venerdì 15 aprile 2022

Giovanni Papini, Dante vivo



 

Giovanni Papini, Dante vivo, Firenze, 1933, Libreria Editrice Fiorentina



Finalmente un'opera su Dante basata sulla sensibilità personale dell'interprete !

Belle pagine quelle dove (nei primi due capitoli) si cerca di umanizzare la figura di Dante e di restituirci l'uomo nella sua interezza, non soltanto l'icona ieratica del poeta paludato.

L'analisi senza remore dell'animo di Dante è alla base di questo saggio scritto con uno stile (soprattutto all'inizio, poi verso la fine diventa un po' barocco) sobrio, semplice e chiaro, senza reticenze, con spirito di fiorentino verace. Con profonda intuizione, senza timori reverenziali e bigottismo accademico, Papini coglie l'impulso creativo dell'uomo :


Al pari d'ogni grande opera quella di Dante è una risposta, cioè la manifestazione d'una volontà di sopperire, col pensiero e coll'arte, a un'assenza, a una deficienza, a una carenza dell'esistenza ordinaria e temporale. Un senso d'insopportabile mediocrità è il terreno di partenza per giungere alla grandezza. All'umiltà del destino gli eroi intellettuali rispondono colla magnificazione dell'opera. E perciò bisogna tener presenti i tre paradossi dell'anima dantesca. (p. 47)


Quali siano i paradossi lo dice subito dopo, ma l'impulso fondamentale alla creazione fu offerto dalla volontà di riscattarsi da una sofferta umiliazione terrena a un'elevazione irresistibile dello spirito e a una purificazione nell'arte.

P. 57-58, parlando dell'utopia politica di Dante, cioè dell'Impero universale, Papini (siamo nel 1933 !) anticipa l'idea dell'unione europea in un solo organismo retto da leggi comuni o tramite la conquista da parte di uno Stato più potente degli altri o grazie agli accordi tra gli Stati. In questo senso il pensiero politico di Dante si mostra quanto mai moderno.

P. 74, dopo aver parlato della nascita e dei genitori di Dante, morti nella sua infanzia, Papini mostra attraverso i versi della Commedia come fosse forte nel poeta il bisogno di quell'affetto mancatogli appunto nei primi anni della vita. La stessa amatissima Beatrice fu forse per lui più il simbolo della madre perduta che una figura d'amante desiderata, e questo giustificherebbe il perdurare negli anni della devozione verso di lei.

Cap. IX, p. 76. Interessante l'indagine di Papini sull'amore di Beatrice per Dante. Ci fu o non ci fu ? Anche solo a limitarsi all'analisi degli incontri nella Vita nuova, appare chiaramente che Beatrice non corrispose all'amore di Dante, fu lusingata dalle sue lodi ma non capì e non accettò affatto l'amore di lui. D'altronde era sposata. Altrimenti Dante avrebbe, coerente e rigoroso come era, dovuto metterla all'Inferno, insieme a Francesca da Rimini. Allora perché la celebrò al punto da quasi deificarla ? Questo rimane un mistero.

Cap. X, p. 86. Circa il peccato di sodomia di Brunetto Latini Papini avanza molti dubbi perché sia nel Trésor che nel Tesoretto Latini condanna aspramente la sodomia né si hanno testimonianze contro di lui se non il solo canto XV dell'Inferno. Perché Dante lo accusa ? Forse per esperienza diretta ? Eppure il suo contegno nei confronti dell'uomo politico e maestro di eloquenza è improntato al massimo rispetto. Questa collocazione tra i sodomiti appare quindi abbastanza incomprensibile e certo misteriosa.

Cap. XI, p. 100. Riguardo all'amicizia con Guido Cavalcanti l'autore sostiene la tesi che l'espressione della Vita nuova “primo delli miei amici” si debba intendere rispetto al tempo e non nel senso di un primato nei confronti di altri. La differenza d'età fra i due doveva essere accentuata e si presume che nella vita politica non ci fosse molto accordo, dal momento che a un certo punto Dante in qualità di priore lo manda in esilio a Sarzana, fra l'altro a morire di malaria.

Il disdegno di Guido nella Commedia (Inf. X, 61-63) viene interpretato d'accordo con molti critici nei confronti di Beatrice, simbolo della teologia. A mio parere (nonostante le cervellotiche divagazioni del Sapegno) è evidente che viene riferito a Virgilio, autore del viaggio di Enea agli inferi in compagnia della Sibilla. Il fatto che Cavalcanti fosse ateo lo rende sia nemico di un pagano che narra dell'al di là che del simbolo cattolicissimo della teologia.

Nel cap. XII trattando della battaglia di Campaldino e di Dante soldato l'autore accoglie l'illazione dello Zingarelli secondo la quale Dante avrebbe ucciso nella battaglia Buonconte di Montefeltro e poi, per risarcirne la memoria, lo avrebbe ricordato nel Purgatorio. La tesi appare verosimile, anche se povera di fondamenti.

Cap. XIII, influenza sul pensiero di Dante di frate Remigio Girolami, lettore di teologia in Santa Maria Novella. L'Alighieri mostra di aver letto i suoi scritti perché “il principio del Convivio è quasi letteral traduzione d'un prologo di Remigio sulla scienza e una parte dell'invettiva di San Pietro nel Paradiso echeggia un concetto esposto da Fra Remigio nel suo commento al Cantico dei Cantici.” (p. 115)

P. 116, un altro pensatore che il poeta fiorentino ascoltò negli anni della giovinezza fu il francescano Pier Giovanni Olivi, seguace di Gioacchino da Fiore e sostenitore quindi dell'imminente venuta della nuova età dello Spirito Santo :


Se la Commedia è, nel suo fondo e nella sua struttura teologica, tomista il suo afflato profetico, espresso in misteriosa forma, è gioachimita.” (p. 117)


Cap. XIV, p. 122, trattando della tenzone con Forese Donati, Papini fornisce anche notizie sul padre di Dante, Alighiero, confermate dai documenti. Anche l'opera recente di Alessandro Barbero (Dante, Bari, Laterza, 2020) conferma sulla base di documenti d'archivio l'attività di prestatore di Alighiero, una tradizione di famiglia perché anche il nonno Bellincione prestava denaro e così il fratello di Dante, Francesco.

Cap. XV, le notizie sulla vita politica di Dante e sulle cause del suo esilio sono confermate dall'opera documentata di Alessandro Barbero, salvo l'ambasceria presso la corte di Bonifacio VIII che da Barbero è posta in forse.

Cap. XVII, p. 146. Si mette in dubbio tra i viaggi di Dante quello a Parigi che invece viene ritenuto probabile da Barbero.

Le considerazioni dei capitoli seguenti sono piuttosto peregrine e non molto interessanti, basate come sono sul supposto carattere di Dante, sulla sua superbia ecc. Tutte cose vere ma evidenti al lettore delle opere dell'Alighieri. Si desidererebbe un'indagine più approfondita.

P. 226, cap. XXV, definisce la Commedia come l'annunzio di una palingenesi, d'un rinnovamento dell'umanità, ma non individua la fonte dottrinale a cui Dante ha attinto per il suo messaggio. A questo riguardo costituisce un'indagine ben più profonda l'opera di René Guénon, L'esoterismo di Dante.

Interessante il cap. XXVIII, “Dante crudele”. La rassegna degli atteggiamenti del personaggio Dante nell'Inferno nei confronti di molti dannati sottolinea la mancanza di compassione del poeta e un compiacimento quasi sadico nell'incrudelire nei loro confronti. Indubbiamente sono molte le contraddizioni morali di Dante nella sua opera, ma Papini forse pretende troppo, vorrebbe un Dante perfettamente coerente con il Vangelo, quasi fosse una specie di fra' Cristoforo, ma in questo caso probabilmente la Divina Commedia risulterebbe un poema melenso pieno di buone intenzioni.

Tralascio il cap. XXXI sull'atteggiamento di Dante verso la povertà, ispirato a un moralismo da manuale e mi soffermo invece sul cap. XXXII, “Le due Veneri”, dove si danno notizie sugli amori veri o presunti del sommo poeta. E' indubbio che all'Alighieri piacessero le belle donne, ma forse qui si esagera ad attribuirgliele come fossero sue amanti. In un documento lucchese è stato scoperto un altro figlio di nome Giovanni e a detta dell'Imbriani poteva esserci stata una tresca con la cognata Pietra, moglie del fratello Francesco. Ma questa è un'ipotesi che Papini cita senza prenderla in considerazione.

Il cap. XXXIII, “La deificazione di Beatrice”, pone delle domande abbastanza ovvie ma che ormai pochi si pongono, dando per scontate le risposte. Invece Papini si meraviglia giustamente che il poeta abbia tanto esaltato una donna sino a considerarla quasi al di sopra degli angeli. E “amor cortese” a parte ci deve essere dietro il velo del simbolo una dottrina segreta di cui ancora ci sfugge il messaggio. Ma vedi Guénon, che nell'Esoterismo di Dante ha provato a fornirci la chiave interpretativa. Le stesse espressioni evangeliche usate da Dante nei confronti di altri, di Beatrice e di se stesso, e che nei testi sacri si riferiscono a Cristo, rappresentano un altro problema e suscitano, come è il titolo del cap. XXXIV, “Odore di sacrilegio”. Per quale motivo il poeta le avrebbe indirizzate a se stesso o ad altri, usurpando il loro legittimo possesso ? Anche qui si apre una finestra sul mistero, che per il momento rimane tale e perciò oscurità.

Cap. XXXV, p. 309. Dante appare spesso “naturaliter pagano” nella propensione a ricorrere ai personaggi mitologici e a santificare figure eroiche del mondo antico come ad es. Catone Uticense. Certo il suo cristianesimo è molto particolare. Anche qui si presenta un problema. Fino a che punto fu cristiano e cosa in lui non lo è ? A mio parere fu più orfico che cristiano, ma per questo è bene ricorrere a Guénon. Si tenga presente l'insegnamento fondamentale offerto dal canto VI dell'Eneide di Virgilio e quindi la tradizione platonica, vedi il Fedone.

P. 332-338, “Dante mago”, cap. XXXVIII. Nel 1319 si ha notizia che Matteo e Galeazzo Visconti avrebbero proposto di agire con incantesimo contro papa Giovanni XXII a Dante Alighieri oltre che a Bartolomeo Canolati, entrambi in fama di maghi. In effetti nelle opere di Dante e nella Divina Commedia appaiono spesso riferimenti all'astrologia nella quale il poeta credeva fermamente.

La notizia è riferita anche da A. Barbero nel suo Dante, p. 267-268, ma non si sa nulla di più.

Cap. XLII, “Il poema demiurgico”. P. 363, Papini vuole dare un po' troppo sfoggio di cultura e così del verbo “fare“ in greco antico sbaglia l'accento, lo segna acuto ma è circonflesso. In effetti questa osservazione potrebbe sembrare una pedanteria sennonché appare alla lettura che l'opera avrebbe potuto essere ridotta alla metà, ma da buon giornalista parolaio l'ha voluta diluire in molteplici (e inutili) considerazioni. Nulla di male dopo tutto. I nostri scrittori di oggi potrebbero limitare le loro ponderose sbrodolate a qualche paginetta o a qualche riga.

Cap. XLIII, p. 383 e sgg. L'identificazione del Veltro con lo Spirito Santo collima con la dottrina di Gioacchino da Fiore e dei gioachimiti. Dante si ispirò per la sua opera all'Arbor vitae crucifixae di Ubertino da Casale francescano e seguace di Gioacchino.

Cap. XLIV, p. 393-394, frecciatina contro gli esegeti paranoici che si perdono dietro il “disdegno di Guido”, le tre fiere, Matelda, ecc. Il vero enigma è rappresentato dal Veltro e dal 515, il resto non è essenziale alla comprensione della Commedia. E in questo Papini ha perfettamente ragione. I commentatori che si smarriscono in disquisizioni quasi oziose e pedanti mostrano solo la piccineria della propria anima.

Molto interessante il cap. XLVI, “Potenza espressiva”. P. 414 :


Dante vede tutto, anche i concetti più sublimi, in forma plastica e vivente. Al par dei greci antichi segue sempre l'istinto di sostituire i particolari visibili alla pallida generalità. La sua poesia è ricchissima di valori tattili e coloristi, improntati a tutti gli aspetti dell'essere e specialmente alla natura. Il poema di Dante è poema teologico ma tradotto in idioma stellare, agreste, sanguigno e terragno. Da ciò l'incanto mai morto del suo linguaggio volta a volta metallico e celestiale.


I capitoli conclusivi sono costituiti da considerazioni del tutto personali su Dante, semplice sfoggio di eloquenza.






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