sabato 20 luglio 2013

Tramonto




Una casa d’antica pietra era protetta da fronzuti pini silvestri, che ondulavano agli sbuffi dell’aria della sera. 
Entro era una donna bella ed alta ed aveva un viso triste come avesse perduto per sempre un incanto di sogni e di gioia, e guardava attraverso la finestra, che scintillava di riflessi ramati. Osservava il sole che digradava dietro le montagne nere, e il pendìo delle giogaie che ancora si bagnava di quell’effuso spirituale, face annunziatrice delle tenebre.
E com’ella mirava, udì uno scalpito e nitriti approssimarsi dallo stradone di ponente, e vide tre possenti corsieri neri dalle onde di crini rabbiosi e dagli occhi arsi. Essi traevano una carrozza snella di legno ebano e, poi che giunti furono dove era stato loro ingiunto, s’arrestarono.
Ed ella, uscita di casa, salì nel cocchio, che era tappezzato di velluto rosso ed aveva sul sedile un mazzo di rose che profumavano e blandivano, ed una musica bacchica suggerivano l’impeto e il moto dei cavalli che presero l’abbrivo quasi su magiche note.
E, mentre contemplava la fuga degli alberi e dei monti, il sonno la cinse e la rapì nella terra dei sogni.
E le parve di salire il pendìo d’una montagna, al chiarore lunare, sotto un limpido cielo brillante di astri, e di seguitare il richiamo sulla cima d’un insistente lucore, che sembrava una stella scesa dagli spazi infiniti.
E sulla vetta era un altissimo palazzo non di pietra squadrata, né di mattoni o di travi, ma cresciuto dalla roccia stessa quasi propaggine o stalagmite, e rifrangeva l’effluvio lunare quale cristallo.
V’era un portone a due battenti, tutto di diamante, e, aperto, un tempio marmoreo e niveo l’ammise ai suoi segreti.
Frotte di bimbi trotterellanti con trilli di gioia infantile le vennero incontro tra le colonne e, presala per mano, la guidarono all’abside.
Quivi una luminosità azzurra rivestiva le rocce d’un presepe. Su un lettino di stelle alpine, ai piedi d’un albero di natale, era un bambino biondo e splendente d’un sorriso radioso che illuminava la navata. Sotto di lui si prolungava un rivo di rose rosse e sopra di lui irraggiava una cometa una luce pallida e mistica.
Un bimbo la condusse al fonte battesimale. Ella fermò il viso sull’acqua immota, ma come attraverso una lastra vitrea, scorse un fortissimo bagliore.
Il rombo d’un disco incandescente, d’un sole accecante per poco non la tramortì. L’astro roteando precipitava ad indescrivibile velocità verso un mare notturno senza confini. L’oceano di tenebre era sconvolto dalle tempeste e terribilmente mugghiava sollevando cavalloni lividi e lacerandosi in gole vorticose.
Quando il sole cadde nelle acque nere, un’esplosione spaventosa corse per l’infinito abisso.
Il mare ribollì d’una luce verde, i flussi si scissero, si frantumarono, cozzarono fra loro crestati, cresciuti sui venti contrari che li alzavano ad altezze vertiginose.
E da quel grembo immenso scaturì un destriero candido, che volò sugli zoccoli fatati per la superficie delle correnti, e il suo innito echeggiava nel cielo.
Ella si destò dal sogno. E s’accorse che la carrozza proseguiva a gran lena verso le regioni d’occidente e i cavalli galoppavano e scuotevano i colli forti sui quali la criniera fluttuava. 
















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