La passeggiata era in effetti gradevole e il sole del
pomeriggio inondando la vegetazione ne schiudeva il sentore acre e possente di
resine e liberava il profumo dei fiori.
Giunto in un piccolo anfratto da cui la vista si perdeva sul
golfo splendente, si sedette sull’erba e accese lentamente un sigaro. Il sapore
del tabacco si fondeva con l’odore aspro e salmastro delle aghifoglie e il fumo
espandendosi nell’aria si portava via anche le numerose immagini che sorgevano
in lui disordinatamente.
Una distesa verde d’alberi, di cespugli e di macchia
mediterranea si prolungava sino al mare, distinta dal flutto cilestre da un
breve serpeggiare di sabbia.
Il fumo s’alzava nell’aria, si smarriva come i suoi sogni,
svaniva nel puro cristallo dell’atmosfera, rapito da una brezza lieve.
Non più udiva voci di fanciulle. Il sito era silente e colmo
d’un torpore lussureggiante. Circondato dalla natura si sentiva a poco a poco
confondere negli esseri intorno, nelle piante centenarie e anche nei volatili
che cinguettavano o più in alto gracchiavano bianchi con ampi voli lenti.
E ricordava quella bellissima immagine che Foscolo ricreò
nelle Grazie, traendola da Omero, e
gli parve che un infinito sciame d’api divine e luminose s’estendesse sul mare
azzurro e calmo come gli occhi d’un biondo dio libero d’ogni passione, ed anche
che a lui apportasse i profumi più varii della primavera, e, piano, piano, lo
invadeva una dolce sensazione di placido riposo.
E osservava le onde, spumeggianti sulla battigia, e udiva il
murmure delle acque ritraentisi e avvicendantisi incessantemente, instancabili.
Ascoltava rapito quel sonoro fluttuare, ripetuto
innumerevoli volte, quasi una musica d’incantesimi, echeggiante, inebriante.
Non erano forse quei suoni come le voci vaghe di
interminabili cori di anime un tempo viventi, che celebravano e rimpiangevano
la breve esistenza ?
E pensava alla propria esistenza, agli anni
irrimediabilmente trascorsi e dei quali serbava solo un incerto ricordo, ai
volti incontrati di gente fuggevole e a qualche gentile volto di fanciulla, che
aveva amato segretamente in brevi colloqui senza seguito, e pensava alla propria
meravigliosa vita interiore di cui quella esterna non era se non un pallido
riflesso, una nota su un cattivo strumento. Quante di quelle fanciulle non
avevano compreso nulla della loro grazia, ed egli invece aveva assaporato con
lentezza la beltà senza paragone dei corpi e delle anime inconsapevoli. E così,
innanzi agli stupendi paesaggi delle montagne, e innanzi ai tramonti sul mare e
davanti alla meraviglia delle nuove aurore, egli aveva colmato gli occhi dello
spirito di bellezze incomparabili e per certo divine.
Aveva conosciuto i misteri dell’amore in quei limiti stessi
che lo facevano desiderare. Infatti egli non poteva amare se non quello di cui
sentiva profondamente la mancanza. E il sogno gli si presentava come
l’aspirazione suprema in un mondo di arida realtà. Il suo occhio, avido di
bellezza, si era spesso soffermato con dolore sui numerosi volti di donne
brutte che parevano essere più dei due terzi della popolazione femminile. E
veramente la bruttezza, la volgarità, la scipitezza appaiono nella donna con
fortissima evidenza, ma la bellezza, così rara nella donna, lo aveva sempre
rapito, quando appunto si trovava al cospetto d’un capolavoro della natura.
Allora i suoi occhi s’abbandonavano voluttuosamente alla visione proprio come
si trovasse innanzi a un magnifico quadro, o ad una mirabile prospettiva su
monti ed acque, e la sua mente dimenticava finalmente l’antipatica realtà,
fredda e vuota, e si consolava e sognava i mondi irraggiungibili.
E la sua mente prospettava illusioni oltre le illusioni, in
una infinita distesa di forme e di colori, un oceano sconfinato di fronte al
quale il suo occhio interiore restava fisso in preda allo stupore e allo
sgomento, poi che non riusciva a credere che tanti mondi potessero coesistere
nella sua anima.
Se chiudeva gli occhi spesso si trovava nel buio dello
spazio fra gli astri ed innumerevoli nubi di luminoso pulviscolo stellare, e
con incredibile velocità trascorreva nell’estensione delle galassie. E nella
sospensione del tempo ecco che innanzi a lui passavano in rassegna tutti i
secoli, e le civiltà antiche e le future, e le origini della terra e la sua
fine in un mare di fuoco.
E la sua essenza, misteriosa e irriconoscibile, quasi un
flutto inarcantesi in un attimo, spumoso sovra le spume, si librava fluida e
invisibile prima del tempo ed oltre lo spazio, prima della creazione del mondo,
nel vasto oceano del Nulla.
E così pensava alla propria vita trascorsa e ormai dissolta,
presente di quando in quando nel ricordo, ma raramente come nitida immagine
anzi più spesso vaga e nebulosa quasi sorgesse dall’Erebo profondo. Eppure la
gioia di attimi di per sé insignificanti gli affluiva nella memoria, in quei
momenti appunto di insperata lucidità, inondandolo di una freschezza, di una
dolcezza e di un senso di vastità così forte e di magnanimità, che il suo
spirito si sentiva sollevato all’esistenza degli dei in altri mondi, in quei
mondi che appaiono sulle montagne quando il vento sussurra arcane parole nella
solitudine.
E quegli istanti di felice rimembranza gli consegnavano, pur
nella loro brevità, la giustificazione della sua esistenza, emergendo dal fiume
torbido della vita interiore come un fiore che la corrente avida abbia
trascinato in sé, strappandolo alla riva o accogliendolo da chissà quale mano,
e che talvolta torni in superficie nelle soste della corsa impetuosa, e
improvviso, inaspettato sembri appena sbocciato dal fondo, vivido e lucente.
E come i brevi discorsi senza seguito erano sorti in lui
dalla fuggevole rimembranza, dalla rimembranza fuggevole d’immagini deliziose
quali quelle scaturite dalla lettura di romanzi ignoti, come quello d’Ismine e
Isminia, così egli si quetava nell’impossibilità di comunicare alcunché,
nell’assoluta consapevolezza di non dire nulla, quasi un suono flebile che si
smarrisca nei meandri di una notte solitaria.
Una luce lontana sfavillava sul monte, la luce d’un fuoco
nascosto. Laggiù si celebrava un rito, il rito del suo Sé, solitario e
selvaggio. Le tenebre ringhiavano come pantere, i pini ondeggiavano scossi fin
dalle radici, le serpi fuggivano sibilanti nell’erba folta, i corvi
gracchiavano impazziti. Ma silente nella notte prossima si spalancava il suo
occhio, luminoso come un faro.
E avanzava sul sentiero sassoso, in mezzo ai pini
fruscianti.
Il tramonto arrossava i loro tronchi, che avevano l’aspetto
di cenere ardente.
All’orizzonte, sul mare immenso, il cielo era invaso da
strisce di nuvole fosche che navigavano nell’agonia purpurea del sole.
Udiva il monotono rollare dell’onde e gli parve che i monti
intorno echeggiassero a quell’ansimo ampio e regolare.
E come stava innanzi al mare murmureo, udì un improvviso
fruscìo fra i pini e i ciuffi di ginestra selvatica. Si volse incuriosito e
intravide fra i rami e le foglie allontanarsi lentamente una figura di donna.
I raggi del sole fuggitivo e della luna nascente furono
incantati e carpiti da occhi che nell’ombra lo guardarono quasi gemme,
rilucendo d’una luce indescrivibile, la quale aveva la profondità degli abissi
marini e il fulgore degli astri.
E si allontanò nel silenzio.
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