Giovanni
Papini, Dante vivo, Firenze, 1933, Libreria Editrice
Fiorentina
Finalmente
un'opera su Dante basata sulla sensibilità personale dell'interprete
!
Belle
pagine quelle dove (nei primi due capitoli) si cerca di umanizzare la
figura di Dante e di restituirci l'uomo nella sua interezza, non
soltanto l'icona ieratica del poeta paludato.
L'analisi
senza remore dell'animo di Dante è alla base di questo saggio
scritto con uno stile (soprattutto all'inizio, poi verso la fine
diventa un po' barocco) sobrio, semplice e chiaro, senza reticenze,
con spirito di fiorentino verace. Con profonda intuizione, senza
timori reverenziali e bigottismo accademico, Papini coglie l'impulso
creativo dell'uomo :
Al
pari d'ogni grande opera quella di Dante è una risposta, cioè
la manifestazione d'una volontà di sopperire, col pensiero e
coll'arte, a un'assenza, a una deficienza, a una carenza
dell'esistenza ordinaria e temporale. Un senso d'insopportabile
mediocrità è il terreno di partenza per giungere alla grandezza.
All'umiltà del destino gli eroi intellettuali rispondono colla
magnificazione dell'opera. E perciò bisogna tener presenti i tre
paradossi dell'anima dantesca. (p. 47)
Quali
siano i paradossi lo dice subito dopo, ma l'impulso fondamentale alla
creazione fu offerto dalla volontà di riscattarsi da una sofferta
umiliazione terrena a un'elevazione irresistibile dello spirito e a
una purificazione nell'arte.
P.
57-58, parlando dell'utopia politica di Dante, cioè dell'Impero
universale, Papini (siamo nel 1933 !) anticipa l'idea dell'unione
europea in un solo organismo retto da leggi comuni o tramite la
conquista da parte di uno Stato più potente degli altri o grazie
agli accordi tra gli Stati. In questo senso il pensiero politico di
Dante si mostra quanto mai moderno.
P.
74, dopo aver parlato della nascita e dei genitori di Dante, morti
nella sua infanzia, Papini mostra attraverso i versi della Commedia
come fosse forte nel poeta il bisogno di quell'affetto mancatogli
appunto nei primi anni della vita. La stessa amatissima Beatrice fu
forse per lui più il simbolo della madre perduta che una figura
d'amante desiderata, e questo giustificherebbe il perdurare negli
anni della devozione verso di lei.
Cap.
IX, p. 76. Interessante l'indagine di Papini sull'amore di Beatrice
per Dante. Ci fu o non ci fu ? Anche solo a limitarsi all'analisi
degli incontri nella Vita nuova, appare chiaramente che
Beatrice non corrispose all'amore di Dante, fu lusingata dalle sue
lodi ma non capì e non accettò affatto l'amore di lui. D'altronde
era sposata. Altrimenti Dante avrebbe, coerente e rigoroso come era,
dovuto metterla all'Inferno, insieme a Francesca da Rimini. Allora
perché la celebrò al punto da quasi deificarla ? Questo rimane un
mistero.
Cap.
X, p. 86. Circa il peccato di sodomia di Brunetto Latini Papini
avanza molti dubbi perché sia nel Trésor che nel Tesoretto
Latini condanna aspramente la sodomia né si hanno testimonianze
contro di lui se non il solo canto XV dell'Inferno. Perché
Dante lo accusa ? Forse per esperienza diretta ? Eppure il suo
contegno nei confronti dell'uomo politico e maestro di eloquenza è
improntato al massimo rispetto. Questa collocazione tra i sodomiti
appare quindi abbastanza incomprensibile e certo misteriosa.
Cap.
XI, p. 100. Riguardo all'amicizia con Guido Cavalcanti l'autore
sostiene la tesi che l'espressione della Vita nuova “primo
delli miei amici” si debba intendere rispetto al tempo e non nel
senso di un primato nei confronti di altri. La differenza d'età fra
i due doveva essere accentuata e si presume che nella vita politica
non ci fosse molto accordo, dal momento che a un certo punto Dante in
qualità di priore lo manda in esilio a Sarzana, fra l'altro a morire
di malaria.
Il
disdegno di Guido nella Commedia (Inf. X, 61-63) viene
interpretato d'accordo con molti critici nei confronti di Beatrice,
simbolo della teologia. A mio parere (nonostante le cervellotiche
divagazioni del Sapegno) è evidente che viene riferito a Virgilio,
autore del viaggio di Enea agli inferi in compagnia della Sibilla. Il
fatto che Cavalcanti fosse ateo lo rende sia nemico di un pagano che
narra dell'al di là che del simbolo cattolicissimo della teologia.
Nel
cap. XII trattando della battaglia di Campaldino e di Dante soldato
l'autore accoglie l'illazione dello Zingarelli secondo la quale Dante
avrebbe ucciso nella battaglia Buonconte di Montefeltro e poi, per
risarcirne la memoria, lo avrebbe ricordato nel Purgatorio. La
tesi appare verosimile, anche se povera di fondamenti.
Cap.
XIII, influenza sul pensiero di Dante di frate Remigio Girolami,
lettore di teologia in Santa Maria Novella. L'Alighieri mostra di
aver letto i suoi scritti perché “il principio del Convivio
è quasi letteral traduzione d'un prologo di Remigio sulla scienza e
una parte dell'invettiva di San Pietro nel Paradiso echeggia
un concetto esposto da Fra Remigio nel suo commento al Cantico dei
Cantici.” (p. 115)
P.
116, un altro pensatore che il poeta fiorentino ascoltò negli anni
della giovinezza fu il francescano Pier Giovanni Olivi, seguace di
Gioacchino da Fiore e sostenitore quindi dell'imminente venuta della
nuova età dello Spirito Santo :
Se
la Commedia è, nel suo fondo e nella sua struttura teologica,
tomista il suo afflato profetico, espresso in misteriosa forma, è
gioachimita.” (p. 117)
Cap.
XIV, p. 122, trattando della tenzone con Forese Donati, Papini
fornisce anche notizie sul padre di Dante, Alighiero, confermate dai
documenti. Anche l'opera recente di Alessandro Barbero (Dante,
Bari, Laterza, 2020) conferma sulla base di documenti d'archivio
l'attività di prestatore di Alighiero, una tradizione di famiglia
perché anche il nonno Bellincione prestava denaro e così il
fratello di Dante, Francesco.
Cap.
XV, le notizie sulla vita politica di Dante e sulle cause del suo
esilio sono confermate dall'opera documentata di Alessandro Barbero,
salvo l'ambasceria presso la corte di Bonifacio VIII che da Barbero è
posta in forse.
Cap.
XVII, p. 146. Si mette in dubbio tra i viaggi di Dante quello a
Parigi che invece viene ritenuto probabile da Barbero.
Le
considerazioni dei capitoli seguenti sono piuttosto peregrine e non
molto interessanti, basate come sono sul supposto carattere di Dante,
sulla sua superbia ecc. Tutte cose vere ma evidenti al lettore delle
opere dell'Alighieri. Si desidererebbe un'indagine più approfondita.
P.
226, cap. XXV, definisce la Commedia come l'annunzio di una
palingenesi, d'un rinnovamento dell'umanità, ma non individua la
fonte dottrinale a cui Dante ha attinto per il suo messaggio. A
questo riguardo costituisce un'indagine ben più profonda l'opera di
René Guénon, L'esoterismo di Dante.
Interessante
il cap. XXVIII, “Dante crudele”. La rassegna degli atteggiamenti
del personaggio Dante nell'Inferno nei confronti di molti
dannati sottolinea la mancanza di compassione del poeta e un
compiacimento quasi sadico nell'incrudelire nei loro confronti.
Indubbiamente sono molte le contraddizioni morali di Dante nella sua
opera, ma Papini forse pretende troppo, vorrebbe un Dante
perfettamente coerente con il Vangelo, quasi fosse una specie
di fra' Cristoforo, ma in questo caso probabilmente la Divina
Commedia risulterebbe un poema melenso pieno di buone intenzioni.
Tralascio
il cap. XXXI sull'atteggiamento di Dante verso la povertà, ispirato
a un moralismo da manuale e mi soffermo invece sul cap. XXXII, “Le
due Veneri”, dove si danno notizie sugli amori veri o presunti del
sommo poeta. E' indubbio che all'Alighieri piacessero le belle donne,
ma forse qui si esagera ad attribuirgliele come fossero sue amanti.
In un documento lucchese è stato scoperto un altro figlio di nome
Giovanni e a detta dell'Imbriani poteva esserci stata una tresca con
la cognata Pietra, moglie del fratello Francesco. Ma questa è
un'ipotesi che Papini cita senza prenderla in considerazione.
Il
cap. XXXIII, “La deificazione di Beatrice”, pone delle domande
abbastanza ovvie ma che ormai pochi si pongono, dando per scontate le
risposte. Invece Papini si meraviglia giustamente che il poeta abbia
tanto esaltato una donna sino a considerarla quasi al di sopra degli
angeli. E “amor cortese” a parte ci deve essere dietro il velo
del simbolo una dottrina segreta di cui ancora ci sfugge il
messaggio. Ma vedi Guénon, che nell'Esoterismo di Dante ha
provato a fornirci la chiave interpretativa. Le stesse espressioni
evangeliche usate da Dante nei confronti di altri, di Beatrice e di
se stesso, e che nei testi sacri si riferiscono a Cristo,
rappresentano un altro problema e suscitano, come è il titolo del
cap. XXXIV, “Odore di sacrilegio”. Per quale motivo il poeta le
avrebbe indirizzate a se stesso o ad altri, usurpando il loro
legittimo possesso ? Anche qui si apre una finestra sul mistero,
che per il momento rimane tale e perciò oscurità.
Cap.
XXXV, p. 309. Dante appare spesso “naturaliter pagano” nella
propensione a ricorrere ai personaggi mitologici e a santificare
figure eroiche del mondo antico come ad es. Catone Uticense. Certo il
suo cristianesimo è molto particolare. Anche qui si presenta un
problema. Fino a che punto fu cristiano e cosa in lui non lo è ? A
mio parere fu più orfico che cristiano, ma per questo è bene
ricorrere a Guénon. Si tenga presente l'insegnamento fondamentale
offerto dal canto VI dell'Eneide di Virgilio e quindi la
tradizione platonica, vedi il Fedone.
P.
332-338, “Dante mago”, cap. XXXVIII. Nel 1319 si ha notizia che
Matteo e Galeazzo Visconti avrebbero proposto di agire con
incantesimo contro papa Giovanni XXII a Dante Alighieri oltre che a
Bartolomeo Canolati, entrambi in fama di maghi. In effetti nelle
opere di Dante e nella Divina Commedia appaiono spesso riferimenti
all'astrologia nella quale il poeta credeva fermamente.
La
notizia è riferita anche da A. Barbero nel suo Dante, p.
267-268, ma non si sa nulla di più.
Cap.
XLII, “Il poema demiurgico”. P. 363, Papini vuole dare un po'
troppo sfoggio di cultura e così del verbo “fare“ in greco
antico sbaglia l'accento, lo segna acuto ma è circonflesso. In
effetti questa osservazione potrebbe sembrare una pedanteria
sennonché appare alla lettura che l'opera avrebbe potuto essere
ridotta alla metà, ma da buon giornalista parolaio l'ha voluta
diluire in molteplici (e inutili) considerazioni. Nulla di male dopo
tutto. I nostri scrittori di oggi potrebbero limitare le loro
ponderose sbrodolate a qualche paginetta o a qualche riga.
Cap.
XLIII, p. 383 e sgg. L'identificazione del Veltro con lo Spirito
Santo collima con la dottrina di Gioacchino da Fiore e dei
gioachimiti. Dante si ispirò per la sua opera all'Arbor vitae
crucifixae di Ubertino da Casale francescano e seguace di
Gioacchino.
Cap.
XLIV, p. 393-394, frecciatina contro gli esegeti paranoici che si
perdono dietro il “disdegno di Guido”, le tre fiere, Matelda,
ecc. Il vero enigma è rappresentato dal Veltro e dal 515, il resto
non è essenziale alla comprensione della Commedia. E in
questo Papini ha perfettamente ragione. I commentatori che si
smarriscono in disquisizioni quasi oziose e pedanti mostrano solo la
piccineria della propria anima.
Molto
interessante il cap. XLVI, “Potenza espressiva”. P. 414 :
Dante
vede tutto, anche i concetti più sublimi, in forma plastica e
vivente. Al par dei greci antichi segue sempre l'istinto di
sostituire i particolari visibili alla pallida generalità. La sua
poesia è ricchissima di valori tattili e coloristi, improntati a
tutti gli aspetti dell'essere e specialmente alla natura. Il poema di
Dante è poema teologico ma tradotto in idioma stellare, agreste,
sanguigno e terragno. Da ciò l'incanto mai morto del suo linguaggio
volta a volta metallico e celestiale.
I
capitoli conclusivi sono costituiti da considerazioni del tutto
personali su Dante, semplice sfoggio di eloquenza.