domenica 24 luglio 2011

Il filtro

La nave, scindendo i flutti violacei, recava Isotta al re di Cornovaglia.
La nave flottava sulle onde colore del vino insieme all’alito possente del vento. L’ardore della passione, che legava con nodi indissolubili i due amanti, era assecondato dal furore delle correnti marine. Nei vortici delle acque il vento giocava a riprodurre i vorticosi e profondi crini di Isotta, in cui la luce del sole produceva mille variazioni di riflessi e di sfumature limpide, quale il cielo delle montagne, od oscure e misteriose quale il grembo inesplorato delle foreste.
Come il grembo inesplorato delle foreste, nell’aria satura d’autunno, dove fra le fragili foglie sparse di rugiada riposa l’anima inebriata alla brezza lieve notturna, quasi all’ansimo d’un amante, al ritmo delle onde del lido remoto, calme parole colme di blandizia, per misteriosi incantesimi, così la vita di Isotta si velava di riserbo e di pudore, similmente ad una donna che nell’oscurità, cauta ad ogni moto d’aura, deponga sulle coperte del letto, nel buio, ad una ad una, le vesti delicatamente.
Il suo volto era puro e mite quali sono le vallate fiorite di rododendri, per le quali alita sempiterno il respiro della primavera e ne gioiscono le fronde degli abeti che cantano su per le pendici delle montagne.
I suoi occhi erano la lusinga melodiosa dell’amore, che svanisce lentamente tra gli echi delle giogaie su cui sosta l’esilio del sole, come un canto che nessuno ascolta, ma colui che avverte un frullo di passeri sui rami negli sbuffi del vento al chiarore della luna, ode il richiamo profondo che muore e risorge nel seno del mare.
Ella aveva bevuto alla coppa d’oro.

Quale una fanciulla destata nel cuore della notte dagli incubi, che le aprono vie ignote e la conducono tra le fiaccole per sentieri solitari ove risuona l’ululo della nottola e freme il sibilo dell’aura fra le branche ritorte degli alberi centenari, così si schiudeva l’animo di Isotta alla natura possente.
E la colse l’onda del desiderio.
La mente ora si perdeva nell’infinita via della vita, ora si allontanava sul lido del mare.

La sua immagine procedeva fra un corteo di danzanti fiaccole tra molti devoti, i cui volti sembravano variare come onde brune di un lago profondo, dove dardeggiano falsi splendori.
E giunse nella radura vicino alla foresta.
La folta pineta era lievemente sommossa ai sussulti del vento caldo. Un greve sentore, un torpore silente, estivo e sconosciuto pareva provenire dal fondo misterioso del groviglio silvestre.
Un luminoso colibrì, dal piccolo capo smeraldino, dall’ali rubre, dalla pettorina turchese, sortì dal suo letto di fiori.
Quale trillo di sonagliere, che preannunzi l’arrivo d’un personaggio atteso ma sconosciuto, lampeggiò il vivace volo, un rapido raggio che traversa l’aria frizzante nell’aurora.
Il vento dolcemente spirava, sommuovendo sulla nuca d’un biondo cavaliere le ricciute chiome ondeggianti, parimente al mantello, che morbidamente ricadeva sui fianchi lucenti del destriero fulvo, il quale fieramente avanzava in misurata cadenza percotendo il suolo, agile e lieve, ergendo il collo poderoso su cui la criniera fluttuava.
Come leggiadro cigno, librantesi sovra il fluido limpido, si desta allo spiro improvviso tendendo l’ali ampie nel candido balzo, s’inarcava al soffio del vento il manto purpureo, smarrendo gli estremi lembi nel lume carco e cupo del tramonto.
Il volto del cavaliere era ombreggiato dal pallore della bruma che s’innalzava nel sorgere della sera.
Il suo sguardo vagava ad una collinetta non lungi dalla riva del mare, donde si propagava un canto simile al dolce spirare dell’aurora che risveglia la terra e fa palpitare le onde.
Un’aura senza mutamento circondava di lucori cristallini il colle rivolto al bruire marino, alla cui sommità appariva un coro festevole di giovani donne.
Un candido pegaso aleggiava con ali dalle penne di fiamma, che raccoglievano nella trasparenza del finissimo tessuto tutta la ricchezza ramata dell’ora vespertina, come a protezione d’un mistero profondo che si celasse al mondo dei molti per rivelarsi nel risveglio degli eletti.
Un giovane, dalla lunga chioma bruna e dal corpo puro quale avorio a tratti velato di tonalità azzurrine, immergeva lo sguardo nell’epilogo oltremarino. Dalla sua bocca illuminata emanava un canto dolcissimo. Intorno al suo corpo pervaso d’un colorito roseo, le Muse danzavano e libravano le dita sottili sovra antichi e strani strumenti a corda, inneggiando con strane parole.
L’astro, come un dio onnipotente che rinunci al trono di gloria per svanire in un sonno eterno, copriva il capo innanzi al mondo.
Nell’aria tiepida fluivano onde rare di profumo, nel cuore di Isotta si agitava un’inquietudine profonda. S’affinava, s’acuiva alla fiamma del canto la sua facoltà divinatoria. Ella beveva nei suoi occhi quella luce porfirea, rubra come un magico vino, e s’inebriava d’un’ebrietudine dolcissima.
E quella luce confondeva il cielo e il mare in un unico splendore violaceo, in cui si dissolveva l’ombra del promontorio.
I raggi riflessi dalla superficie delle acque via, via verso le profondità parevano salire sino all’orizzonte e varcare la soglia dell’infinito.
Il cavaliere smontò dalla cavalcatura e lasciò che le redini scivolassero sulla sabbia. Egli guardò fissamente Isotta e sorrise.
Il corsiero scosse la criniera nitrendo, e appariva un fremente fantasma rosso, la sua sagoma si fondeva coll’aria ebbra e tinta della macula occidua che si diramava, quasi d’una coppa di liquore riversa.

Ella ora correva sul cavallo sauro nel turbine dell’arena agitata e fulvida, che vaporava lucida nel rosso lucore dell’Occidente, simile a fiamma. Ella s’innalzava sovra gli spazi immensi e deserti, spalancati innanzi in una visione improvvisa e impreveduta.
La sorpresa le colmò il cuore d’un’ansia insostenibile, ed ella furente spronò il corsiero, gettandosi nel baratro.
I gorghi circolari quali i legami del furore avvincono la mente ossessionata, la inghiottivano nelle reti dei vortici, se ne impossessavano freneticamente, costringendola precipitosamente a lanciarsi. Ella fu preda d’una forza violentissima, perversa, che la percorse per tutta la schiena come una frustata, quasi una mano penetrando nel suo capo le sommosse ogni senso, affondandovi gli artigli.
Le onde s’aggrovigliavano in schianti istantanei, un urto stridente di lamine bronzee, che si scindevano in creste furenti a perdersi nel cupo manto cilestre. Come mani gigantesche le ondate si volvevano sopra se stesse, abbrancando il vento corrente tra gli esali del tramonto, che si nascondeva in una stanca luce.
Così ella avrebbe voluto nascondere e dimenticare se stessa e ottenere una sosta, una pace, ma la corsa furibonda la precipitò nelle tenebre che si levavano simili a neri vapori sopra il mare insondabile.
Come via via si profondava, tratta dalla foga dell’ardente animale nel cunicolo oscuro che si spalancava entro il torbido ventre verde del mare e le stelle del cielo parevano seguirla quasi trascinate da un gorgo sprigionatosi nello spazio silenzioso, un’ebrezza straordinaria la esaltava e le pareva d’avere divelto gli ultimi ostacoli alla sua inquietudine incessante.
Un miraggio forse di una terra dimenticata si stagliava sul fondo di vampe cianee, che frastagliandosi si levavano fra il rosso fluido, quali masse d’alghe nei vortici spumosi.
Una babele di meandri e di turrite fabbriche bluastre, che si attorcevano in spire e sprigionavano guglie acute come iaculi intesi al cielo gravido e plumbeo, si dilatava quali le valli segrete schiudentisi oltre le ardue montagne.
Una musica si distendeva quasi una nube opaca e verdastra, simile al seno umbrato delle grotte ove stilla la pioggia caduta nel suolo.

Una nave si allontanava sui gorghi neri, distendendo le vele ampie allo spiro agro della marea. Si perdeva oltre le soglie conosciute, in un alone pallido, al chiarore della luna impassibile.



                                          

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