domenica 3 marzo 2013

Inno alla Madre degli dei





Fervida mente del violaceo mare,
inno di forti ali,
o signore dell’ignoto labirinto
ove pallidi pullulano i germi di vite d’oro;
gli esseri da Oriente sorgono e inondano in Occidente
la terra ebbra.
Il tuo seme la Madre accoglie sulle alte montagne,
onde la vita sgorga dei vasti fiumi,
padri delle foreste mormoranti, gioia
di canti e vero luminoso tempio degli dei.
Di lodi perenni
esultano i monti inaccessibili e le querce,
maestose madri, alitano virtù.
Da esse delle stirpi superbe nelle contrade la forza spira,
cui il destino diede l’impero del mondo.
Nelle selve virenti
d’oro cantano i raggi
ai figli degli dei,
e il vento melodie
suona tra i rami
e dalle scabre rocce
sorge lo stambecco,
erto nelle pietraie.
E te invoca
tutta la montagna nera,
o mare,
quando all’alba
schiudi la voragine
donde trionfa
agl’inni celesti
il sole.
E tu, o sole, che illumini oscuro ai mortali,
chi sa il tuo nome ?
Dove danzeranno ancora avvoltoi
intorno alle colonne,
dove splende il fuoco ?
Sopra le onde ti libri e mormora il vento aligeno;
alato, tu solo voli.
Nel profondo senno della Madre
non è ignoto alcun mistero,
né al nobile fiume dal cupo gorgo,
e tu li conosci e, nell’antico inno
dei giganti occulti,
esalti l’intimo amplesso dell’aureo gioco,
tu che navighi
sul flutto d’oro.
O silvano incantesimo,
dolci musiche rapisci
al furtivo fruscio del fauno !
E ancora scorreranno i miei tenui sussurri nell’ombra
d’un quieto sguardo ?
Ora potessi svanire
nel verde specchio
e morire quando danza la luce.
Vorrei dormire nell’erba,
e quando il vento vellica
il serico vello maculato del mio cucciolo vivace,
allora destarmi
e al tuo seno anelare,
o Flora,
e al suono delle messi canore.
E voi acque scroscianti e fresche,
inebrianti liquori
della terra !
O rive felici,
qui sempre liete di sfrenate gare di fauni,
ridete
nella rosea primavera.
Tu sorridi tra la radiosa danza delle fanciulle
e il mormorio delle correnti,
o fauno,
sorridi fra gli odorosi rami,
mentre gioca tra le sacre fronde lo spiro all’inno degli alati,
e un’aura sfiora le membra.
Oh, soltanto lontano,
via dal volgo blasfemo,
via,
io posso vivere.
Scimmie
cadute dalla vulva materna
sghignazzano nei covi avari degli uomini,
le loro strida dominano un mondo attonito.
Dov’è l’Uomo ?
Dov’è l’Uomo maestoso nella sua bellezza, nel suo fiero
Corpo di dio,
degno della terra e del mare
e del silenzio delle foreste ?
Esulta gioiosa nel canto d’oro la stirpe degli dei,
cui della terra è il regno,
cui tu sei guida,
o centauro.
Poi che infinita
è la progenie degli uomini,
quali le foglie brune delle selve,
oscura trascorre,
alito di vento
sulle biade.
Ma tu, o dio ignaro di pace,
che non soffermi l’occhio sulla vita prono,
meditabondo,
che dissolvi l’iniquo grido degl’infimi,
ora trasvola come fiamma balzando
dal seno della terra e scuoti
la volta del cielo,
che trema innanzi all’eco nero
della tua rabbia divina !
Vieni con me.
Qui
non c’è ombra di mortali.
Io sono
nel ventre del drago.
Io sono
dove splendono onde del grande lago,
ove dardeggia acqua verde di muschio.
Vieni,
pazzo corsiero ebbro,
ostinato;
corri all’estremo abbraccio della luce,
corri tra alti abeti, corri,
non riposare a rivi calmi d’ozio,
non riposare.
Poderoso sogno,
disdegno soave,
sù guidami
per i campi sereni, lontano,
via dal borghese bolso !
Irrefrenabile sabba, irridente innito,
sù vorticheggia intorno all’igneo iddio, sù salta
fra gli artigli di risate ferine !
O Cibele !
Io ammiro l’occhio tuo,
riflesso di bronzei oceani, manto
d’autunno, bella fiera
della terra.
Antro muscoso,
stilla d’ombre vellute,
chioma di corimbi;
silente
annunci all’occidua attesa
dei coribanti il prossimo trionfo,
te onora
il coro dei misti.
Nel cielo ti ergi sul trono, o dea,
e poni il piede sacro
sovra il mare purpureo,
il tuo occhio onniveggente,
quale raggio di luna,
si profonda
nelle tetre lande
percorse dai venti freddi delle montagne.
Colà
si celebrano i sacrifici,
nelle profondità delle foreste, nelle caverne inviolate,
sulle rupi che sfidano la folgore,
tra gli scrosci della pioggia torrenziale che travolge
le balze buie e impetuosa
sgorga nei fiumi e fragorosa
si riversa in cascate di scoglio
in scoglio,
vorticosamente schiumante
sino al mare gelido e grigio !
O antico
che ti unisci alla Madre
con l’impeto della tua maestà selvaggia,
col coro tortuoso delle tue creste ardue e terribili,
o anguicrinito,
che serbi per te
tesori spaventosi,
colà,
con le tue acque date alle nubi,
ti dirigi e dilavi il suolo,
avido
di possederne nel tuo letto inviolabile.
Laggiù
s’accendono le torce che celebrano i Misteri,
tra i canti dei fedeli
e le coppe che di mano in mano danzano
spumeggianti del bruciante sangue di Bromio.
Evocano
dalle latebre dell’essere
la favilla di Prometeo,
l’ardore
del Titano indomito,
il fuoco
divoratore,
che schianta le tenebre
e scalda i bracieri e le speranze degli uomini.
Tu
sai che
terra ed acqua, aria e fuoco
è l’Uomo,
o Dioniso,
che canti alla danza delle Menadi;
soave
canti
quando dolcemente in ombra riposano
e quando Febo onnipotente folgora.
Tu
non hai
tempio,
o Divinità presente in ogni essere,
o tu che vivifichi i corpi ormai privi di luce,
tu che trascorri quale infuocata meteora
in tutto lo spazio infinito e nei sempre nuovi mondi,
o possente
fiaccola della vita eterna
su cui è velo lieve,
una parvenza,
la morte,
che è dolce risveglio in un mondo nuovo;
vieni a me
nella tua spaventosa bellezza,
o Dioniso
terribile,
onnisciente, onnipresente, onnipotente,
che io possa come una fiamma
correre sui fianchi dei monti sino alle vette,
ove sibilano i tuoi fulmini, dove infuriano i venti,
tuoi messi.
Sulle montagne
si respira l’alito degli dei,
sulle montagne
ho visto ascendere nel sole
il perfetto,
Zarathustra,
un mistero per gli uomini,
uno scandalo per gli abietti,
un senza dio per i ragni insidiosi;
ed egli si è volto
a me
e il suo occhio era un abisso,
e il suo urlo
l’urlo delle tempeste.
Ah, certo
come te ho dovuto
anch’io
affrontare l’acido ceffo degli ultimi uomini
e prendere la via difficile e penosa dell’esilio.
O Zarathustra,
o amico della mia giovinezza,
perché,
dimmi,
perché
m’hai abbandonato ?
Possente fiato del mare !
Sfrenata corsa dei flutti liberi !
O selve
sui fianchi neri delle montagne
inebriate dal sole !
Così
trascorse
la mia giovinezza nell’incanto
della vostra malia invincibile,
sulle colline fra gli uliveti,
sovra i muri dei campi,
tra pinete selvagge,
inebriate dal sole,
lo sguardo in alto al lento ruotare del falco
o all’erta invano
dietro la volpe furtiva.
Fra i canneti delle mie valli
ho talvolta sorpreso il fagiano,
elegante e ignobile quale un satrapo d’Oriente,
e ho scorto la fuga dei pesci d’oro
a fior dell’acqua verdastra delle cisterne.
E al vento di Libeccio ho visto fluire
fra i rami degli ulivi tremanti
la sua luce
come la chioma del sole,
la sua corsa
come respiro nell’ampia navata selvosa,
una musica di aneliti e di palpiti profondi,
e allora ho detto a me stesso :
“ Ecco,
io sono un ruscello tra i massi delle montagne
e vorrei colmare le tue mani
e vorrei
lambire le tue labbra
e vorrei placare
la tua sete.
Oh, Zarathustra,
ferma il tuo piede,
almeno
sosta a sentire il mio lamento,
non lasciarmi
trascorrere
a dissolvermi nel mare ! “
Oh,
perché non mi sono perduto nei rubri tramonti,
nel sangue
sparso dell’Oceano,
nella fuga ebra
del corsiero fluttuante quale onda
negra sovra il lido
luttuoso
o prua ratta
come dardo d’ebano !
Ma sono qui
e resto su questa terra
in cui s’annida un’immonda progenie,
nascosta al sole.
E si nutre di rancore, avida e vile.
E gode
del male altrui,
e piange spesso
di rabbia.
Oh,
certo l’esilio è amara sorte,
ma peggio
è vivere entro la terra
quali arvicole,
e non respirare
l’aria viva e non scaldarsi ai raggi del giorno.
Ché l’occhio dell’uomo
non vede
se non l’accieca
l’occhio del cielo,
se non si leva alla soglia socchiusa delle nubi.
Un tempo
udii un saggio che diceva :
“ E tu,
cinto di verde,
o mare,
rivestito di sole e di pioggia,
tu dai baci dolci e terribili,
forti come il vino,
i tuoi larghi amplessi
m’accolgano,
inebrianti come aromi,
dolorosi come tormenti.
Salvami
e occultami con le tue onde,
cercami
una tomba tra le mille tue
tombe,
quelle inviolate tombe gelide,
ma levigate senza mano
in un mondo senza macchia. “
Che il mio spirito
riposi nascosto
come i tesori nel tuo grembo,
o grande padre,
possente nelle tempeste e delicato amante,
specchio del cielo,
quando sei sereno.
Che il mio spirito
al pari del sole possa sorgere
dal tuo corpo infinito,
nell’ora in cui Dioniso chiami,
e possa cantare
la gloria e la vittoria del sublime Maestro !
Che il mio spirito
incontri il sole sul suo carro fervente nella corsa incessante
dei feroci corsieri di fiamma,
il giovane
sempiterno
cui nulla sfugge,
che scivola sulle onde e giunge negli abissi grevi e viola
gli antri tenebrosi
della Gran Madre !
Egli scorre sovra i giganti arborei
che popolano
gl’inaccessi dorsi delle montagne,
sovra
le rupi ove nidificano le aquile, dove
limpido è il cielo, dove
regna la Solitudine e il Silenzio.
Oh,
possa il mio spirito essere colmo
di quella Libertà,
che è Solitudine
e Silenzio,
e libero volo
per baratri azzurri e abbaglianti di purezza !
Io camminerò
per le tue vie, o cielo,
o mare,
libero e felice, vestito di verde e coronato
di spuma,
una vena delle correnti del mare !
E tu,
o Madre,
o puro amore,
le tue labbra sono amare,
ma è dolce il tuo cuore.
Tu sei
più antica della terra,
tu
troneggi sopra i cadaveri degli uomini.
Mi hai rivelato i segreti
degli abissi,
mi hai mostrato i doni
delle maree.
Vieni qui,
tu che eri in principio
e sarai alla fine,
sempre
col tuo Sposo,
vieni, o meravigliosa e superba Donna del mondo,
che governi il moto degli astri e fai tremare
le viscere della terra
e fai nascere e morire le stelle innumerevoli, e susciti
con lo scettro gli uragani e innalzi, braccia tese al cielo,
i flutti distruttori,
che sibilano e urlano ebbri
della tua bellezza.
Oh,
vieni a me tra queste selve
ridenti
nel fulvo abbraccio del sole,
vieni con il tuo respiro sacro
che solleva le foglie cadute, che agita
le fronde irrorate di linfa,
che inspira in tutta la foresta
un tremore di gioia !  

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