voci vaghe di interminabili cori di anime un tempo viventi, che celebravano e rimpiangevano la breve esistenza ?
E pensava alla propria esistenza, agli anni irrimediabilmente trascorsi e dei quali serbava solo un incerto ricordo, ai volti incontrati di gente fuggevole e a qualche gentile volto di fanciulla, che aveva amato segretamente in brevi colloqui senza seguito, e pensava alla propria meravigliosa vita interiore di cui quella esterna non era se non un pallido riflesso, una nota su un cattivo strumento. Quante di quelle fanciulle non avevano compreso nulla della loro grazia, ed egli invece aveva assaporato con lentezza la beltà senza paragone dei corpi e delle anime inconsapevoli. E così, innanzi agli stupendi paesaggi delle montagne, e innanzi ai tramonti sul mare e davanti alla meraviglia delle nuove aurore, egli aveva colmato gli occhi dello spirito di bellezze incomparabili e per certo divine.
Aveva conosciuto i misteri dell’amore in quei limiti stessi che lo facevano desiderare. Infatti egli non poteva amare se non quello di cui sentiva profondamente la mancanza. E il sogno gli si presentava come l’aspirazione suprema in un mondo di arida realtà. Il suo occhio, avido di bellezza, si era spesso soffermato con dolore sui numerosi volti di donne brutte che parevano essere più dei due terzi della popolazione femminile. E veramente la bruttezza, la volgarità, la scipitezza appaiono nella donna con fortissima evidenza, ma la bellezza, così rara nella donna, lo aveva sempre rapito, quando appunto si trovava al cospetto d’un capolavoro della natura. Allora i suoi occhi s’abbandonavano voluttuosamente alla visione proprio come si trovasse innanzi a un magnifico quadro, o ad una mirabile prospettiva su monti ed acque, e la sua mente dimenticava finalmente l’antipatica realtà, fredda e vuota, e si consolava e sognava i mondi irraggiungibili.
E la sua mente prospettava illusioni oltre le illusioni, in una infinita distesa di forme e di colori, un oceano sconfinato di fronte al quale il suo occhio interiore restava fisso in preda allo stupore e allo sgomento, poi che non riusciva a credere che tanti mondi potessero coesistere nella sua anima.
Se chiudeva gli occhi spesso si trovava nel buio dello spazio fra gli astri ed innumerevoli nubi di luminoso pulviscolo stellare, e con incredibile velocità trascorreva nell’estensione delle galassie. E nella sospensione del tempo ecco che innanzi a lui passavano in rassegna tutti i secoli, e le civiltà antiche e le future, e le origini della terra e la sua fine in un mare di fuoco.
E la sua essenza, misteriosa e irriconoscibile, quasi un flutto inarcantesi in un attimo, spumoso sovra le spume, si librava fluida e invisibile prima del tempo ed oltre lo spazio, prima della creazione del mondo, nel vasto oceano del Nulla.
E così pensava alla propria vita trascorsa e ormai dissolta, presente di quando in quando nel ricordo, ma raramente come nitida immagine anzi più spesso vaga e nebulosa quasi sorgesse dall’Erebo profondo. Eppure la gioia di attimi di per sé insignificanti gli affluiva nella memoria, in quei momenti appunto di insperata lucidità, inondandolo di una freschezza, di una dolcezza e di un senso di vastità così forte e di magnanimità, che il suo spirito si sentiva sollevato all’esistenza degli dei in altri mondi, in quei mondi che appaiono sulle montagne quando il vento sussurra arcane parole nella solitudine.
E quegli istanti di felice rimembranza gli consegnavano, pur nella loro brevità, la giustificazione della sua esistenza, emergendo dal fiume torbido della vita interiore come un fiore che la corrente avida abbia trascinato in sé, strappandolo alla riva o accogliendolo da chissà quale mano, e che talvolta torni in superficie nelle soste della corsa impetuosa, e improvviso, inaspettato sembri appena sbocciato dal fondo, vivido e lucente.
E come i brevi discorsi senza seguito erano sorti in lui dalla fuggevole rimembranza, dalla rimembranza fuggevole d’immagini deliziose quali quelle scaturite dalla lettura di romanzi ignoti, come quello d’Ismine e Isminia, così egli si quetava nell’impossibilità di comunicare alcunché, nell’assoluta consapevolezza di non dire nulla, quasi un suono flebile che si smarrisca nei meandri di una notte solitaria.
Una luce lontana sfavillava sul monte, la luce d’un fuoco nascosto. Laggiù si celebrava un rito, il rito del suo Sé, solitario e selvaggio. Le tenebre ringhiavano come pantere, i pini ondeggiavano scossi fin dalle radici, le serpi fuggivano sibilanti nell’erba folta, i corvi gracchiavano impazziti. Ma silente nella notte prossima si spalancava il suo occhio, luminoso come un faro.


E avanzava sul sentiero sassoso, in mezzo ai pini fruscianti.
Il tramonto arrossava i loro tronchi, che avevano l’aspetto di cenere ardente.
All’orizzonte, sul mare immenso, il cielo era invaso da strisce di nuvole fosche che navigavano nell’agonia purpurea del sole.
Udiva il monotono rollare dell’onde e gli parve che i monti intorno echeggiassero a quell’ansimo ampio e regolare.
E come stava innanzi al mare murmureo, udì un improvviso fruscìo fra i pini e i ciuffi di ginestra selvatica. Si volse incuriosito e intravide fra i rami e le foglie allontanarsi lentamente una figura di donna.
I raggi del sole fuggitivo e della luna nascente furono incantati e carpiti da occhi che nell’ombra lo guardarono quasi gemme, rilucendo d’una luce indescrivibile, la quale aveva la profondità degli abissi marini e il fulgore degli astri.
E si allontanò nel silenzio.

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