domenica 23 dicembre 2012

Polvere






Una druidessa celtica sorreggeva un antico libro e leggeva in piedi presso un’alta quercia attraversata dall’austro. Vestita d’una tunica aderente al corpo, fermata in vita da un’ampia cintura cinerea, ella rivolgeva, ripetendo le parole lette, lo sguardo a un vegliardo morente cui ogni sillaba pareva infliggere una ferita. Egli la guardava con la rassegnazione propria di chi ha molto vissuto e molto meditato, la cui saggezza ha reso ormai insensibile sia alla vita che alla morte. Egli era posto in un sepolcro circondato da fiori funerei, da quei fiori che i mortali dedicano per la bellezza pura e pudica alle salme e alle tombe.
E gli occhi piano piano si chiudevano ad ogni parola pronunciata, e il respiro lentamente s’attenuava, quasi un’onda marina che si plachi dopo il vigore delle correnti e si dissolva sulla riva nell’estremo moto.
I suoi capelli candidi procombevano sulle spalle ammantate e sul petto una barba bianca e fluente copriva per lungo tratto un logoro saio, gli occhi erano azzurri come il cielo cristallino.
E sullo sfondo, in una palude recinta da alberi nodosi e deformi, emergevano i ruderi d’un antico tempio cristiano, le cui nere mura erano pervase da una vegetazione di rampicanti e di erbe parassite e di muschio. Gracili sculture seguivano le arcate gotiche e lunghi draghi sporgevano agli angoli le teste di pietra.
Pareva il duomo rispecchiarsi nell’acqua nera e putrescente. Rospi limacciosi si rintanavano nelle nicchie, custodi d’una memoria perduta.
E le fronde delle piante centenarie s’accendevano come brace innanzi alla fiamma morente del sole. E le tenebre alitavano sopra il tramonto quasi minacce di nubi tempestose, mentre una linea canuta testimoniava il giorno trascorso, quale lembo strappato d’un lungo manto fuggente che s’allungasse sopra la terra.
Mentre l’astro declinava oltre le montagne bluastre, il bianco disco lunare ascendeva per il vasto spazio silenzioso, e sembrava accompagnarsi a una vasta e sommessa melodia di lire e di flauti che pari a una fonte pura si smarrisse in una limpida e ferma conca di acque.
E la dea della notte si specchiava ai margini d’un rivo nero e lucente, e vi scorgeva il pallore luminoso del volto. E sul volto scorrevano scintillanti le lacrime e i rimpianti dei giorni perduti e i sogni sognati e le passioni dissolte e le gioie rattristate e le illusioni senza più speranza.
E una musica dolce e triste ondeggiava sulle onde argentee e palpitava e cessava sulle sponde e proseguiva allontanandosi verso altri lidi e contrade, per chi sa quale foce.
E come un rapace, disturbato nel nido da voci di cacciatori, via dalla rupe s’allontana con forte plauso d’ali e poi plana nell’aria quieta e la fende veloce con immoto volo, così nell’ombra della notte solcava un mare nero e greve una barca snella e leggera. Fluiva in una durevole scia il vascello rapido, ma senza rumore alcuno, in un torpido silenzio, scivolando immobile.
Un mendicante remava, e non s’udiva remeggio, quasi che i remi sfiorassero l’acqua.
Don Giovanni si specchiava nell’onde tranquille, al lume della luna. E avvertiva il pallore del volto, mentre meste e tenui note vagolavano sulla superficie tremante.
Intorno roteavano, nel ricordo, i visi molteplici delle amanti, maschere velate o imbellettate di cipria e di fuco, dai ricci attorti da forcine, dai nevi ridicoli artificiali, dalle occhiaie scurite, dalle guance nutrite di fardo. Alcune ridevano d’un riso vacuo, altre lo fissavano con guardo assente, alcune lascivamente, alcune con falso trasporto, altre ancora si sottomettevano con odio, vinte tuttavia.
Che restava di tante avventure gioconde e di tanti arrischiati amplessi ?
Solo il disgusto nella delusione. L’amore s’era rivelato nulla se non un anelito inappagato e senza pace, e il desiderio non s’era mai placato se non nelle sue fantasie, non mai fuori di se stesso.    
Cosa avevano veduto in lui quelle ardenti innamorate se non appunto il desiderio ch’esse in sé medesime non potevano sopprimere ? Si erano specchiate nella sua faccia e come su una lastra di vetro avevano sognato l’amante ideale, e si erano date, fidenti, abbandonandosi ciecamente.
Ingenuità dell’amore ! Lui, sì, l’aveva conosciuto.
Aveva compreso quanto egoismo racchiude la dolce parola. Nessuno ama fuor che l’immagine che ha di se stesso nell’amore.
Ed egli s’era compiaciuto d’amare e d’essere amato, e per lui ogni giornata era stata illuminata dal pieno sole della gioia. Ma ogni istante era trascorso, e gli amori quali granelli di sabbia erano sfuggiti tra le dita.
Rammentava l’ebbrezza delle corse in carrozza, quando l’aria fredda della notte attraverso i finestrini aperti lo colpiva in pieno volto, e la sua vista si perdeva nell’oscurità, alla ricerca di luci lontane ed ignote, mentre tra le braccia sue l’amante inseguiva le chimere dell’amore.
Com’era bello e misterioso, allora, quando congedata con l’ultimo bacio della sera la dama, dileguata sulla carrozza nera tra le nebbie dei sogni, entrava finalmente in casa e s’adagiava sul canapé e si metteva a cianciare col pappagallo, ripetendo i discorsi e le confidenze delle sensibili innamorate, passate in rassegna come le damine d’un museo delle cere o bambole pregiate di porcellana, agghindate di bei fronzoli.
Allora all’udire un canto notturno o lo stormire degli alberi del giardino o il vento che giocava sibilando tra le persiane, pensava alle impressioni indefinite che lo avevano distratto dalla fugacità dell’esistenza, pensava a un colore particolare ma senza nome che aveva indugiato ai raggi del pomeriggio sulla veste d’una fanciulla, sotto un pergolato, al ricevimento del barone locale, o meditava su una piuma che, distaccandosi dall’oca sacrificata, aveva navigato sulla corrente del pulviscolo d’oro.
E poi riviveva l’ardimento dei duelli e rivedeva le lame che incrociandosi stridevano e balenavano quali folgori, o ascoltava di nuovo nella memoria il latrato dei cani eccitati nella caccia e percepiva nel folto dei cespugli l’ombra fuggitiva del cinghiale che muoveva le fronde, o scorgeva tramontare il sole dietro i faggi in un’effusa vena di liquido fuoco.

Ora la visione mutava, ora Don Giovanni non era più.
Come sulla scena d’un teatro mutavano gli attori e gli atti, e così la visione nel sogno riproduceva la scena del mondo.
Amleto saliva lentamente la scala che portava alla torre nel palazzo di Elsinore.
Lentamente ascendeva. Intorno era la tenebra umida e fredda, interrotta regolarmente da pertugi aperti sulla campagna rischiarata dalla luna.
E Amleto saliva, saliva. E la scala rotava in una vertigine. E la pietra grezza della torre colpita dai raggi lunari assumeva strani contorni, ora aprendosi in una bocca, ora evidenziando le cavità del’orbita, ora arrotondando la lucida forma del cranio.
E Amleto meditava sul destino di morte. E considerava la sua triste esistenza, di uomo votato alla sconfitta e all’inganno, quando la forza e l’audacia avrebbero potuto in lui rifulgere, come già nelle vite degli avi.
Il paesaggio lunare lo cingeva della tenebra, al pari del silenzio dell’esilio.
Lontano da ogni impresa, da ogni gloria languiva il suo spirito, moriva nella delusione e nel disprezzo.
Chi era ? Forse un sogno errante in un sonno profondo, o un’immagine oppressa e opprimente d’un incubo.
Ed ora ascendeva, nel ricordo accompagnato dalle contumelie dei mortali di magnifiche e trascendenti rivelazioni, come uno sciamano portatore di malaugurio.
Ma, quando fu in cima alla torre e poté respirare l’aria libera e pura e camminare sulla terrazza, allora dimenticò l’esistenza, obliò il destino e la sua nascita. E vide l’aurora precedere l’astro immortale in un’ondata rosea, e poi il sole scaturire dalla linea dell’orizzonte simile a un gigante di fuoco su dall’abisso, e nel cuore immaginò ardere di quella fiamma, consumarsi in un’estasi ultima che lo confondesse nell’universo, che lo spargesse polvere nel vento sul vasto mondo, che lo annientasse nel turbinare delle immagini future. 

Nessun commento:

Posta un commento