sabato 30 marzo 2013

Nemrod






Ricordava come Achille n’era inebriato, quando, offeso nell’orgoglio, aveva trafitto con la daga la restia e fredda Pentesilea. Quella era una vergine ostile, dal corpo di giovinetto, dallo sguardo invido di mala femmina, che lo aveva sfidato e n’era morta, sopraffatta, e vittima di colui che aveva stoltamente tenuto per preda. Immaginò che l’eroe l’avesse appesa per i piedi a un albero alto e le avesse reciso l’unico seno e avesse lasciato che il sangue colasse sul terreno fino a formare la melma. Quindi, liberata una muta di veltri famelici, avesse assistito al progressivo laceramento delle membra di lei, strappate dai morsi dei cani, e avesse osservato compiaciuto che da un vicino nido un nugolo di ronzanti vespe le s’appostava sul viso, ed entrava nelle nari e nella bocca e nelle orecchie e le divorava gli occhi.
E gli veniva anche alla mente, tratta dalla memoria di antiche letture, la perfidia dell’inumana Atalia, la figlia della malvagia Iezabel. Ella, in quanto figlia di Acab, re di Israele, era andata sposa a Ioram, figlio del re di Gerusalemme. E quando Ioram salì sul trono, ella divenne regina. E una superbia terribile s’impadronì di lei e divenne così gelosa del trono che non deponeva mai le insegne regali e s’intrometteva in ogni disegno della corte e in ogni piano di battaglia, e controllava i contabili della reggia e oziava nella sala del tesoro facendo scorrere tra le dita le gemme preziose e meticolosamente disponendo piramidi di monete d’oro.
E come la forza misteriosa, oscura del destino, fosse in qualche modo influenzata dalla sua ambizione, ella non condivise più ben presto l’autorità regale col marito, poi che il re venne a morte e a lei toccò la reggenza in nome del figlio.
E le intime cupidigie, quelle che non sogliono manifestarsi ma che si nutrono dei veleni nefasti che albergano nell’animo umano, aprirono agli eventi una via inaspettata e dolorosa all’apparenza, eppure tanto maggiormente ricca di soddisfazioni e di speranze raggiunte. Infatti morì anche Ocozia, il figlio regio.
Veramente il giovane Nemrod poteva meditare sulla insaziabile malizia della femmina, la cagna ignobile che guaisce e lambisce umile i piedi del padrone e latra ai deboli e morde spietata i reietti.
Quale incerta muove i passi invasati quando, già accolto il dio, la menade impazzisce, tale correva per la reggia agitata, forsennata, rosa dal dèmone dell’avarizia, la regina, con i segni della cupa follia in volto.
Indossando le vesti regali, ella si copriva di gioielli e di collane e di corone forgiate dalle mani dei più valenti artefici. Il volto le s’infiammava, le si mozzava il respiro. La prendeva una febbre che consumava a poco a poco le membra e bruciava il sangue nelle vene.
Ora alzava la voce inaspettatamente, gridava, ora lacrime improvvise rigavano le sue gote, ora sogghignava, ora assumeva figura d’ogni sentimento opposto. Un’ira, un desiderio feroce di liberarsi dalle angosce la invase in un’ondata di furore. Non pretese d’essere soddisfatta nei diritti principeschi e non meditò un piccolo o mediocre crimine, ma si gettò a capofitto nella strage immane.
E ordinò l’uccisione di tutti i maschi della stirpe di Davide, che potessero essere stimati legittimi successori ed eredi del defunto re.
Nei sotterranei del palazzo fece raccogliere i bambini e i giovinetti dannati e ad uno ad uno, nelle camere segrete, li eliminò, escogitando ogni forma di tormento, esaltandosi in macabri riti, ormai votata alle potenze infernali.
Né si limitava a torturare il corpo della vittima, ma per l’ebbrezza satanica volle far soffrire anche l’anima.
Quando l’innocente veniva appeso per essere impiccato e stava per esalare l’ultimo respiro, la regina ordinava di trarlo giù, all’improvviso accorrendo a lui da una stanza vicina, mentre aveva prima assistito da un pertugio alla scena, e così appariva quale ancora di salvezza e nobile dispensatrice di giustizia. Quindi prendeva il fanciullo sulle ginocchia e lo rianimava, lo consolava e lo compativa accorata e premurosa, mostrava con disprezzo i carnefici e diceva che presto lo avrebbe consegnato ai poveri genitori, e lo abbracciava e baciava lacrimando. E poi, quando il giovincello, riavutosi, smarrito per la gioia, le ricambiava l’affetto e le poneva, vinto dall’amore, la testa leggiadra sul seno, ella gli immergeva rapidamente un pugnale nella nuca e beveva il sangue che spicciava dalla vena.
Così ricordava il giovane principe e paragonava il proprio odio alla misoginia di Goya, e pensava all’uomo incatenato dai fantasmi dell’orrore, al pittore d’incubi nella Casa del Sordo, al corteo di donne ghignanti.
E in disparte, come già allo spagnolo, si mostrava la donna misteriosa sulla roccia, grave e meditabonda, distaccata, lontana, un enigma.
Il coro delle Parche nerovestite assillava la sua fantasia come quella dell’artista oppresso dall’angoscia della morte, le cui rimembranze, rivolgendosi agli anni felici, trasformavano i sorrisi e le bellezze delle giovani donne amate in ghigni e in orribili smorfie di vecchie vizze.
E ricordava la gentildonna in nero, dal gran nastro roseo sui crini ispidi, il cui viso guardava siccome immota e ambigua statua di cera.
E pensava a Fuseli tratto per mano da Lady Macbeth nell’inferno della fantasia, tra donne soffocate nel sonno o fra assassini inseguiti dalle Furie.
E la memoria lo attrasse nella corrente sinfonica del musico Bruckner, che lo incantava talora più di altri maggiori. In un viaggio senza meta si sentiva trasportare, in una dolce ondata di malinconia. E alternandosi i momenti di abbandono sentimentale al vigore, alla forza maestosa che interpretava la lotta incessante, universale, egli si smarriva in un labirinto, in un mondo irreale, ma assai più autentico di quello in cui vivono le ombre sicure degli uomini, un mondo di impeti ciechi e funesti, di esaltazioni sublimi, di vera vita.
Nel nostro cuore è il paradiso e l’inferno, nella nostra fantasia i mondi perduti tra le stelle, e i sonni ci fanno vivere migliaia di esistenze. Che cos’è la realtà se non un attimo che si dissolve nella coscienza ?
E scorse verso l’orizzonte le tenebre farsi prossime, e udì un rombo sordo, lontano.
Chi sei tu che porti il giorno, chi sei tu che rechi la notte, che sollevi i venti, che disperdi le nubi, che incessantemente ti muovi, Dio ?
Lo riprese l’ossessione di Lady Macbeth e delle streghe della landa, e presentì che con le prossime tenebre si dovevano rinnovare i riti oscuri, cari ad Ade. Come nel quadro di Fussli sarebbe ancora apparso l’inviato d’oltre mare, l’inviato dell’Occidente, a condurre via nell’impeto del galoppo l’anima sacrificata.
Una fiamma bianca subito varcò l’estremo limite occiduo. Udì un nitrito al pari d’un tuono empire lo spazio e quasi schiantare le ombrose nebule della notte. Un cavallo candido correva sopra le acque prodigiosamente con l’empito degli otto zoccoli, levando nugoli di spuma. Sleipnir correva a lui sopra le acque, e la terra sembrava ritrarsi, impaurita. Doveva venire il grande Odin.
Doveva rivelarsi, prima o poi, il dio. Doveva rivelarsi al suo spirito il dio terribile, il dio dominatore, che percorre i campi di battaglia, Ares insaziabile, che favorisce la lotta, Dioniso, creatore e distruttore, cui è debitore il cosmo dell’incessante divenire, Colui Che crea senza fine, il Supremo Artefice, proteso nella corsa infinita.
Il grande cavallo bianco arcava il dorso e irrigidiva e scuoteva furente il forte collo e i crini della giuba erano bagliori di luce astrale e gli occhi due neri soli in cui si perdeva l’infinito.
E al principe venne alla mente il gran carro del sole, sul quale Apollo, guidando i cavalli infuocati, vinse il mostro degli abissi, il serpente Pitone. Apollo afferrò l’arco e diresse l’infallibile freccia nella gola di Pitone, e vinse, il lungisaettante. E intorno precipitavano dal cielo i demoni malvagi e si nascondevano negli elementi inferiori, e fuggivano atterriti il lume accecante.
Ma come volse la vista all’ombra del promontorio, ecco un altro cavallo, nero, nitrire disperatamente, e sulla groppa un uomo nudo legato da corde, sanguinante, il volto lacerato dai giorni, la bocca arsa dalla sete. E galoppava a rotta di collo giù dal promontorio tra i pini e i cespi di ginestra, e smuoveva i sassi sotto gli zoccoli, sollevando la polvere.
Il corsiero nutrito d’erbe marine si precipitava nello spazio immenso, verso l’interminabile orizzonte.
Ed ecco su fumanti destrieri seguire l’esercito dei giovani eroi, impetuosi nella corsa funesta tra le onde sterili e il vasto manto arido delle sabbie, quale muta ansimante di veltri dietro una preda che trascina nell’insidia.
E il prigioniero della bestia gigantesca si torceva nei morsi delle corde insanguinate e alzava le pupille nere velate di rosso pianto al cielo violaceo venato di effusioni d’oro e di vaste frange scarlatte.
E seguitavano i giovani guerrieri, pronti a procombere sotto i dardi dell’infallibile arciere, del fato ineluttabile.
Le sabbie svanirono, all’improvviso, in una voragine, nascosta dalle ombre della notte imminente, una larga fenditura nella roccia, spalancata quasi una bocca. La quale tutti accolse in un tumulto inaudito, e lo scalpito continuò ad echeggiare nel grembo della terra, come un tuono nel cielo.
Le onde riversarono i cadaveri sul litorale. Grossi stormi di gabbiani voraci immersero il becco nelle orbite, nel costato, nel molle ventre. Il fetore ammorbava l’aria, e i topi s’incoraggiarono e s’avvicinavano alla riva.
E, sullo spettacolo di quella miseria, ascendeva la luna, calma, radiosa, impassibile. E la luce sua avvolgeva candidamente i corpi smembrati e i divoratori intenti a strappare e a rodere le carni, i grigi topi crudeli e gli avidi gabbiani nutriti dei rifiuti del mare.
E oltre l’orizzonte il sole scompariva definitivamente. E andava a illuminare un altro mondo, correndo nella corsa infinita, e andava a illuminare nascite e morti e volti addolorati e volti pieni di speranze. E roteava nello spazio senza confini, l’immane globo di fuoco, e intorno ad esso i globi ignei degli astri precipitavano, precipitavano nella notte senza fine.
E la luna calma, radiosa, impassibile illustrava l’incedere maestoso d’una donna mitrata che nella destra reggeva il loto, nella sinistra lo scettro, ed era ignuda, fuor che le spalle coronate da un manto ceruleo segnato di rabeschi d’argento. Due negre pantere erano ai lati, mostranti le candide zanne nelle fauci ignite.
E di nuovo, sul lido, correva il grande cavallo bianco, divino. I suoi occhi lucevano nella notte stellata come nere gemme.
E le pantere si lanciarono a inseguirlo. Ombre rapide e furtive di sicarii, esse balzavano nella notte senza rumore, ma s’intravedeva il digrignare d’avorio e gli occhi parevano guizzanti fiammelle. Con un ruggito si gettarono sulla preda raggiunta, ed iniziarono l’aspra contesa.
Il corsiero s’inarcò sopra le zampe possenti, menando con gli zoccoli anteriori colpi mortali che fendevano l’aria quali cozzi di maglio.
Ansimando per le froge umide mordeva lo spiro marino, che scoteva i crini e la coda fluente. Le pantere saltando sul dorso gli laceravano con gli artigli l’ampia schiena muscolosa, e rivoli di sangue escivano, ed erano assorbiti dalla sabbia come un caldo ruscello. Ma il cavallo gigantesco ergendosi nella sua forza le ributtava, scaraventandole con furia nella polvere. Esse tornavano ad attaccare più maligne e crudeli, ruggendo d’ira e di scorno.
Oppresso dai ripetuti assalti il destriero fu travolto e cadde in una nube di sabbia. Le pantere si slanciarono per sgozzarlo, ma esso le involse nel turbine sollevato dal vasto corpo.
Confusi nella mischia i tre animali sembravano un unico organismo che ruotasse su se stesso, spargendo un polverio fitto, come una cortina di nebbie.
Si rizzò infine il corsiero spaventosamente grande e luminoso, un nume uscito dalla terra, le orbite erano globi di fuoco e dalla bocca scaturiva il vapore intriso di minutissime gocce di sangue pompato da un cuore impazzito.
Liberatosi, in una corsa cieca e disfrenata maciullò con gli zoccoli le sabbie del lido e, allontanandosi, sparve nella notte come un fantasma o una forma vaga e fluorescente.     

      


Nessun commento:

Posta un commento