Una casa d’antica pietra era protetta da fronzuti pini
silvestri, che ondulavano agli sbuffi dell’aria della sera.
Entro era una donna bella ed alta ed aveva un viso triste
come avesse perduto per sempre un incanto di sogni e di gioia, e guardava
attraverso la finestra, che scintillava di riflessi ramati. Osservava il sole
che digradava dietro le montagne nere, e il pendìo delle giogaie che ancora si
bagnava di quell’effuso spirituale, face annunziatrice delle tenebre.
E com’ella mirava, udì uno scalpito e nitriti approssimarsi
dallo stradone di ponente, e vide tre possenti corsieri neri dalle onde di
crini rabbiosi e dagli occhi arsi. Essi traevano una carrozza snella di legno
ebano e, poi che giunti furono dove era stato loro ingiunto, s’arrestarono.
Ed ella, uscita di casa, salì nel cocchio, che era
tappezzato di velluto rosso ed aveva sul sedile un mazzo di rose che
profumavano e blandivano, ed una musica bacchica suggerivano l’impeto e il moto
dei cavalli che presero l’abbrivo quasi su magiche note.
E, mentre contemplava la fuga degli alberi e dei monti, il
sonno la cinse e la rapì nella terra dei sogni.
E le parve di salire il pendìo d’una montagna, al chiarore
lunare, sotto un limpido cielo brillante di astri, e di seguitare il richiamo
sulla cima d’un insistente lucore, che sembrava una stella scesa dagli spazi
infiniti.
E sulla vetta era un altissimo palazzo non di pietra
squadrata, né di mattoni o di travi, ma cresciuto dalla roccia stessa quasi
propaggine o stalagmite, e rifrangeva l’effluvio lunare quale cristallo.
V’era un portone a due battenti, tutto di diamante, e,
aperto, un tempio marmoreo e niveo l’ammise ai suoi segreti.
Frotte di bimbi trotterellanti con trilli di gioia infantile
le vennero incontro tra le colonne e, presala per mano, la guidarono
all’abside.
Quivi una luminosità azzurra rivestiva le rocce d’un
presepe. Su un lettino di stelle alpine, ai piedi d’un albero di natale, era un
bambino biondo e splendente d’un sorriso radioso che illuminava la navata.
Sotto di lui si prolungava un rivo di rose rosse e sopra di lui irraggiava una
cometa una luce pallida e mistica.
Un bimbo la condusse al fonte battesimale. Ella fermò il
viso sull’acqua immota, ma come attraverso una lastra vitrea, scorse un
fortissimo bagliore.
Il rombo d’un disco incandescente, d’un sole accecante per
poco non la tramortì. L’astro roteando precipitava ad indescrivibile velocità
verso un mare notturno senza confini. L’oceano di tenebre era sconvolto dalle
tempeste e terribilmente mugghiava sollevando cavalloni lividi e lacerandosi in
gole vorticose.
Quando il sole cadde nelle acque nere, un’esplosione
spaventosa corse per l’infinito abisso.
Il mare ribollì d’una luce verde, i flussi si scissero, si
frantumarono, cozzarono fra loro crestati, cresciuti sui venti contrari che li
alzavano ad altezze vertiginose.
E da quel grembo immenso scaturì un destriero candido, che
volò sugli zoccoli fatati per la superficie delle correnti, e il suo innito
echeggiava nel cielo.
Ella si destò dal sogno. E s’accorse che la carrozza proseguiva
a gran lena verso le regioni d’occidente e i cavalli galoppavano e scuotevano i
colli forti sui quali la criniera fluttuava.
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