mercoledì 17 agosto 2016

Come il respiro del mare

γῆς ἱδρῶτα θάλασσαν 

Empedocle





Sudore della terra rombava il mare,
un profondo respiro si placava
sulle arene e le rive scoscese,
risonava notturno e greve di scirocco.
E fra le fronde cupree s'addensava
la chioma folta di Febe,
sull'amata anima si reclinava alata.
Nel vasto giardino esalava
l'umido profumo dell'erba
e il rosmarino e la fronda carca
degli aranci, l'ansimo dei venti
si destreggiava tra ritorti rami.
Un suono lontano si frangeva
naufrago del lontano Oceano,
nostalgico aroma di sirene.
Occhi chiusi, portavo il divino morbo d'Estate
nel chiuso seno di sogni,
sacerdote errante di chimere,
entravo estatico in un duomo vitreo
di scaglie loquaci fra mille riflessi
di flessuosi arabeschi su acque lustrali,
torri si levavano al cielo guglie
eburnee come su rapide rampe
una voce levitava in volute d'incensi,
sopra la massa nera delle mura
cupide del buio roteava nella danza
nei veli cangiante per antri
sibillini, sortita da giardini
d'ametista.
Nell'onda, nell'acqua amara
colsi allora il segreto sapore
della vita fugace. Liquore
offerto alle bocche senza pace
a saziarsi di divine vocitanti
icone, profezie intese ad evocare
la fine. Ma il mare
si perdeva ansietato, tumido, immenso
nei vorticosi pensieri, il fato
m'illudeva ancora, la vista
s'intorbidava nel gurgite convulso.
Il mulso bevvi salino
e mi vidi ai piedi della vergine
di Febo, predata nello spasmo dell'oracolo.
Sospiravano le foglie degli allori
al presente mistero del dio,
lunghe branche nere si protendevano
adoranti, la fonte scorreva
limpida, verde come il mare.
Verdi rifulsero gli sguardi
della Pitonessa, quale raggio riluce
entro l'acque sul fondo.
Immerso ero allora
nel grembo di Tetide,
come nell'Egeo sferzato
dai venti orientali. E m'immersi allora
nella profonda notte
e nel silenzio udivo la voce del mare.
La voce profonda dell'Essere
ascoltavo attonito
quasi senza vita,
immoto e disperso nell'Oscurità.
E fui ai piedi della vergine
e udii la voce sua fluire come aura
fra l'onda delle foglie inquiete,
ma era un suono solo, un'unica parola
che assordava il silenzio.
E udivo poi il clamore delle valli suonanti,
delle masse tumultuanti
emergere dal fango delle tane
ciclopiche, dove una genìa di ciechi
brancola in una gabbia d'oro,
e caddi ai piedi della vergine
nel pianto della rabbia.
E il pianto si mutava intorno
in una fonte amara e l'acqua ancora
mi cingeva del mare,
in un turbine, in un gorgo
correvo rapito, lieve fuscello,
dalla tempesta del dio,
di misteriose parole il rombo
crosciava alla luce spumeggiando,
crepitando quale fiamma
sull'ara sacra.
E il respiro del mare infinito, onnipossente,
colmava la vasta terra dormente
sotto il manto disegnato di stelle,
nell'ampio braccio del mare
abbandonata, immota, silente.
E nel respiro del mare si fondeva il mio respiro
sulla soglia della casa notturna,
si placava la mia vita
nella sua vita eterna.






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