Gabriele
D'Annunzio, Sogno d'un mattino di primavera, 1897
Poema
tragico
Scena
III
Isabella,
da tempo preda della follia, si nasconde nella fronda di un albero.
L'immagine suscita il ricordo della più nota poesia dell'Alcyone
( 1903 ), “ La pioggia nel pineto “.
La
demente:, (risollevandosi.)
Sì, sì... Nitrisce dietro di loro che s′allontanano... Guardate,
guardate, dottore, se Isabella e la pianta sono una cosa sola. (Ella
corre all′arbusto d′arancio che il sole già tocca. Mette il
capo tra la fronda. Volta verso il vecchio, con le mani poggiate
all′orlo del vaso, tenendo nell′una e nell′altra mano le
estremità di due rami, ella li curva e li incrocia intorno al suo
collo. Rimane così mista alla verdura, col volto quasi coperto.
Nell′atto le larghe maniche della veste si ripiegano verso
l′ascella, lasciando nude le braccia sino al gomito.)
Il dottore:
Una cosa sola.
La demente: Vedo verde, come se le mie palpebre fossero due foglie trasparenti. Tutte le nervature delle foglie traspariscono contro il sole. I fiori stanno per sbocciare: sembrano tante piccole ampolle mal chiuse che lascino sfuggire il profumo. Oh, una piccola foglia, quasi su la mia bocca! È lucida; sembra involta di cera; sembra che il mio alito la strugga... Com′è tenera! Com′è dolce! La sento su la mia lingua come un′ostia...
Panteismo
e niccianesimo :
Virginio:
(come sentendo risalire nelle sue
vene l′ebrezza caduta.) Ad ognuno sembra d′essere sul
punto di rapire, in un modo misterioso, il segreto della bellezza e
della gioia... Voi siete qui come in un chiostro; voi non potete
comprendere. Io mi son levato all′alba, su la collina, quando le
stelle palpitavano ancora nel cielo. Ho veduto, nella valle ancora
immersa nell′ombra, il fiume farsi tutto roseo come se l′aurora
vi si bagnasse: infinito e intimo come se circondasse e alimentasse
l′anima mia. Ho bevuto nel vento gli spiriti ebri di tutte le cose
che si rinnovellano e, sotto le mille melodie dei nidi, ho udito il
respiro profondo e santo della Madre che nutre i fili d′erba e i
nostri pensieri. Tutto il dolore e tutto il desiderio si
convertivano, entro di me, in una forza indicibilmente alacre e
audace. E io incitavo senza tregua il mio cavallo verso una méta che
io non sapeva se fosse entro di me o ai confini del mondo. E le
figure immobili e fosche della vita trascorsa si coloravano d′un
bagliore prodigioso, irriconoscibili come le statue nell′incendio
d'un tempio. E nessun orrore di quella morte era in me, che anzi essa
m′appariva bella come una immolazione su un altare per me
inaccessibile; e tutto il sangue profuso rifluiva nelle mie vene,
gonfiava il mio cuore fraterno, per riamare, per riamare d′un amore
più puro e più lontano...
L'ultima
scena, dove Isabella rievoca l'evento tragico della morte di
Giuliano, l'amante ucciso sopra di lei, nel suo letto, ricorda il
Liebestod del “ Tristan und Isolde “ di Wagner.
La
tragedia evoca un quadro preraffaellita ed è molto più sobria del
Sogno d'un tramonto d'autunno ( 1898 ), caratterizzato invece
da un'asiana enfasi da tragedia senecana ( per la coloritura sadica è
presente l'influsso di Swinburne ).
Vedi
la morte del vecchio Doge, ucciso dalle pratiche magiche della
Dogaressa Gradeniga :
(
Monologo della Dogaressa che si rivolge idealmente all'amante )
Tu,
tu chiamavi la morte nel nostro
piacere.
Ma io pregava il mare che ci nascon-
desse,
che ci prendesse nel suo segreto, che
ci
portasse su la sua forza. Io gli gittavo le mie
cinture,
ancóra tiepide della mia vita, quando
vedevo
dalla finestra un bel naviglio partirsi
verso
i paesi degli aromi... Tu, tu partisti solo,
tu
attraversasti il mare per chiamare la morte!
E
tu mi tornasti con quella maga di Schiavonia,
con
quella che sa far morire di lontano...
(Proferite
lentamente le ultime parole, ella resta
pensosa
con gli occhi fissi in un’imagine funesta,
con
un’espressione crudele nelle labbra socchiuse.)
Esperta
era quella schiavona... Con due libbre
di
cera ella foggiò l’imagine. Ella mi chiese
un
dente del vecchio, tre gocce del crisma,
un’ostia
consacrata. E io le diedi queste cose,
ed
ella le mise dentro la cera... Ah questo io
feci
per te, per te, per vederti dormire sul mio
guanciale!
La cera aveva l’odore dell’inferno. E
io
stessa tagliai nel manto del Serenissimo un
lembo
per vestire l’imagine somigliante... La
cera
aveva l’odore dell’inferno, struggendosi,
quando
io l’avvicinavo al fuoco... E il vecchio
si
faceva ogni giorno più scarno e più bianco
e
più fievole... Perfino la grande cicatrice si
scolorì
su la sua fronte, diventò invisibile...
Nelle
cerimonie, egli non poteva più sostenere
il
peso del suo broccato. Ah tutto egli si con-
sunse,
tutte si votarono le sue vene; e nessuno
seppe
dove andasse il suo sangue. Quando
spirò,
sul seggio, egli era come una reliquia in
una
custodia d’oro. Disse
Amen
e
mi guardò;
e
io travidi nella sua bocca disseccata il cavo
della
gengiva donde era caduto il dente... Il suo
sguardo
veniva dai fori del suo teschio, da una
profondità
terribile... Ah questo, questo io feci
per
te! Discesi con quel cadavere e con quel
peccato
dal mio trono per venire a te, per darti
i
miei giorni e le mie notti, per mescolarmi alla
tua
vita come l’anima è mescolata alla carne,
per
essere in te come il respiro è nel tuo petto.
Questo
io feci per te, e tu m’hai amata, tu m’hai
amata.
Tu ti sei nutrito di me come d’un grap-
polo;
tu ti sei satollato della mia dolcezza fino
alla
gola, fino agli occhi. Tu m’hai veduta bella;
tu
hai trovato sul mio corpo l’ambra e la perla;
tu
m’hai sfogliata come un fiore numeroso. Le
mie
trecce odoravano, per te, di mare e di mirra
come
le corde d’un naviglio carico di profumo.
(Una
pausa. Ella si tocca i capelli, le gote, il mento,
con
un gesto vago.)
E
d’improvviso, dunque, il mio volto è morto
per
te come la foglia che muore in un giorno?
Pure,
il tuo soffio è ancor caldo nel mio collo
nudo...
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