sabato 9 febbraio 2013

Aurora





La Volontà era il fremito del tuono e il baluginare dei fulmini. La minaccia, che scaturisce dalle profondità del cielo e dalle viscere della terra, planava come un rapace nero nel vento freddo sopra le valli, e a lui sembrava d’esserne annientato e che folgorato si disperdesse crepitando in cenere accesa. Lo sguardo pallido dell’uomo si volgeva al cielo. Nella notte il suo capo si sollevava appena dalla terra, in alto il lampeggiare d’una parola terribile segnava forse la condanna senza appello. “ Se sono tuo figlio, perché mi hai consegnato alla disperazione ? ”
Un’informe testa di toro s’alzava dalla bruma fangosa sotto il bagliore sinistro, mentre il sole scardinava i cancelli dell’oceano e fugava imperioso le schiere impaurite delle tenebre. E pur se l’aurora annunciava la fine del temporale notturno e la vita degli uomini si ridestava alle cure consuete, egli pensava all’esistenza volgare e alla propria morte, inevitabile. E pensava di essere già morto. Ora, che differenza avrebbe fatto ? Non siamo forse tutti già morti ? Il nostro languido soffrire e traballar sognante attraverso le quattro età della vita, invasi da immagini triviali, segna un percorso ben strano che non conduce da nessuna parte, infine ci dileguiamo come foglie secche, e la polvere il vento trascina via. Gli uomini somigliano davvero a orologi che caricati procedono senza sapere perché e nel moto circolare ripetono costantemente le stesse ore, giorno dopo giorno, e pare che avanzino sempre nel nostro futuro, mentre irrimediabilmente tornano sempre al punto di partenza.
La vita scorreva, oh quanto desiderava che passasse, che tutto finisse ! La vita ha questa legge inesorabile, scorre, scorre all’infinito. Trascorriamo allora, lasciamoci trasportare dalla corrente. Dovunque andremo saremo al punto di partenza e, probabilmente, morendo saremo sul punto di nascere.
Come dunque la vita imponeva la sua eterna condanna, egli si levò, si vestì e uscì nel giardino, umido e rosato, e respirò l’aria fresca del nuovo giorno.
E mentre si voltava verso la porta, scorse sui gradini del colonnato che reggeva l’ampia terrazza superiore, una bambola, i cui lustrini splendevano e i crini biondi parevano invitare a gara i vividi raggi a celebrare una festa.
Incuriosito s’avvicinò e con sorpresa notò che aveva il vestitino insanguinato, che certo non poteva essere altro quella gran macchia porporina, dai grumi scuri, il cui odore non era di vernice.
Ma, preso da un timore superstizioso e quasi reverenziale, non prese l’oggetto in mano, anzi se ne allontanò subito.
Rientrando, mentre camminava lungo un corridoio, vide all’improvviso, sopra l’entrata d’una stanza mai visitata, un quadro dalla cornice imbrunita dal tempo, il cui soggetto rappresentava un tramonto estivo sopra una valle amena. Tra gli alberi i raggi del giorno morente giocavano i loro ultimi giochi con le fronde esili ma di color bronzeo, le montagne rivelavano le cime argentee, parendo emergere da un mare d’ombra.
Nella valle scorreva un ruscello sulle cui rive due fanciulle scherzavano fra loro amabilmente, i loro visetti ridenti raccoglievano tutta l’armonia d’un pomeriggio quieto e sereno. Poco lontano da loro, ma non visto, dietro una grande quercia stava un pastore e rivolgeva a loro lo sguardo, pieno di curiosità, il suo volto tradiva una strana espressione, che dapprima si sarebbe potuta interpretare come un sorriso di compiacimento, ma, facendo più attenzione, vi si poteva cogliere una sfumatura di concupiscenza.
Turbato, si diresse verso la sua stanza, per prepararsi a una passeggiata nell’aria ancora fresca del mattino.
Quando uscì, l’accolse la luce inebriante del giorno ed egli s’incamminò senza una meta precisa verso la montagna che sovrastava il paese.


Ricordava, forse, ma lontano, nell’aria azzurrina, pervasa di una luce stanca, tra cupoverdi colline di pini e castagni, le casupole di pietra sparse sui crinali, umide di pioggia autunnale, e in fondo il manto del mare argenteo. Un sogno appariva e si dileguava costantemente. Un desiderio profondo, una nostalgia di svanire, di fluire per tutti i ruscelli sino alla vasta piana d’acque canore, come un uccello di fiume, come un ampio chiaro gabbiano volteggiante sui flutti canuti. Avesse potuto assimigliarsi, unirsi a quel sogno! Eppure un giorno lo avrebbe atteso con gioia l’ansia dell’aurora, e il nuovo sole sarebbe asceso nel cielo fervido di nubi rosseggianti, tra il coro dell’onde e lo spiro infinito dei venti.
Come nell’ascesa dei raggi dell’alba, il sogno lo trasportava lassù, sui monti, in verdi valli ove la luce vibrava chiara sulle correnti e sopra il risuono costante dell’acque dalle alte rupi. Nel vasto respiro dei boschi e il vociare spensierato degli uccelli, scorgeva da lontano le casupole sparse dei mandriani e ignote figure lente, avviantesi su per il pendio, forse rivelando tra l’ombra delle fronde e gli spazi assolati un eco fluido di chiome.
Sentiva salire dalla terra l’essenza profumata della rugiada, su dall’erba verde, dai ciottoli umidi, dall’intrico dei rovi.
Il vagito delle greggi sulle pendici delle giogaie e il prolungato sufolare dei pastori ondeggiava nell’aria e si sperdeva rapito dalla brezza. Sopra di lui respiravano i pioppi, e scorgeva i sassi brillanti tra il mormorio del ruscello, e il canto degli alati accoglieva gioioso la luce del mattino.
Le nuvole si disperdevano in opposte schiere, ancora grigie e pure variamente intinte in un chiarore roseo, e si aprivano nella vastità del cielo sconfinato, come un ventaglio il cui semicerchio non trovasse mai il suo angolo piatto. S’allontanavano nell’infinito, mentre il sole sorgeva in mezzo ad esse quale un dio nel trionfo della sua nascita fra cortei di minori spiriti.
Ed egli ascendeva per il sentiero, contemplando il risveglio della Vita universale.
Essa si ridestava dopo il sonno, nelle membra rinascendo, rinnovando le fibre come una pianta permeata di linfa fresca, che genera foglie nuove e abbraccia coi rami i raggi vitali. La Vita intorno a lui nasceva, dopo la morte del giorno, in un altro giorno colmo di nascite e di morti, pullulante di esseri la cui esistenza era scandita sul ritmo di quella Vita più grande, misteriosa e onnipotente.
Aveva la sensazione di percepire un brusio in ogni cespuglio e un cinguettio in ogni albero, e rumori indistinti scorrevano dietro la corteccia o si tradivano nelle frasche della macchia folta, o si dileguavano lungo il corso lamentoso d’un ruscello o insidiavano sotto le pietre assolate in un sibilo minaccioso. E questi stridii e lavorii sommessi e canti e voci e fragori si accordavano e si mescevano in un rombo simile a tuono, che echeggiava sotto la volta del cielo quasi nella cavea d’un immenso teatro, perdendosi nello spazio, smarrendosi come il vociare indecifrabile d’un folle, sino a polverizzarsi nell’infinito silenzio.
E in sogno fu ai piedi delle montagne bianche, sopra le quali volitavano fragili veli di nebbia, dalle quali era riflesso il bagliore solare. E guardò, mentre il vento inchinava gli alti abeti.
Scorse un villaggio alpino.
Il sole sorgeva dalle montagne, che piano piano si rivestivano di verde. Un flauto suonava nel villaggio, che si destava al nuovo giorno e alle rinnovate fatiche. I buoi, trainando un carro dalle ruote piene, si dirigevano pungolati ai campi e ai meleti; ai confini dei terreni incombevano smisurati i monti rocciosi, d’una tonalità grigiorossastra.
Il fiume scorreva limpido, nascendo dai vicini ghiacciai, e si tuffava da strapiombi entro i quali muggiva formando a volte piccoli laghi in cui l’acqua verde azzurra, gelida, non lasciava gli sguardi penetrare sino al fondo. Le sue correnti mormoravano tra gli abeti presso una casa fondata sulla rupe, una casa di pietra e legno, dal tetto aguzzo e dalle minute finestre lavorate e dipinte.
Da una di queste s’affacciava un giovane che respirava l’aria frizzante e sognava ancora allo scorgere filamenti di nubi rosate nel cielo cristallino, che si dissolvevano in vortici aerei.
Mentre così era rapito nelle fantasticherie e in un ozio beato, udì un canto dall’altra riva del fiume, tra i fusti degli abeti dalla soffice fronda, e vide una fanciulla che trascorreva quale vera immagine di sogno.
Era una ragazza di umile aspetto, che reggeva un canestro di fiori e di erbe, ed era bionda. E come s’accorse d’essere osservata, si volse e gli sorrise un poco. Allora il giovane non si mosse fino a che non l’ebbe veduta scomparire nel folto della foresta.
Gli alati cinguettavano tra lo stormire dell’alto fogliame dei larici, e il giovane uscì dalla casa nella luce novella.
L’acqua scorreva tra gli scogli spumosa e garrula in ripetuti giri, ed egli passò il ponticello di tronchi e subito fu sulla sponda opposta. Camminava senza una meta, attratto dalla vita della selva dove filtravano flussi di luce più o meno intensi e s’alternavano a zone d’ombra, come in un tempio.
E prese il sentiero della montagna. Gli pareva udire una voce muliebre cantare a distanza, e gli sembrava che la voce vibrasse entro i tronchi e i rami, per tutta la boscaglia echeggiando. E pensava fosse la voce delle foglie cadute, che calpestava, e la voce delle foglie oscillanti sulle branche, e delle trame arboree che s’incupolavano sopra di lui. Proseguiva il cammino insieme al sole, e ascendeva di pietra in pietra in ventosi canaloni fra le ardue rupi, per cui sibilavano i soffi delle alture.
Man mano ch’egli s’avvicinava al mondo degli dei lo catturava un’inquietudine, un senso angoscioso d’incompiutezza, quasi che la solarità del mattino non fosse abbastanza vivida sì da avvolgerlo in un turbine di luce e trasumanarlo. Quale ansia lo spronava così da presso come una minacciosa necessità ? Quali sogni avevano sconvolto la sua mente ? Gli sembrava davvero che la memoria fosse un baratro da cui  risalivano insieme alle correnti aeree le ombre del passato e i fantasmi della fantasia.
Allora ebbe paura di se stesso. Si sentì stranamente simile a un dio.
Un corvo lo guidò nel volo sonoro ad una fonte riparata dai pini. Una fonte che balbava tra pietruzze canute dell’età di millennii.
Bevve nel cavo della mano. E poi che si fu accucciato sotto un pino generoso, il sonno gli chiuse le palpebre.







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