Una druidessa celtica sorreggeva un antico libro e leggeva
in piedi presso un’alta quercia attraversata dall’austro. Vestita d’una tunica
aderente al corpo, fermata in vita da un’ampia cintura cinerea, ella rivolgeva,
ripetendo le parole lette, lo sguardo a un vegliardo morente cui ogni sillaba
pareva infliggere una ferita. Egli la guardava con la rassegnazione propria di
chi ha molto vissuto e molto meditato, la cui saggezza ha reso ormai
insensibile sia alla vita che alla morte. Egli era posto in un sepolcro
circondato da fiori funerei, da quei fiori che i mortali dedicano per la
bellezza pura e pudica alle salme e alle tombe.
E gli occhi piano piano si chiudevano ad ogni parola
pronunciata, e il respiro lentamente s’attenuava, quasi un’onda marina che si
plachi dopo il vigore delle correnti e si dissolva sulla riva nell’estremo
moto.
I suoi capelli candidi procombevano sulle spalle ammantate e
sul petto una barba bianca e fluente copriva per lungo tratto un logoro saio,
gli occhi erano azzurri come il cielo cristallino.
E sullo sfondo, in una palude recinta da alberi nodosi e
deformi, emergevano i ruderi d’un antico tempio cristiano, le cui nere mura
erano pervase da una vegetazione di rampicanti e di erbe parassite e di
muschio. Gracili sculture seguivano le arcate gotiche e lunghi draghi
sporgevano agli angoli le teste di pietra.
Pareva il duomo rispecchiarsi nell’acqua nera e putrescente.
Rospi limacciosi si rintanavano nelle nicchie, custodi d’una memoria perduta.
E le fronde delle piante centenarie s’accendevano come brace
innanzi alla fiamma morente del sole. E le tenebre alitavano sopra il tramonto
quasi minacce di nubi tempestose, mentre una linea canuta testimoniava il
giorno trascorso, quale lembo strappato d’un lungo manto fuggente che
s’allungasse sopra la terra.
Mentre l’astro declinava oltre le montagne bluastre, il
bianco disco lunare ascendeva per il vasto spazio silenzioso, e sembrava
accompagnarsi a una vasta e sommessa melodia di lire e di flauti che pari a una
fonte pura si smarrisse in una limpida e ferma conca di acque.
E la dea della notte si specchiava ai margini d’un rivo nero
e lucente, e vi scorgeva il pallore luminoso del volto. E sul volto scorrevano
scintillanti le lacrime e i rimpianti dei giorni perduti e i sogni sognati e le
passioni dissolte e le gioie rattristate e le illusioni senza più speranza.
E una musica dolce e triste ondeggiava sulle onde argentee e
palpitava e cessava sulle sponde e proseguiva allontanandosi verso altri lidi e
contrade, per chi sa quale foce.
E come un rapace, disturbato nel nido da voci di cacciatori,
via dalla rupe s’allontana con forte plauso d’ali e poi plana nell’aria quieta
e la fende veloce con immoto volo, così nell’ombra della notte solcava un mare
nero e greve una barca snella e leggera. Fluiva in una durevole scia il
vascello rapido, ma senza rumore alcuno, in un torpido silenzio, scivolando
immobile.
Un mendicante remava, e non s’udiva remeggio, quasi che i
remi sfiorassero l’acqua.
Don Giovanni si specchiava nell’onde tranquille, al lume
della luna. E avvertiva il pallore del volto, mentre meste e tenui note
vagolavano sulla superficie tremante.
Intorno roteavano, nel ricordo, i visi molteplici delle
amanti, maschere velate o imbellettate di cipria e di fuco, dai ricci attorti
da forcine, dai nevi ridicoli artificiali, dalle occhiaie scurite, dalle guance
nutrite di fardo. Alcune ridevano d’un riso vacuo, altre lo fissavano con
guardo assente, alcune lascivamente, alcune con falso trasporto, altre ancora
si sottomettevano con odio, vinte tuttavia.
Che restava di tante avventure gioconde e di tanti
arrischiati amplessi ?
Solo il disgusto nella delusione. L’amore s’era rivelato
nulla se non un anelito inappagato e senza pace, e il desiderio non s’era mai
placato se non nelle sue fantasie, non mai fuori di se stesso.
Cosa avevano veduto in lui quelle ardenti innamorate se non
appunto il desiderio ch’esse in sé medesime non potevano sopprimere ? Si erano
specchiate nella sua faccia e come su una lastra di vetro avevano sognato
l’amante ideale, e si erano date, fidenti, abbandonandosi ciecamente.
Ingenuità dell’amore ! Lui, sì, l’aveva conosciuto.
Aveva compreso quanto egoismo racchiude la dolce parola.
Nessuno ama fuor che l’immagine che ha di se stesso nell’amore.
Ed egli s’era compiaciuto d’amare e d’essere amato, e per
lui ogni giornata era stata illuminata dal pieno sole della gioia. Ma ogni
istante era trascorso, e gli amori quali granelli di sabbia erano sfuggiti tra
le dita.
Rammentava l’ebbrezza delle corse in carrozza, quando l’aria
fredda della notte attraverso i finestrini aperti lo colpiva in pieno volto, e
la sua vista si perdeva nell’oscurità, alla ricerca di luci lontane ed ignote,
mentre tra le braccia sue l’amante inseguiva le chimere dell’amore.
Com’era bello e misterioso, allora, quando congedata con
l’ultimo bacio della sera la dama, dileguata sulla carrozza nera tra le nebbie
dei sogni, entrava finalmente in casa e s’adagiava sul canapé e si metteva a
cianciare col pappagallo, ripetendo i discorsi e le confidenze delle sensibili
innamorate, passate in rassegna come le damine d’un museo delle cere o bambole
pregiate di porcellana, agghindate di bei fronzoli.
Allora all’udire un canto notturno o lo stormire degli
alberi del giardino o il vento che giocava sibilando tra le persiane, pensava
alle impressioni indefinite che lo avevano distratto dalla fugacità
dell’esistenza, pensava a un colore particolare ma senza nome che aveva
indugiato ai raggi del pomeriggio sulla veste d’una fanciulla, sotto un
pergolato, al ricevimento del barone locale, o meditava su una piuma che,
distaccandosi dall’oca sacrificata, aveva navigato sulla corrente del
pulviscolo d’oro.
E poi riviveva l’ardimento dei duelli e rivedeva le lame che
incrociandosi stridevano e balenavano quali folgori, o ascoltava di nuovo nella
memoria il latrato dei cani eccitati nella caccia e percepiva nel folto dei
cespugli l’ombra fuggitiva del cinghiale che muoveva le fronde, o scorgeva
tramontare il sole dietro i faggi in un’effusa vena di liquido fuoco.
Ora la visione mutava, ora Don Giovanni non era più.
Come sulla scena d’un teatro mutavano gli attori e gli atti,
e così la visione nel sogno riproduceva la scena del mondo.
Amleto saliva lentamente la scala che portava alla torre nel
palazzo di Elsinore.
Lentamente ascendeva. Intorno era la tenebra umida e fredda,
interrotta regolarmente da pertugi aperti sulla campagna rischiarata dalla
luna.
E Amleto saliva, saliva. E la scala rotava in una vertigine.
E la pietra grezza della torre colpita dai raggi lunari assumeva strani
contorni, ora aprendosi in una bocca, ora evidenziando le cavità del’orbita,
ora arrotondando la lucida forma del cranio.
E Amleto meditava sul destino di morte. E considerava la sua
triste esistenza, di uomo votato alla sconfitta e all’inganno, quando la forza
e l’audacia avrebbero potuto in lui rifulgere, come già nelle vite degli avi.
Il paesaggio lunare lo cingeva della tenebra, al pari del
silenzio dell’esilio.
Lontano da ogni impresa, da ogni gloria languiva il suo
spirito, moriva nella delusione e nel disprezzo.
Chi era ? Forse un sogno errante in un sonno profondo, o
un’immagine oppressa e opprimente d’un incubo.
Ed ora ascendeva, nel ricordo accompagnato dalle contumelie
dei mortali di magnifiche e trascendenti rivelazioni, come uno sciamano
portatore di malaugurio.
Ma, quando fu in cima alla torre e poté respirare l’aria
libera e pura e camminare sulla terrazza, allora dimenticò l’esistenza, obliò
il destino e la sua nascita. E vide l’aurora precedere l’astro immortale in
un’ondata rosea, e poi il sole scaturire dalla linea dell’orizzonte simile a un
gigante di fuoco su dall’abisso, e nel cuore immaginò ardere di quella fiamma,
consumarsi in un’estasi ultima che lo confondesse nell’universo, che lo
spargesse polvere nel vento sul vasto mondo, che lo annientasse nel turbinare
delle immagini future.
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