Egli
si recava spesso alla riva del mare, ove le onde irrompevano, e il
vento, gelido nell'inverno, lo scuoteva fino alle ossa.
L'agone
marino non aveva requie. Gli alitava contro il suo respiro sferzante,
una lama di ghiaccio. La massa plumbea s'agitava, ma pesante,
intorpidita dalla senescente stagione.
Cavalloni
s'avviluppavano in spire serpentine e si struggevano sulle rupi
sibilando, e aprendosi in un ventaglio di spume subito risucchiate
insieme ai ciottoli e alle sabbie.
Egli
s'incantava in una nostalgia abbandonata ai simulacri di sogni
remoti, si rivestiva di vestimenti sacerdotali, s'irrigidiva in una
maestà ieratica. Assiso su un trono d'avorio era il re-profeta che
contemplava gli spazi deserti o la nera catena del Libano, alla luce
d'un candelabro gigantesco che s'ergeva dietro di lui come una mano
aperta. Le poderose colonne della reggia estendevano la loro ombra
cupa nell'ombra stellata della notte.
Verso
il cielo ardivano irrompere le torri, avvinghiate da arcate e vortici
di scalee, attraversate da luci improvvise, come folgori, tradite
dall'eco che rapiva talora emozioni segrete e replicava un canto
d'amore nella pianura.
Era
un cavaliere berbero che ha appena traversato il deserto e ha
respirato la polvere delle arene infuocate e giunge alle sabbie
marine e si disseta solo dell'infinita malinconia delle acque aride.
Egli
si vedeva assiso presso i grandi idoli di pietra, dal volto immoto
roso dai venti e dalle piogge, come divinità lebbrose, talvolta
effigi dal corpo dissolto, cancellato dal tempo, che lo miravano
quali teste spiccate per magia ancora parlanti.
Egli
si vedeva iniziato ai sacri misteri della Gran Madre, nei santuari
delle selve silenti e brumose, i cui ampi tronchi neri sono vestiti
di muschio e le cui radici pervadono il suolo quasi tentacoli,
stringendo la terra umida e ferace.
Vagava
per il labirinto arborato, e la sua guida era il sole che si mostrava
qua e là tra i rami.
E
udiva la voce della Donna dei millennii, della Donna eterna :
“ Io
ti amerò del mio più grande amore, e ti condurrò a me per le vie
di un destino che porrà sul tuo capo il segno della distinzione. Tu
non conoscerai gioia, né diletto d'amore umano, né allegria di
festevole sorte e di fortunata quiete, ma un cuore di ghiaccio e uno
spirito roccioso sfideranno gli eventi per te. Solo per me si
discioglierà quel gelo, lontano dagli sguardi ebeti degli altri
figli che ho destinato similmente alla putrida tomba. Tu saprai le
verità grandiose e atroci e vivrai gli incubi di cui mi rallegro, e
conoscerai pure il mio inavvicinabile sposo. “
Così
diceva, e lo innalzò fino alle vette delle montagne, dov'egli giunse
sormontando ogni rupe. E bevve l'aria pura del cielo e il sangue si
rinnovò, e lo spirito divenne immortale.
E
si riposò sopra le rupi. E udiva stridere le aquile nel vasto cielo
e piombare fulminee le vedeva, quali angeli di morte, sulle prede
ignare.
E,
così in alto, parlava al suo cuore : “ O cuore mio, perché non
ti ho insegnato a volare sopra le vette come un dio o un angelo di
morte ? Troppo a lungo sono stato un rospo di palude. “
E
mirava la catena delle montagne che al sole declinante incupiva
nell'ombra cilestre, mentre le rocce sulle quali il suo piede posava
divenivano rossastre quale cenere ardente, sì ch'egli pareva deposto
sulla pira, prossimo ad essere sacrificato al mistero della sua
divinità.
Era
sulla montagna e sul suo volto ventava l'alito delle solitudini e
l'anima s'era ritirata nel grembo delle nascite. Era un saggio
taoista, lontano dal mondo. Ascoltava la voce degli alberi sulle
pendici, degli abeti che si drizzavano in bilico sovra gli abissi e
fremevano dei turbini alpestri. Ascoltava la voce dei corvi che si
destreggiavano elegantemente sopra di lui. Ascoltava la voce delle
pietre, che il piede sommuoveva.
E
prese il sentiero che riportava alla valle.
Il
sole s'allontanava dietro le montagne nere.
Allora
gli parve scorgere, nel progressivo abbraccio delle tenebre,
discendere dall'ignota oscurità una donna, bella ed alta, dal viso
triste, come avesse per sempre perduto un incanto di sogni e di
gioia.
Ella
sormontava le creste del mare nel fragore dei venti contrastanti, e
il capo era coronato degli astri sorgenti, e la cupa chioma carica di
profumi e di corone di fiori procombeva sovra il corpo suo nudo
argenteo. Ella era sollevata dall'onda furiosa, regina delle vie
marine e delle vie del cielo, pallida, e con fredde mani reggeva il
papavero rosso dell'oblio, che baciava con languide labbra.
Sotto
di lei fluiva l'eterno fiume d'oro, fiorendo al sole occiduo in
improvvisi cerchi roteanti e barbaglianti quali sfere ignite,
crollando in subitanee cascate e innervandosi in trame e rabeschi
cresputi in rinnovate cateratte frementi.
Sotto
di lei scorreva il sangue della vita, il sangue che sgorgava a fiotti
dalle larghe ferite degli esseri e veniva assorbito dalla terra a
saziare i ricordi dei morti, a nutrire nuove speranze e forze nuove
d'esseri avidi d'esistere.
La
vita lo chiamava, insistentemente, prepotentemente. Egli si sentiva,
nel nome della Madre, ordinato a un nuovo sacerdozio, a una
consacrazione quale mai prima i devoti del suo paese avevano
concepito, o della quale, se mai vi avessero pensato, non potevano
che avere un'idea vaga e orribile, come di riti notturni e
d'indemoniati sabba.
Egli
vide le fiamme del sacrificio, alte, divorare gli alti fusti dei pini
crepitanti, ardenti come torce. Egli vide il proprio corpo cosparso
d'unguenti consumarsi a poco a poco quale immagine di cera.
Sulla
spiaggia correva il suo spirito, incessante. Più antico della sua
vita, carico degli anni di molte generazioni, lieve perché sempre
rinato, il corsiero anelava ad orizzonti di promesse, ai sogni di
future illusioni che si perdevano in ogni lontano tramonto.
Il
destriero avanzava entro foreste millenarie, ansava su per i dorsi
dei colli verso le ampie giogaie montuose. Egli sentiva pulsare più
forte il cuore. Sentiva che la sua vita era tenacemente radicata al
suolo aspro e roccioso di quelle alte montagne, ove s'udiva soltanto
il vasto respiro del vento. Immote ed immortali esse lo attendevano
dall'inizio del tempo, avvolte nel silenzio della loro saggezza.
E
infine, stanco della corsa, si arrestò presso il tronco d'un alto
larice. E all'ombra dell'essere silvano riposando, s'addormentò e di
nuovo continuò a correre tra nuovi sogni.
E
vide una figura di donna che fuggiva, e aveva occhi cupi come abissi,
e fuggiva verso un tormento di grida. Avvolta in un manto nero si
fondeva con la tenebra d'una valle notturna ricinta di rupi scoscese.
I capelli brillavano rossi al lume della luna, che pareva tingersi
nella sua opalescenza di una tinta sanguigna.
Ella
incedeva tra grandiosi ruderi d'un antico tempio, le cui mura ed
arcate erano rivestite d'un intrico di piante rampicanti e parassite,
e di edere che tremolavano alla brezza.
Alte,
massicce, imponenti le rovine ricevevano sull'ampio dorso i raggi
torbidi e prolungavano la loro ombra cieca nella violacea penombra.
I
suoi occhi si accendevano del pallente splendore lunare, venati della
medesima fulgida porpora. L'iride lionata traluceva d'un bagliore
d'acquamarina.
I
suoi occhi, volgendosi al tempio, riverberarono lo scintillio di
molteplici fuochi che roteavano entro le volte risonanti di soffocati
stridori, che erano intesi quasi gravi gracidii. Pareva che i rospi
della palude prossima si fossero riuniti sotto le navate ciclopiche,
tra i ciuffi di gramigna che spuntavano fra i marmi del pavimento.
Ed
ecco che, mentre ella avanzava, un esercito innumerevole di ignobili
forme la circondò, gorgogliando una sorta d'inno incomprensibile che
s'alzava al cielo come il borbottio di mille pignatte ribollenti.
Come
entrò ella nella navata, echeggiò il murmure quale sonito marino. E
le parve che ogni altare brulicasse di devoti sacrificanti. Il fumo
acre dei sacrifici, misto ai vapori degl'incensi, vagava quale nebula
entro la cavità innervata di colonne e d'archi a ogiva, che
scandivano l'ampio spazio prolungantesi verso l'abside, in
lontananza.
Su
ogni altare ogni dolce passione si dissanguava in un bacile bianco
coi polsi offerti ai volti immoti di remote divinità troppo a lungo
ignorate. Una nenia sussurrata e soffocata si perdeva al di sotto
degli architravi.
Talvolta
s'intravvedeva il bagliore della lama in mano al sacerdote, che
calava fulminea sulle carni deboli di qualche vittima sventurata,
inconsapevole. Allora s'avvertiva un gemito sordo, come assorbito
dalla terra.
In
fondo, dietro la balaustra di porfido, scintillava d'oro e di gemme
un trono. Una donna bellissima e imperiosa, coronata di coralli e
dalla copiosa chioma castanea, sorreggeva nella destra il globo
lucente di smeraldi, nella sinistra il fiore del loto. Un collare di
preziosi le posava sulle spalle e sotto la gola, un cinto di topazi e
di rubini le sorreggeva il seno. La nudità era solo velata sui
fianchi da due lembi di seta trasparente, e il manto, sul quale
sedeva, levato sopra la gamba sinistra, le nascondeva il pube.
La
bocca era lievemente improntata a un sorriso, che non era di
comprensione o di amabilità, ma di serena e sovrana indifferenza. I
suoi occhi grigi erano profondi e freddi come la calma dei mari
settentrionali pervasi dai ghiacci. Un orrore arcano si nascondeva
dietro la sua bellezza e, distinguendola dalla miriade delle donne
mortali, le conferiva il supremo e assoluto segreto dell'amore.
E
dietro lei s'estendeva una prospettiva illimitata di piane e di
riviere serpeggianti e di rupi solitarie e di ponti sovra precipizi e
di selve nere sfiorate dalla pallida luna, e l'occhio vi si perdeva e
la fantasia volava via come Astolfo sul carro dell'Evangelista.
E
il sogno rapiva il principe Nimrod in un oblio senza confini, e il
tempo e lo spazio si diradarono quali nebbie fugate dai venti, e il
grande specchio della memoria lo inghiottì come un vasto oceano.
E
si trovò solo.
Intorno
a lui la Vita celebrava i suoi Misteri.
Egli
proseguiva il cammino nella foresta che risonava di luce lunare.
Le
gocce di rugiada brillavano sui tronchi quali germogli di cristallo.
Il piede suo calpestava il tappeto di foglie macere, che lo
inebriava, quasi un'esalazione oppiacea. S'inoltrò per un sentiero,
fra macigni coverti di muschio, presso un torrente inaridito. La luna
si mostrava talvolta tra le pareti di roccia e fra i rami degli
alberi, siccome per le aperture d'un ampio duomo. Ed egli ascendeva
di pietra in pietra verso le alture. La luna lo fissava, i raggi
illustravano la via. Rada era ormai la vegetazione, e tutto pareva un
deserto di luce candida. La luna diveniva sempre più grande sopra di
lui.
Si
fermò e sedette su di un macigno. Dal basso il vento, risalendo i
burroni, gli ventava in volto. Scorgeva giù le ombre nere delle
selve, come un vello bruno erto sui costoni rocciosi a picco sovra le
fiumane croscianti. Lontano dei ruderi apparivano, membra fantastiche
di qualche antica e regale dimora.
Gli
parve che s'appressassero dei turbini di nubi nere offuscando l'aere
stellato. E poi che tuonava e alcune gocce annunciavano la prossima
pioggia, egli si riparò sotto due massi che poggiavano l'uno contro
l'altro, ricoperti da una fitta vegetazione d'erbe, dove aveva
ostruito ogni foro il fango, solidamente innervato dalle radici.
Quivi
trascorse la notte. E al mattino, quando aperse gli occhi, lo avvolse
un candore accecante. La pura luminosità rifulgeva sulle vette più
remote ed inaccesse, ghiacciate ed abbaglianti. Torrioni di roccia si
stagliavano nell'aria limpida, ciclopiche forme più vicine al suo
sguardo, dove poteva discernere la fronda di qualche abete, cresciuto
nelle rientranze delle immani masse petrose. La nebbia occupava le
valli, nascondendo la base delle montagne, che parevano mondi divini
fluttuanti sopra il cielo.