Un
grande specchio sfolgorava. E un velo verde avvolse i suoi occhi.
Egli
bevve il calice dell'abisso. E sull'orlo dell'abisso una fanciulla
fuggiva leggera nei raggi rossi del tramonto.
Egli
bevve il vino dell'oblio. E aspirò il profumo del muschio alle fonti
montane e fu invaso dall'esalo resinoso degli abeti.
Come
un'aquila s'innalza sovra i picchi delle rocche alpine, così il suo
cuore era sopra le nubi e oltre tutti i mari.
Come
una daina che balza snella fra ramo e ramo, così s'inoltrava tra le
macchie del rosmarino e della ginestra bionda agilmente la giovane
donna dal crine di viola, e sorrideva e rideva nella gioia del sole.
Ed
egli errava oltre le montagne nere. Ma, dovunque mirasse, l'occhio
suo non vedeva nulla se non la giovane donna agile e snella quale
daina veloce. Le membra erano forti e delicate, gli occhi autunnali
erano languidi come il vello delle foglie roride di rugiada sovra la
terra dormente. Il suo viso era severo e dolce come la luce del
mattino, quando traspare per le cortine nella stanza oscura.
Allora
si volse e vide una navata immensa e in alto una cupola tra le nebbie
dell'incenso e nel centro una gigantesca vasca marmorea ove nuotavano
grandi tartarughe marine.
E
la donna, dagli occhi furtivi quale vigile gazzella, a lui diceva
parole sommesse pari ad onde di lago silenziose : “ Seguimi, ecco
la via del serpente. “
Così
disse a lui la donna e lo sedusse per la basilica immensa ove
risuonavano i canti delle acque chiaroscurali. Color dell'opale uno
specchio sorgeva a riflettere, occhio imperscrutabile, le alterne
ombre e le onde vive.
Attraverso
una bifora dai cristalli iridati un chiarore discendeva tenue e quasi
occulto, quale spiraglio di luce nei recessi dell'oceano.
Oltre
lo specchio si schiudeva il rauco mare inquieto.
Infinita
era la pianura delle acque. E presso l'onda volubile e ritrosa
appariva una donna avvolta in un candido peplo, ed era alta e bella
ed aveva un viso triste, come se avesse perduto per sempre un incanto
di sogni e di gioia.
Oltre
lo specchio appariva l'immagine e in quell'immagine si specchiava il
principe, come in un calmo lago smeraldino.
E
la vita del principe si effuse sovra il mormorare dei flutti, alito
del desiderio, arido spiro del deserto.
Ed
egli vide la vita del mare, del dio tumultuoso e crudele.
Ricordava
gli indugi del suo sguardo sul verdecupo ansito crinito di rabbia.
Dalla finestra allora osservava, dall'alto.
Dall'alto
l'occhio si colmava dell'abisso.
La
sala si apriva dietro di lui cinta d'ombre, dove sfiorivano le luci
del crepuscolo. Come i raggi si dileguavano per le vetrate morenti,
la solitudine lo invocava. Ne reclamava il possesso quale madre,
sorella ed amante si contendono il desiderato.
Dall'alto
osservava, superbo sulla collina e nel contempo sgomento innanzi alla
tempesta e alla pace.
La
montagna lo chiamava tra gli alberi alla vetta del sacrificio,
all'esultare delle stelle. Ed egli avvertiva un dio entro di sé,
esigente di culti e di giuramenti, e ne provava meraviglia.
E
la luna dinanzi a lui dominava il mare, regina splendida della notte
e si specchiava sul manto glauco gloriosa della sua corona nel corteo
radioso. Ella era la dea, la dea che possiede i cuori degli uomini.
Ed
ella ora gli appariva sul lido, dove si abbandonava senza riposo
l'instancabile. Già altre volte l'aveva veduta nella visione
crepuscolare, nell'ombra cerulea.
L'occhio
di lei era oscuro azzurro e profondo, lo sguardo altero e ammaliante,
quale il mare nella bonaccia, quieto, lontano dalla rovinosa ira.
Ed
ella ora appariva, nella corona di fuoco.
Irradiata
dalla luna, era al centro d'un cerchio di fiamme, splendida sul mare.
E
a lui parve che la dea finalmente, scesa dal trono inaccessibile,
rivelasse i suoi misteri.
Ella,
ritta sulle gambe eburnee, era immota, estatica. La brezza
abbracciandola le faceva aderire la veste al corpo e le onde di sotto
al manto rilevato inumidivano le sue caviglie. La forma femminile
risaltava ai raggi sèrici e incantati come cortine. Sembrava che una
magica alcova la custodisse, segreta e inviolata.
E
l'immagine evocata dal desiderio notturno lo introdusse nei penetrali
del santuario interdetto ai profani, antro della sibilla, in cui
aleggiavano vapori d'incenso e musiche occulte.
La
donna abbandonò alla brezza marina la lieve veste bianca.
Una
musica moltilingue quale il manto del mare scintillò note leggiadre,
onde alboree nell'estate serena. Ma a poco a poco il suono subentrò
impetuoso dei venti levantini, turgida nube minacciosa. Ella svaniva
e appariva fra le colonne violacee come carnose euforbie o cilestri
quali ametiste o del colore d'acque marine limpide o variegate
malachiti, evocato fantasma nella mente inebriata in un gioco di
specchi insidioso.
Una
musica maestosa e mèmore di sensazioni nascoste si svelava al ritmo
dei crotali e dei flauti e dei sistri, ed ella, invasata
sacerdotessa, ebbra dell'ardore della grande dea, scuoteva il corpo e
fremeva ondulando languidamente in lente spire.
Le
membra riflettevano pallenti il lume velato della luna. Una fascia
argentea le cingeva il seno, cosparsa di brillanti. Un cangiante
bagliore la seguitava in una coda di cometa. I raggi pallidi si
dissetavano al ventre perlaceo.
I
raggi pallidi tremavano fra le onde sulla superficie nera, e la luna
attendeva.
E
nel buio, a ponente, oltre il promontorio, sovra gli aspri lacerti
dei pini, si schiuse una lampada, un occhio oblungo.
Un
occhio di sangue rifulse sul mare.
Un
ansito sofferente alitava, arido. Un grande cavallo nero, ardente, si
precipitava al limite della terra tra i gorghi bui, dilaniando i
lembi estremi del dio dormente.
Scrollava
la testa folle, ma gli occhi erano fermi alla luna e dilatati a
colmarsi della luminosità quasi per sete, vacui come coppe avide del
sangue spumeo della vite.
Un
fragore di framee e di scudi scroscianti, uno stridìo di scimitarre,
un tuono di tamburi si profuse da un capo all'altro del golfo oscuro.
Un
improvviso bagliore si effuse di torce serpentiformi e di vessilli
rubei quali lingue di varani voraci, dalle fauci disserrate e roventi
come vulcani.
Un'orda
di cavalieri scaturì dalla bruma, proni su selvaggi e annitrenti
corsieri. E seguivano un uomo imperioso, ammantato d'una pelle di
lupo montano, la cui voce echeggiava nella notte quale lamento di
lupo montano.
Alta
sotto la luna, cinta d'un alone proibito, mentre un candore
dissolveva l'orizzonte confondendo il cielo e il mare in un ceruleo
lago opalescente, ella si rivelava.
Più
alta dei cedri, più vasta del vento, la sua voce era la collera
delle tempeste, il suo respiro il ruggito delle tigri.
Squarciò
il cinto d'argento. Le rose del suo petto, cupi rubini, alterarono
l'aria con rosse ferite sottili. Lo specchio fluttuante riverberò il
fiume d'oro sorgente dal suo grembo.
Il
principe, abbagliato, mentre una mano avida gli abbrancava la chioma
in forti nodi, fu trascinato alla luce impetuosa, una vittima al
sacrificio.
Lo
specchio s'infranse. Uno scintillìo di aculei trafisse il principe e
dalle lacere membra sprizzò il sangue. Un fiotto purpureo si diffuse
nel mare aureo quale un lucore violaceo del sole crepuscolare.
Un
urlo varcò l'orizzonte.
Fiamme
elevatissime esalarono inni di gratitudine.
Alta
sotto la luna, cinta d'un alone proibito, ella reggeva con la mano
destra lo scettro, nella sinistra il fiore del loto. Dinanzi a lei si
prostravano i popoli, e vergini e incinte le offrivano il desiderio e
l'amore.
Per
lei gli uomini si trucidavano nelle guerre, e a lei sacrificavano la
forza e la giovinezza. Nei riti notturni si placava la sua ira. Ella
animava le fiere nelle foreste, balzando nei loro agili corpi
maculati, soffiando il furore e l'ebbrezza.
Il
cielo si confondeva di terrore. Il mare sprigionava i mostri degli
abissi. Si spalancarono le bocche del mare e s'impennavano turbinando
le creste delle acque tumultuanti.
Un
immenso incendio inghiottì la foresta.
Le
onde di fuoco s'avventavano contro l'ardore dei flutti e una danza
crepitante e fragorosa carpiva ogni elemento e aggiogava ogni essere.
Schiumante
di furore il cavallo nero si slanciò in corsa.
Il
nitrito echeggiava, una disperata ossessione.
I
suoi occhi erano fiamme dell'inferno, fomito di rovina il suo
anelito.
Un
rombo di tamburi e di tube e di piastre assordanti e di flauti
ardenti e di lugubri corni s'inoltrava, seguito da una fiumana
tempestosa di cavalieri, un uragano.
Il
mare violaceo tumultuava, un drago sibilante dalle scaglie insorgenti
sul lungo corpo lubrico su dall'abisso. La spuma si frantumava come
una pelle arida sovra il salso palpito sanguigno. Contro il mostro
furiosamente si precipitarono i guerrieri. I loro giavellotti a
migliaia si abbattevano sopra il viscido dio muscoso. I suoi occhi
erano grandi e profondi e immobili, e in essi non si rifletteva, ma
si perdeva la luce.
Come
un demonio attanagliava con le gambe e le braccia la groppa e la
criniera del cavallo un uomo, stringendo con la destra uno stendardo
rosso, guizzante e biforcuto.
E
il mare si scisse e s'aperse il grande ventre senza quiete. Alla
nuova guerra vaporarono le sabbie inviolate delle valli più
profonde.
E
disparvero in corsa nell'antro oscuro quale un torrente fangoso
sfocia ruggendo e sconvolge il silenzio del mare.
Così
tutti disparvero, e chi andò a vivere e chi a morire.
Nel
cielo violaceo s'innalzavano le torri della lontana città.
Sul
rogo era posto un sarcofago nero.
La
luna si specchiava, vergine solitaria, sui freddi flutti dormenti.
E
la vergine si volse al mare e lo contemplò. Gli occhi si dissetarono
d'orrore. Rabbrividì nello spavento al tocco lieve dei suoi capelli
effusi come una lunga veste.
Ella
vide il suo volto pallido, irradiante una luce fredda, una terra
remota isolata da tenebre e ghiacci.