giovedì 14 luglio 2011

Cleopatra I

Lontano, dormiva, sotto la luce d’un sole divorante, Tebe dalle cento porte.
Le mura e le case biancheggiavano senza un filo d’ombra.
Quasi incandescenti si libravano nell’alto le punte degli obelischi, le torri dei palazzi e dei templi fiammeggiavano come in una fornace.
Il fiume Nilo, quale un pigro serpente, allungava le spire fra le rive ombrose, donde si piegavano sulle acque i palmizi carichi di frutti.
Sullo sfondo s’innalzavano i gioghi delle montagne, mentre dalla parte opposta, verso il deserto, onde di sabbia bronzea si succedevano, le une dietro le altre. Nubi di porpora, un’immane criniera, si allungavano sotto la volta azzurra. Vaporava una polvere d’oro vibrante nell’alito del cielo.
Un labirinto di vie, di portici, di arcate, si smarriva fra tetti piatti, mentre colonne altissime in stile egizio reggevano architravi millenari, e colossi dall’effigie di Ermes Trismegisto e di Anubi dal capo di cane s’ergevano al centro delle piazze.
In grandi serragli elefanti dalle zanne splendenti dondolavano la testa massiccia, e dromedari catturati dai beduini ruminavano flemmaticamente, cavalli bigi e maculati e gazzelle vivaci correvano qua e là nervosamente lungo lo steccato, ed altissime giraffe brucavano le cime dei caprifichi.
Presso la capitale un bosco straordinario, fitto di alti e vasti alberi, ove scorreva una fonte di acqua limpidissima, era stato piantato e curato artificialmente, e presso la fonte era edificata la reggia, non per mano degli uomini, ma certamente dall’arte divina.
Sino dal primo passo al varcar della soglia si poteva arguire che di un qualche nume era quella residenza così fastosa ed amena : soffitti a cassettoni intagliati nel cedro e nell’avorio sostenevano dorate le colonne e le pareti riflettevano in lamine d’argento il volto dei visitatori. Certo una divinità doveva aver profuso tanta ricchezza per dilettare di graziosa scintillazione i propri ozi inenarrabili. Interminabili corridoi conducevano alle stanze segrete, tutti popolati di perle incastonate, come in anelli, nel pavimento e sui lati e nell’acuta volta in cui piroettavano canarini variopinti e canori. Ampi lavacri, nel cui fondo brillavano, smossi talora e sollevati da rossi pesci, mucchi di rubini e lapislazzuli e crisoberilli, erano inseriti al centro di camere lussuose e circolari, il perimetro delle quali era tracciato da letti arcuati dove su tappeti tessuti a mille colori mirabili si adagiavano le più belle schiave dell’Oriente.
Questo palazzo, dovizioso e lussurioso, che avrebbe mandato in estasi il gran re dei Parti, era, sontuoso diletto alla pigrizia, il ricovero di Cleopatra.
Cleopatra d’Egitto discendeva da Tolomeo macedone, figlio di Lagio. Suo padre ebbe nome Dionisio, ma alcuni antichi affermarono che si chiamasse Mineo. Regnò ella grazie alla sua nefanda natura, né fu adorna di virtù alcuna, tranne il pregio della straordinaria bellezza.
Sposata secondo la legge egiziana, in quanto principessa di sangue reale, a suo fratello il faraone Tolomeo, ben presto si volse a tramare contro il proprio marito sino ad una guerra aperta.
Era così l’Egitto in preda alle lotte civili e alle private e pubbliche vendette, quando approdò Giulio Cesare nel porto d’Alessandria. Il duce romano volle dirimere la contesa e ad ambedue ingiunse di presentarsi perché venissero a patti di pace.
Non impressionò Cesare l’aspetto del giovine faraone, ma lo sedusse subito irresistibilmente la regina Cleopatra, coronata delle insegne regali, ammantata delle sue incantevoli forme e delle vesti sfavillanti di gioie, capace cogli occhi di abbattere anche le resistenze del più austero degli asceti. Lo attrasse nella sua lascivia, il dominatore del mondo, con poca fatica, e lo incatenò per molte notti al proprio letto, quando più imperversava il disordine civile. E nell’assiduità degli amplessi concepì un figlio, che dal nome del padre chiamò Cesarione.
E quando il suo secondo amante, Marco Antonio, la incontrò sul fiume Cidno, ella usò ancora più maliose arti per celare la perduta adolescenza e rilevare le lusinghe della donna matura.
L’imbarcazione, che trasportava la sua corte, riluceva come l’aurora o i tramonti sereni sul mare placato, poi che la poppa era d’oro e purpuree le vele e profumate di cinnamomo e di sandalo, e i remi d’argento s’immergevano al ritmo dei flauti e si confondevano quasi con la spuma scintillante e vivace.
Ella era distesa su morbidi cuscini ricamati a fiori e a ghirlande, arabescati di forbite rime di poeti, sotto un baldacchino di drappo dorato, e ai lati ventavano con ampi flabelli due delicati fanciulli ignudi.
Coricata sul ventre, poggiando sui gomiti, sostenendo il volto tra le mani sottili, ella pungeva con lunghi aghi d’oro un cuscino di lino verde.
Stanca per aver troppo dormito, se ne stava sopra il letto disfatto, coperta soltanto dai capelli.
La sua chioma era lucente e profonda, morbida come una pelliccia, fine, interminabile, vivida e profumata. Le copriva la schiena, qua e là lasciando trapelare la pelle rosea, e ondeggiava sino alle ginocchia, in boccoli spessi e vellutati.
Erano strani i suoi capelli, d’un colore caldo, autunnale, come il vello delle volpi o delle foglie morte del sottobosco. Non erano neri e lisci come quelli delle figlie d’Egitto o di Siria o di Palestina.
Erano quasi un prolungamento della capigliatura gli arabeschi delle pareti e del soffitto del talamo regale, verdi, cilestri, cinerei, vermigli e intrecciati talvolta in fiori d’oro di fantastica forma. Un tappeto di pelli di ghepardo copriva interamente il pavimento, donde esalava una musica carezzevole d’artisti premurosi, estasiati al minimo tocco del lieve piede della sovrana.
Ai lati del letto due grandi vasi, opera di ceramisti corinzi, erano colmi di fiori di loto, azzurri gli uni, gli altri d’un roseo incarnato, come le soavi dita della gran dea Iside.
E s’adornò degli anelli e dei bracciali e dei suoi serpenti d’argento, poi al contatto della chioma serica sulla pelle la prese il desiderio di mirarsi. E domandò lo specchio. Temeva di non essere abbastanza bella ?
Esaminando ciascuna delle sue bellezze, avvicinava lo specchio alle parti del corpo, imprimendo la fragranza sull’argento.
Il respiro della pelle aulorosa s’effondeva caldo sul metallo frigido. Considerava il biancore della carne e ne palpava il madore e la morbidezza con i polpastrelli sottili delle dita leggiadre come di musicante. La sua mano scivolò sovra la pienezza dei seni, colmandosi quasi a cogliere. E scivolò verso il ventre plastico, muscoloso.
Uno psittaco innanzi a lei stava su di un tripode. L’indico uccello un poco più piccolo delle colombe, non aveva il loro colore. Infatti non era latteo né livido né screziato, ma verde dalle piume del tronco sino alla punta delle ali, se non che il collo si distingueva. La cervice era ricinta da un circolo minio come un’aurea collana. E ripeteva le parole d’un canto appena appreso, tanto umanamente da apparire, solo ad udirne la voce, veracemente umano. Poi, allo scorgere il lucido casco castano inondantele il bianco collo, il petulante sfoderò alla signora la sua loquela erudita :
“ Per i popoli antichi era assai pregiata la chioma bionda e la rossa. Biondi sono molti dei personaggi delle favole greche : Arianna, Atalanta, Cariclea, Europa, Rodogine, Narciso, Cupido, Fetonte, Antiloco, Giasone, Achille, Menelao, Radamanto, Meleagro. E non solo gli Elleni apprezzarono i biondi, ma gli Ebrei scrissero che era biondo il re Davide e di bell’aspetto e grazioso, e biondo e bello fu il macedone Alessandro, conquistatore del mondo, e bionde furono anche donne famose quali Lucrezia e Aspasia. Omero fa pure biondi i cavalli ed Euripide dice d’Amore :
Ama gli specchi e della chioma i biondeggiamenti,
e altrove scrive :
I biondi ricci della chioma ti componevi allo specchio.
E Teocrito cantando la beltà d’un pastore…”
La regina allora gli versò del vino affinché s’ubriacasse, e mentre il rostro scompariva entro il liquido purpureo, ella levò lo specchio al di sopra del viso ed ammirò gli occhi chiari di malizia, simili a un velluto brunito che rendono fulvo i raggi del mattino inserendosi tra i veli del talamo. I capelli, siccome la fronda d’una selva autunnale, scioglievano i nodi sulle ricche stoffe che giacevano sparse intorno ai suoi fianchi pallidi.
Giunse pertanto l’ora del bagno. Il maestro delle cerimonie si presentò al suo cospetto, prosternandosi. Era un giovane scriba alto, snello, dai lunghi capelli neri, dal volto ovale e olivastro e dagli zigomi prominenti, dalle labbra spesse e scarlatte, dagli occhi a mandorla. Era vestito d’una tunica verde e dalle larghe maniche, quali ampie ali di pipistrello, che s’allungavano sino alle caviglie. I sandali di papiro dorato e ingemmato lasciavano intravedere unghie color cremisi e tra le dita erano, intrecciato lo stelo, fiori di ninfea.
Uscì dunque dalla nave la regina egiziana e, scesa la scaletta d’ebano, si trovò sul molo a mosaico delle sue terme, non distanti dal fiume.     

  

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