sabato 23 giugno 2018

Nimrod ( Edward Elgar )






Egli si recava spesso alla riva del mare, ove le onde irrompevano, e il vento, gelido nell'inverno, lo scuoteva fino alle ossa.
L'agone marino non aveva requie. Gli alitava contro il suo respiro sferzante, una lama di ghiaccio. La massa plumbea s'agitava, ma pesante, intorpidita dalla senescente stagione.
Cavalloni s'avviluppavano in spire serpentine e si struggevano sulle rupi sibilando, e aprendosi in un ventaglio di spume subito risucchiate insieme ai ciottoli e alle sabbie.
Egli s'incantava in una nostalgia abbandonata ai simulacri di sogni remoti, si rivestiva di vestimenti sacerdotali, s'irrigidiva in una maestà ieratica. Assiso su un trono d'avorio era il re-profeta che contemplava gli spazi deserti o la nera catena del Libano, alla luce d'un candelabro gigantesco che s'ergeva dietro di lui come una mano aperta. Le poderose colonne della reggia estendevano la loro ombra cupa nell'ombra stellata della notte.
Verso il cielo ardivano irrompere le torri, avvinghiate da arcate e vortici di scalee, attraversate da luci improvvise, come folgori, tradite dall'eco che rapiva talora emozioni segrete e replicava un canto d'amore nella pianura.
Era un cavaliere berbero che ha appena traversato il deserto e ha respirato la polvere delle arene infuocate e giunge alle sabbie marine e si disseta solo dell'infinita malinconia delle acque aride.
Egli si vedeva assiso presso i grandi idoli di pietra, dal volto immoto roso dai venti e dalle piogge, come divinità lebbrose, talvolta effigi dal corpo dissolto, cancellato dal tempo, che lo miravano quali teste spiccate per magia ancora parlanti.
Egli si vedeva iniziato ai sacri misteri della Gran Madre, nei santuari delle selve silenti e brumose, i cui ampi tronchi neri sono vestiti di muschio e le cui radici pervadono il suolo quasi tentacoli, stringendo la terra umida e ferace.
Vagava per il labirinto arborato, e la sua guida era il sole che si mostrava qua e là tra i rami.
E udiva la voce della Donna dei millennii, della Donna eterna :
Io ti amerò del mio più grande amore, e ti condurrò a me per le vie di un destino che porrà sul tuo capo il segno della distinzione. Tu non conoscerai gioia, né diletto d'amore umano, né allegria di festevole sorte e di fortunata quiete, ma un cuore di ghiaccio e uno spirito roccioso sfideranno gli eventi per te. Solo per me si discioglierà quel gelo, lontano dagli sguardi ebeti degli altri figli che ho destinato similmente alla putrida tomba. Tu saprai le verità grandiose e atroci e vivrai gli incubi di cui mi rallegro, e conoscerai pure il mio inavvicinabile sposo. “
Così diceva, e lo innalzò fino alle vette delle montagne, dov'egli giunse sormontando ogni rupe. E bevve l'aria pura del cielo e il sangue si rinnovò, e lo spirito divenne immortale.
E si riposò sopra le rupi. E udiva stridere le aquile nel vasto cielo e piombare fulminee le vedeva, quali angeli di morte, sulle prede ignare.
E, così in alto, parlava al suo cuore : “ O cuore mio, perché non ti ho insegnato a volare sopra le vette come un dio o un angelo di morte ? Troppo a lungo sono stato un rospo di palude. “
E mirava la catena delle montagne che al sole declinante incupiva nell'ombra cilestre, mentre le rocce sulle quali il suo piede posava divenivano rossastre quale cenere ardente, sì ch'egli pareva deposto sulla pira, prossimo ad essere sacrificato al mistero della sua divinità.
Era sulla montagna e sul suo volto ventava l'alito delle solitudini e l'anima s'era ritirata nel grembo delle nascite. Era un saggio taoista, lontano dal mondo. Ascoltava la voce degli alberi sulle pendici, degli abeti che si drizzavano in bilico sovra gli abissi e fremevano dei turbini alpestri. Ascoltava la voce dei corvi che si destreggiavano elegantemente sopra di lui. Ascoltava la voce delle pietre, che il piede sommuoveva.
E prese il sentiero che riportava alla valle.
Il sole s'allontanava dietro le montagne nere.
Allora gli parve scorgere, nel progressivo abbraccio delle tenebre, discendere dall'ignota oscurità una donna, bella ed alta, dal viso triste, come avesse per sempre perduto un incanto di sogni e di gioia.
Ella sormontava le creste del mare nel fragore dei venti contrastanti, e il capo era coronato degli astri sorgenti, e la cupa chioma carica di profumi e di corone di fiori procombeva sovra il corpo suo nudo argenteo. Ella era sollevata dall'onda furiosa, regina delle vie marine e delle vie del cielo, pallida, e con fredde mani reggeva il papavero rosso dell'oblio, che baciava con languide labbra.
Sotto di lei fluiva l'eterno fiume d'oro, fiorendo al sole occiduo in improvvisi cerchi roteanti e barbaglianti quali sfere ignite, crollando in subitanee cascate e innervandosi in trame e rabeschi cresputi in rinnovate cateratte frementi.
Sotto di lei scorreva il sangue della vita, il sangue che sgorgava a fiotti dalle larghe ferite degli esseri e veniva assorbito dalla terra a saziare i ricordi dei morti, a nutrire nuove speranze e forze nuove d'esseri avidi d'esistere.
La vita lo chiamava, insistentemente, prepotentemente. Egli si sentiva, nel nome della Madre, ordinato a un nuovo sacerdozio, a una consacrazione quale mai prima i devoti del suo paese avevano concepito, o della quale, se mai vi avessero pensato, non potevano che avere un'idea vaga e orribile, come di riti notturni e d'indemoniati sabba.
Egli vide le fiamme del sacrificio, alte, divorare gli alti fusti dei pini crepitanti, ardenti come torce. Egli vide il proprio corpo cosparso d'unguenti consumarsi a poco a poco quale immagine di cera.
Sulla spiaggia correva il suo spirito, incessante. Più antico della sua vita, carico degli anni di molte generazioni, lieve perché sempre rinato, il corsiero anelava ad orizzonti di promesse, ai sogni di future illusioni che si perdevano in ogni lontano tramonto.
Il destriero avanzava entro foreste millenarie, ansava su per i dorsi dei colli verso le ampie giogaie montuose. Egli sentiva pulsare più forte il cuore. Sentiva che la sua vita era tenacemente radicata al suolo aspro e roccioso di quelle alte montagne, ove s'udiva soltanto il vasto respiro del vento. Immote ed immortali esse lo attendevano dall'inizio del tempo, avvolte nel silenzio della loro saggezza.
E infine, stanco della corsa, si arrestò presso il tronco d'un alto larice. E all'ombra dell'essere silvano riposando, s'addormentò e di nuovo continuò a correre tra nuovi sogni.
E vide una figura di donna che fuggiva, e aveva occhi cupi come abissi, e fuggiva verso un tormento di grida. Avvolta in un manto nero si fondeva con la tenebra d'una valle notturna ricinta di rupi scoscese. I capelli brillavano rossi al lume della luna, che pareva tingersi nella sua opalescenza di una tinta sanguigna.
Ella incedeva tra grandiosi ruderi d'un antico tempio, le cui mura ed arcate erano rivestite d'un intrico di piante rampicanti e parassite, e di edere che tremolavano alla brezza.
Alte, massicce, imponenti le rovine ricevevano sull'ampio dorso i raggi torbidi e prolungavano la loro ombra cieca nella violacea penombra.
I suoi occhi si accendevano del pallente splendore lunare, venati della medesima fulgida porpora. L'iride lionata traluceva d'un bagliore d'acquamarina.
I suoi occhi, volgendosi al tempio, riverberarono lo scintillio di molteplici fuochi che roteavano entro le volte risonanti di soffocati stridori, che erano intesi quasi gravi gracidii. Pareva che i rospi della palude prossima si fossero riuniti sotto le navate ciclopiche, tra i ciuffi di gramigna che spuntavano fra i marmi del pavimento.
Ed ecco che, mentre ella avanzava, un esercito innumerevole di ignobili forme la circondò, gorgogliando una sorta d'inno incomprensibile che s'alzava al cielo come il borbottio di mille pignatte ribollenti.
Come entrò ella nella navata, echeggiò il murmure quale sonito marino. E le parve che ogni altare brulicasse di devoti sacrificanti. Il fumo acre dei sacrifici, misto ai vapori degl'incensi, vagava quale nebula entro la cavità innervata di colonne e d'archi a ogiva, che scandivano l'ampio spazio prolungantesi verso l'abside, in lontananza.
Su ogni altare ogni dolce passione si dissanguava in un bacile bianco coi polsi offerti ai volti immoti di remote divinità troppo a lungo ignorate. Una nenia sussurrata e soffocata si perdeva al di sotto degli architravi.
Talvolta s'intravvedeva il bagliore della lama in mano al sacerdote, che calava fulminea sulle carni deboli di qualche vittima sventurata, inconsapevole. Allora s'avvertiva un gemito sordo, come assorbito dalla terra.
In fondo, dietro la balaustra di porfido, scintillava d'oro e di gemme un trono. Una donna bellissima e imperiosa, coronata di coralli e dalla copiosa chioma castanea, sorreggeva nella destra il globo lucente di smeraldi, nella sinistra il fiore del loto. Un collare di preziosi le posava sulle spalle e sotto la gola, un cinto di topazi e di rubini le sorreggeva il seno. La nudità era solo velata sui fianchi da due lembi di seta trasparente, e il manto, sul quale sedeva, levato sopra la gamba sinistra, le nascondeva il pube.
La bocca era lievemente improntata a un sorriso, che non era di comprensione o di amabilità, ma di serena e sovrana indifferenza. I suoi occhi grigi erano profondi e freddi come la calma dei mari settentrionali pervasi dai ghiacci. Un orrore arcano si nascondeva dietro la sua bellezza e, distinguendola dalla miriade delle donne mortali, le conferiva il supremo e assoluto segreto dell'amore.
E dietro lei s'estendeva una prospettiva illimitata di piane e di riviere serpeggianti e di rupi solitarie e di ponti sovra precipizi e di selve nere sfiorate dalla pallida luna, e l'occhio vi si perdeva e la fantasia volava via come Astolfo sul carro dell'Evangelista.
E il sogno rapiva il principe Nimrod in un oblio senza confini, e il tempo e lo spazio si diradarono quali nebbie fugate dai venti, e il grande specchio della memoria lo inghiottì come un vasto oceano.
E si trovò solo.
Intorno a lui la Vita celebrava i suoi Misteri.
Egli proseguiva il cammino nella foresta che risonava di luce lunare.
Le gocce di rugiada brillavano sui tronchi quali germogli di cristallo. Il piede suo calpestava il tappeto di foglie macere, che lo inebriava, quasi un'esalazione oppiacea. S'inoltrò per un sentiero, fra macigni coverti di muschio, presso un torrente inaridito. La luna si mostrava talvolta tra le pareti di roccia e fra i rami degli alberi, siccome per le aperture d'un ampio duomo. Ed egli ascendeva di pietra in pietra verso le alture. La luna lo fissava, i raggi illustravano la via. Rada era ormai la vegetazione, e tutto pareva un deserto di luce candida. La luna diveniva sempre più grande sopra di lui.
Si fermò e sedette su di un macigno. Dal basso il vento, risalendo i burroni, gli ventava in volto. Scorgeva giù le ombre nere delle selve, come un vello bruno erto sui costoni rocciosi a picco sovra le fiumane croscianti. Lontano dei ruderi apparivano, membra fantastiche di qualche antica e regale dimora.
Gli parve che s'appressassero dei turbini di nubi nere offuscando l'aere stellato. E poi che tuonava e alcune gocce annunciavano la prossima pioggia, egli si riparò sotto due massi che poggiavano l'uno contro l'altro, ricoperti da una fitta vegetazione d'erbe, dove aveva ostruito ogni foro il fango, solidamente innervato dalle radici.
Quivi trascorse la notte. E al mattino, quando aperse gli occhi, lo avvolse un candore accecante. La pura luminosità rifulgeva sulle vette più remote ed inaccesse, ghiacciate ed abbaglianti. Torrioni di roccia si stagliavano nell'aria limpida, ciclopiche forme più vicine al suo sguardo, dove poteva discernere la fronda di qualche abete, cresciuto nelle rientranze delle immani masse petrose. La nebbia occupava le valli, nascondendo la base delle montagne, che parevano mondi divini fluttuanti sopra il cielo.



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