mercoledì 27 luglio 2011

Sogno

Giovane io vissi donde il mare scorgevo, lungo
il sentiero, là in una casa bianca. Allora
l’aroma d’aranci e peschi spirava, d’argentei ulivi,
udivo le voci allora dei ragazzi al gioco sparsi
sulla spiaggia in estate, poi che là sulla collina
era la casa recinta da un ampio giardino.
E profumo di soavi sinfonie, luci ricche
di colori d’acque verdi allo spiro s’accoppiava
dell’aria. Lontano alta sul mare la rocca in pietra
s’alzava, torre imponente, donde il vagare degli astri
miravo, poi che, il linguaggio degli dei appreso, sapevo
vaticinare. E il mare porfireo crinito ansava
attorno alle rocce, presso l’alta torre irrequieto.
E alati messaggeri gabbiani dalle contrade
recavano oltremarini i segreti d’aridi venti,
cui scongiuri effusero i negromanti. La brezza
soffiava del mare sovra al giardino. Ed i gigli
respiravano e i giacinti, giocava con le corolle
il sole, mentre con limpide acque scorreva il ruscello,
schiumava intorno ai ciottoli lucenti. Rose gioivano
scoprendo ammaliate fanciulle i seni freschi
odorosi, e tra fiori d’oro o candide ginestre
molceva l’aura del mare ed il sorridente sole.
Tramavano in voli rondini l’aria ratte di frizzi,
beccavano frutti i passeri, chiacchierando sul pesco.
Garruli a coppie cingevano, per bere in gara, i bordi
del ruscello, sfioravano con l’ali foglie e fiori
di cicute ed angeliche al lieve tocco ondose.
Bianchi asfodeli serpevano in muri diruti quali
esili sogni, e ricchi rovi di bacche rapaci
s’inerpicavano sovra le rocce, rovine antiche,
mentre nell’ombra ammaliavano l’edere al sonno.
Allora, chiuse le palpebre, ero in camera avulsa
e udire voci lontane mi parve, ed un sommesso
pianto remoto e singulti di bimbo, e una donna
fuggire vedevo, occhi cupi d’abisso, là verso
tormenti di grida. Sogni quindi seguivo del mare
oltre i confini, e il volto quando levai dallo scrigno
dei pensieri, mi colse l’ombra e m’avvolse un incanto.
Antro d’antica sibilla, alta muscosa penombra,
da tenui raggi violata, era dattorno, di vetri
ceruli e d’ambra una bifora era quale occhio riflesso
in misteriose fiabe sui muri. Io sullo scanno
immoto, arborea in torte radici larva disforme,
remote profondità colsi a un ebbro sospiro.
Ma un canto pure fra l’ombre mi sedusse sinuoso,
mi prese, e subito mossi i battenti e m’avvolse
la luce e una fanciulla scorsi, nel seno aveva
un canestro di fiori. Quale messe ondeggiante
i capelli e di miele, quali i grappoli colmi
dono aveva del sole. Sorrise ed io nell’ombra
colpito mi trassi, il volto pervase rossore e il capo
chino tenevo attonito. E d’onde vaste al lido
lungi udivo la rabbia, e di palpiti armonie,
fiori spumosi del mare. Poi ch’ella m’apparve vita
e del creare perpetuo segno, alla via nuova
mi posi e in degne vesti m’avvolsi e quindi dorata
l’aria abbracciai dell’alba. Cupa una laida vecchia,
di spinosi rami un cesto recando ed una roncola,
invece v’era, ma io pure udivo lontano
canti di gioia e un’eco di lievi voci e di danze
tra lo stormire dei faggi del vento alti nel brivido.
Discesi nel sentiero, ed agili presi i miei passi.
Sull’argentea spiaggia colsi conchiglie e l’ombra
mia precedeva fluendo nelle blandizie del mare.
E d’un’antica dimora alla luce suasiva
misteriosa e rubea sognai su arabescati
tappeti immensi tesori d’oriente, e il desiderio
provavo della bellezza, poi che il vento su pianure
equoree armoniosa corsa volgere udivo,
e di sopra l’arse rupi intrecciare i suoi balzi.
Irta di rocce m’apparve una caverna in fauci
tesa di mostro ai flutti salsi e frementi, schiusa
come d’un folle la bocca alla tempesta furente.
E d’anni tediosi il rombo ed il lento gocciare
sentii di stalattiti nell’antro vasto dell’anima,
e rammentavo dementi angosce come dinanzi
a un infinito baratro turbato. Del sogno ebbri
là nella reggia immensa vagavano i pensieri,
ed altissime colonne ed arditissime arcate
allora precipitavano nel buio d’un cielo ignoto.
E come il califfo Vathek, il superbissimo principe,
anch’io sull’ampia torre non dubitavo tra gli astri,
pure nulla mai scorgevo nello stellato oceano,
da noia di vita vinto. E vidi le umane torme
ed altrove d’ira colmi gli occhi rivolsi, ché prona
odiavo la stirpe schiava per i continui bisogni.
E me le bianche dee per floride aule d’oro
sazie del piacere addussero. Nell’odorose aurore
calme parole volsero quali onde di lago tacite.
E a cori, sogni biondi d’estate, di fanciulle
ignude anelai, fiori in corone offerenti.
Ed una brezza leggera, un ansimo, s’effondeva,
remoto insidiava un sussurro, “ e perché
e perché “, a me dicevo, “ qui sono e non ho più
amici ? E perché questo sole in solitarie valli
conduce ? “ E accecato dall’ansia una via
chiesi innanzi a me solo. Ma un sibilo di vento
m’avvolse e alla corsa chiamò rapida ed ebbra
nell’ombrosa selva. Braccia dei giganti arborei d’aliti
fremevano imponenti. Poi che io amavo il mare
ed adirati i flutti dopo le lievi brezze,
alati sonni, inteso per certo non fui dai molti.
Per questo in lunga attesa io avevo sospirato
di malattia mortale, e salutato avevo
l’estasi d’oro all’alba, quale donna incinta il giorno
liberatore. Di sole udii ebbre cicale
nella pineta e musica ed inni di gemme avide
di luce ed impaziente rincorsi un capriolo
verso il bosco profondo. E giunsi ad un’antica
casa di pietra, dove una donna bella aveva
un viso triste, per sempre come avesse perduto
la speranza. E m’invitava ella ad entrare, allora
oltre passai io ché vasta l’anima mia era corsa
silenzioso dal respiro profondo delle terre,
e più non vidi. E poi mi misi alla via e vecchio
scorsi un barcaiolo fluire di tra i flutti. E la pelle
aveva grigia e canuto il mento e tristi i neri
occhi della notte, e verso il mare si volse oscuro
e sul legno ondeggiante mi trasse lontano verso
la meta ignota, e verso il destino che nessuno
seppe mai, ed io ignaro nel volto lo fissai, quando
per sempre io lo riconobbi, allora che mi specchiai.   


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