γῆς
ἱδρῶτα θάλασσαν
Empedocle
Sudore
della terra rombava il mare,
un
profondo respiro si placava
sulle
arene e le rive scoscese,
risonava
notturno e greve di scirocco.
E
fra le fronde cupree s'addensava
la
chioma folta di Febe,
sull'amata
anima si reclinava alata.
Nel
vasto giardino esalava
l'umido
profumo dell'erba
e
il rosmarino e la fronda carca
degli
aranci, l'ansimo dei venti
si
destreggiava tra ritorti rami.
Un
suono lontano si frangeva
naufrago
del lontano Oceano,
nostalgico
aroma di sirene.
Occhi
chiusi, portavo il divino morbo d'Estate
nel
chiuso seno di sogni,
sacerdote
errante di chimere,
entravo
estatico in un duomo vitreo
di
scaglie loquaci fra mille riflessi
di
flessuosi arabeschi su acque lustrali,
torri
si levavano al cielo guglie
eburnee
come su rapide rampe
una
voce levitava in volute d'incensi,
sopra
la massa nera delle mura
cupide
del buio roteava nella danza
nei
veli cangiante per antri
sibillini,
sortita da giardini
d'ametista.
Nell'onda,
nell'acqua amara
colsi
allora il segreto sapore
della
vita fugace. Liquore
offerto
alle bocche senza pace
a
saziarsi di divine vocitanti
icone,
profezie intese ad evocare
la
fine. Ma il mare
si
perdeva ansietato, tumido, immenso
nei
vorticosi pensieri, il fato
m'illudeva
ancora, la vista
s'intorbidava
nel gurgite convulso.
Il
mulso bevvi salino
e
mi vidi ai piedi della vergine
di
Febo, predata nello spasmo dell'oracolo.
Sospiravano
le foglie degli allori
al
presente mistero del dio,
lunghe
branche nere si protendevano
adoranti,
la fonte scorreva
limpida,
verde come il mare.
Verdi
rifulsero gli sguardi
della
Pitonessa, quale raggio riluce
entro
l'acque sul fondo.
Immerso
ero allora
nel
grembo di Tetide,
come
nell'Egeo sferzato
dai
venti orientali. E m'immersi allora
nella
profonda notte
e
nel silenzio udivo la voce del mare.
La
voce profonda dell'Essere
ascoltavo
attonito
quasi
senza vita,
immoto
e disperso nell'Oscurità.
E
fui ai piedi della vergine
e
udii la voce sua fluire come aura
fra
l'onda delle foglie inquiete,
ma
era un suono solo, un'unica parola
che
assordava il silenzio.
E
udivo poi il clamore delle valli suonanti,
delle
masse tumultuanti
emergere
dal fango delle tane
ciclopiche,
dove una genìa di ciechi
brancola
in una gabbia d'oro,
e
caddi ai piedi della vergine
nel
pianto della rabbia.
E
il pianto si mutava intorno
in
una fonte amara e l'acqua ancora
mi
cingeva del mare,
in
un turbine, in un gorgo
correvo
rapito, lieve fuscello,
dalla
tempesta del dio,
di
misteriose parole il rombo
crosciava
alla luce spumeggiando,
crepitando
quale fiamma
sull'ara
sacra.
E
il respiro del mare infinito, onnipossente,
colmava
la vasta terra dormente
sotto
il manto disegnato di stelle,
nell'ampio
braccio del mare
abbandonata,
immota, silente.
E
nel respiro del mare si fondeva il mio respiro
sulla
soglia della casa notturna,
si
placava la mia vita
nella
sua vita eterna.