Oltre la piana si schiudeva lo strapiombo sulla mormorante
estensione delle acque salmastre. E sull’onda canuta, presso gli scogli
inondati dalla spuma, attendeva una navicella leggera e su di essa la dama
bianca chiamava a sé Tommaso il cantore, per condurlo oltre l’orizzonte.
E la barca snella prese il largo al soffio favorevole del
vento, scindendo la criniera delle onde, avanzando sul dorso livido e possente
del mare.
Le nubi a poco a poco diradandosi in lontananza lasciavano
scorgere una terra, ed erano esse grigie e cariche di pioggia e colorate di
bianco e cineree e bluastre come le acque gelide dell’oceano boreale.
Ma in una danza forsennata s’infransero le correnti divise e
fendute dai soffi burrascosi, e un vortice si schiuse in mezzo al buio abisso e
la tenebra precipitò con tutto il cielo, ed interrotta nel lungo viaggio e nel
sogno sola rimase la maga nell’ombra.
E nell’ombra Morgana volse gli occhi lucenti al nuovo ospite
e s’appressò allo specchio magico, coperto da un velo nero, pronunciando
formule arcane, e lo invitò ad essere partecipe del rito.
La fata discoverse lo specchio e apparve una pianura florida
d’erbe e di pomarii e di boschetti odorosi e di fresche riviere.
All’orizzonte s’elevava un colle sul quale svettavano le
guglie e i torrioni d’un gotico castello, che pareva una fantasia corallina,
riverberando il fluido di porpora del crepuscolo, o un duomo ignoto, che
d’improvviso si svelasse alla curiosità entusiasta di mercanti violatori dei
confini dell’Asia, nell’abbagliamento del suo esotico splendore.
Querce dal tronco centenario diramavano la chioma rubra ai
raggi, qual crine castano, quasi bracieri semispenti d’un sacrificio agli dei
celesti.
Fra esse trottavano o flemmaticamente brucavano liocorni
dalla criniera lanuta, dall’acuto corno d’avorio, dal collare aureo guarnito di
campanelle che tinnivano ad ogni minima movenza. I loro occhi azzurri
rivolgevano le pupille caprine, lucide di devozione, a donne bellissime che
erano nel querceto, alcune giacenti sul prato, altre a passeggio e al cogliere
fiori.
Un rivo ciarliero si tuffava nelle umbrate acque d’un
laghetto limpido, ove intatte conchiglie spuntavano su dalle sabbie e scogli
acuminati sporgevano le aguglie, intorno a cui il vello liquido tremolava, e
alcuni verdeggiavano di ciuffi erbosi, fini come ciocche di capelli.
Presso il fonte si colmava le mani Eliana, in abito
d’argento, e lentamente le apriva facendo cadere il puro elisire in frammenti
fruscianti. Mirinda, adagiata sul praticello, beveva la rugiada dal calice dei
fiori, accarezzando gli unicorni, i quali dondolando ritmicamente le code
flabellavano i gelsomini e i giacinti.
Dietro il tronco d’una quercia la vaga Melusina sogguardava
le squame, mutata la vecchia pelle in un camice cupreo che assorbiva il
vermiglio fluttuare dell’aria, memore tuttavia dell’imminente metamorfosi, al
venir della luna, nell’involucro lubrico.
Grasinda pettinava le fluide chiome bionde, prossima a
flettersi in figura di cetra, e i filamenti le si attorcevano alle esili dita
dei piedi rosei, chiudendosi in raggianti anelli minuti.
Oriana in un mortaio preparava misture d’erbe magiche, e
pronunciava formule arcane, per propiziarsi gli spiriti erranti nel plenilunio.
Il fantasma di Ofelia trascorreva sulla superficie del fiume
tra i canneti e le rame spezzate, in un praticello d’alighe fra fiori caduti
dalle rive. La sua veste nuziale sfiorava il vello variopinto della corrente,
enfiandosi intorno alle gambe quale nube o raggiera di medusa, le mani
fuoruscivano dall’acque con le palme semichiuse, in atto di preghiera, la gola
pallida risaltava vicino al mento riverso, la bocca di cinabro era lievemente
aperta, mentre gli occhi erano fissi e lucevano quasi dell’oscurità della
morte. La chioma, mobile nel liquido elemento, s’agitava d’una vita misteriosa,
inanellandosi nei piccoli vortici e allungandosi nella corsa fluida.
Come Euridice, si perdeva nella notte donde non è ritorno.
Ma, oltre la corrente dei sogni, errava alla sua cerca l’amante, ch’era ancora
di lei quale fiore sbocciato sul medesimo stelo, così appena era lungi dal suo
tenero bacio. E nel mormorio delle onde si smarrivano i sogni come le vite
degli uomini, brevi in un fluttuare insidioso, quali petali caduti dalle siepi
o dai roveti in riva ai corsi avidi, che preda sono dei mulinelli e ruotano
semisommersi, splendidi ancora e colorati di primavera.
Il flusso spumeggiava sinuoso sovra le rive e s’intorbidava
con maggior audacia di moto in moto, arcandosi in fiotti crestati, i quali si
sdilinquivano in gocce dissolute nell’elemento, oscurato dalla fitta
vegetazione, che immergeva le braccia fronzute nell’acque gelide.
Il turbinio della corrente ingrossava depredando ciottoli e
sabbie e gemendo e gorgogliando garrulo s’incrociava in corsi avversi,
s’accalcava, si sovrapponeva, si diramava allargandosi con forza senza
incontrare resistenza, offrendo ai raggi il dorso scaglioso e dirompente.
Quale armata vittoriosa risonante di tube d’oro la fiumana
veemente si rovesciava nel mare, dove una nave nera era in balia delle
tempeste. Dall’alto d’una rupe, a picco sulle onde livide e scroscianti, egli
mirava i gorghi che s’incupivano o s’incanutivano sin verso l’orizzonte. Il
disco del sole dardeggiava, rosso come l’occhio d’un dio ferino. Ed egli tese
la destra al dio celeste che l’attraversò della sua forza quale lume in
alabastro, e protese la mano con le dita irradiate, come un secondo sole.
Dietro di sé avvertì la presenza d’un’ombra. Si volse e vide
Euridice, che, osservandolo, s’apprestava a fuggire.
Subito lo trasse nell’intrico della foresta, un fantasma
luminoso che si dileguava fra ramo e ramo. Egli la inseguì, e il desiderio
moltiplicò la sua forza mirabilmente, quasi fosse stato un levriero avvezzo ad
irrompere sfrenato per le balze selvagge.
Vedeva quel corpo femminile, lucente, radioso, trasvolare
magicamente per il bosco, che si apriva innanzi a lei, ubbidendo, e
s’impregnava in ogni fronda del profumo delle membra ignude, aspergendole di
rugiada.
Anch’egli era nudo, e straordinariamente aveva la percezione
del movimento dei suoi arti che si tendevano nello sforzo, dei fianchi e della
schiena percorsi dai muscoli, del costato ansimante, del ventre lievemente
segnato da vene e ombrato dalla peluria, della propria essenza maschile che si
rivelava nella ruvidezza e irregolarità della superficie corporea, tutta guizzi
e gonfiori di carne e di tendini, e ne accentuava la ferinità agli schizzi di
fango sollevati dai piedi, e un odore salino e nel contempo dolciastro
denunziava il suo passaggio.
Le melodie udite sono dolci, ma quelle non udite sono più
dolci; così nel silenzio della foresta veniva affascinato da una sinfonia
interiore che lo inebriava di visioni di paradisi e d’interminate estensioni di
campi fioriti, e di selvosi mormorii e d’incantamenti d’acque e di riflessi, e
delle rupi sibilanti ai venti alpestri e di valli solitarie.
E, nel chiarore sotto la frusciante rete silvestre che
intesseva di lumi ed ombre il suolo erboso, intravvide una compagnia di abitatori
solitarii dei boschi.
Essi giocavano tra i cespi d’erica e le canne ondeggianti
presso il fiume. E nelle acque si specchiava Euridice. La chioma si fondeva con
il lucente albore della corsa sonora della riviera.
Ella suscitava la sensazione estranea di dissolversi nel
liquido radioso o di smarrirsi nel profumo delle mimose. Pareva un sole sopra
le acque e le illuminava come aurora sulle onde marine.
Si udiva il gaudio degli alati aliare nella brezza e sostare
sulle fronde.
Egli si coricò nell’erba umida, addormentandosi. Un diffuso
tepore ispirava nella quiete il sogno velato di una musica dolcissima.
Insperate promesse, fantasmi della fantasia fluitavano evanescenti.
Come il suo respiro ansava il roco murmure della marea.
I raggi dell’alba ondeggiavano sopra le onde e si
riversavano sulle rive. L’astro ascendeva.
Illuminava lentamente la sua nudità , che era penetrata dal
brivido nella frescura limpida del mattino.
Egli era solo innanzi al mare.
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