giovedì 29 dicembre 2011

La papessa Giovanna




Leggeva dal romanzo di Eliodoro :
… Tanta armonia vagava nei cori e così a proposito la cadenza del passo alla musica insieme accordava il ritmo, che l’occhio disdegnava la vista, ma dall’udito era persuaso e i presenti s’accompagnavano alle vergini, che man mano avanzavano, siccome tratti dall’eco del canto, finché a tergo una compagnia di giovani cavalieri e il loro capitano, splendido, ad ogni concento dimostrò superiore lo spettacolo dei belli. Il calcolo a cinquanta annoverava gli efebi, poi li spartiva in venticinque per banda, scortanti lancieri del capofila ch’era sito nel mezzo; una babbuccia a ciascuno, intreccio di cuoio purpureo, sovra la caviglia era allacciata, poi una clamide bianca da una fibbia d’oro era unita al petto in basso verso i piedi circondata da una tinta cianea. La squadra dei cavalli era tutta di Tessaglia e di quelle contrade al modo fiero volgeva il guardo ( al morso infatti come a padrone si negavano imbrattandolo di saliva ed anche di copiosa bava, ma soggiacevano alla mente guidatrice del cavaliere ), e di falere e di frontali argentei e dorati adornata, quasi a certame questo gli efebi avessero compiuto. Ma costoro, o Cnemone, che pur cosiffatti erano, trascurò ed oltrepassò lo sguardo dei presenti e al capitano ( era lui, il mio tesoro, Teagene ) tutto quanto si volse, sì che avresti creduto che da folgore l’apparizione di prima tutta quanta fosse stata adombrata, tanto noi, una volta scorto, irraggiò, ed era cavaliere di certo ma armato da fante e un’asta di frassino di bronzeo acume brandiva, ma non portava l’elmo, anzi col nudo capo capeggiava il corteo, una porfirea clamide indosso, la quale inoltre l’oro ordiva intessendo in armi i Lapiti contro i Centauri, e la fibbia inghirlandava un’Atena d’ambra che quale scudo la testa della Gorgone reggeva a riparo. E arrecava una grazia alla visione anche di vento un soffio leggero, dolcemente infatti spirava, un poco la chioma per il collo arruffando e alzando della fronte le ciocche e i lembi della clamide facendo ondeggiare sovra il dorso e i fianchi del corsiero. Avresti davvero detto che il cavallo medesimo riconoscesse la gagliardia del padrone e sapesse che portava lui già bello il cavaliere bellissimo, così enfiava la giubba e in alto le orecchie e la testa levava e sovra gli occhi moveva altera la palpebra e superbo conduceva ed era condotto …
Interruppe la lettura e, alzatasi, si diresse al grande armario della sua biblioteca, l’armario ove erano riposti i libri rari, e ne trasse il De mulieribus claris. Iniziò a sfogliare il volumetto qua e là, con noncuranza, e poi, deposto il codicillo, la mente si perse in un vago fantasticare, senza costrutto.
Sotto un baldacchino di drappo amaranto, incorniciato di legno indorato, librato su alte colonne spiralate, su di un seggio regale era seduta ora una femmina, stranamente vestita di panni pontifici. Una tiara di triplice corona le sovrastava il capo, sostenuta da due novizi prestanti e giovini, dal volto gentile. Ella reggeva nella destra il pastorale che terminava in un’attorcitura floreale, le mani sfavillavano d’anelli. Uno stretto corpetto scarlatto e una tunica color ocra suggerivano le linee muliebri, ma queste erano un poco celate dall’ampio camice di seta marezzata che era aperto davanti ed anche rivelava due alti coturni pregiati, di cuoio laminato d’argento. La pianeta era deposta su di uno sgabello, ai suoi piedi. Intorno una gran folla di cardinali, imporporati, dal cappello rosso di larghe falde, con barbe brizzolate di plurime pieghe, parlavano tra loro, annuendo e rivolgendo sguardi soddisfatti e devoti alla somma autorità terrena.
Ella aveva raccolto e intrecciato i boccoli biondi, così evidenziando la morbidezza rosata del collo appena, alla radice della nuca, solcato da una fine peluria. E i giovini ai suoi lati acquistavano sempre maggior coscienza del proprio alto ufficio, compresi e rapiti in una venerazione che prometteva tutte le gioie del Paradiso.
Costei, col nome di Giovanni, era assurta al soglio papale accompagnata da una gran fama di sapienza, sicché, venuta dall’Anglia remota nell’Urbe a insegnare nelle arti del trivio, ebbe ragguardevoli auditori, ed in seguito per la singolare sua castità fu da ogni presule stimata un uomo di lodevole continenza.
Il suo vero nome non fu mai noto, ma alcuni affermarono, cosa strana davvero, che si chiamasse Gilberto e che fosse stata l’amante d’uno studente, quando era ancora in Inghilterra. E anche quando, fuggita di casa, divenne la concubina del chierico, fu in ogni modo creduta un amico di lui e perciò iniziata, grazie al travestimento maschile, agli studi sacri e profani, oltre che ai diletti di Venere. Alla morte dell’amasio, tuttavia, serbò tale pudicizia e astinenza da essere tenuta per certo di sesso opposto. E giunse, tanto è l’ingegno della donna, fino al più ambito dei troni. Non durò a lungo, però, quell’invidiabile onestà, poi che il potere, la gloria, la ricchezza, stimolano i desideri e le voglie assai più che una vita modesta e ritirata. Accadde perciò che il papa si trovò un prelato compiacente, e di buon grado, il quale, col dovuto rispetto, si adagiava accanto ogni notte e ne alleviava le ambasce.
Come la Gioconda o come Sosandra ella sorrideva d’un sorriso venerando e sfuggente, semisommersa nell’umbrata intimità dell’alcova, stesa sulle lenzuola e sovra i cuscini, con la schiena bianca volta al chiarore della lampada e l’ampio fianco destro, mentre copriva il seno e il ventre con un lembo della coltre, e la gamba sinistra poggiava, quasi incrociando, sulla destra.
Era ella forse in quei momenti la grande odalisca dell’Oriente, dalla carnagione pregna ed orezzante di tutti gli aromi e i balsami dei ginecei inviolabili, i cui segreti sono più preziosi di qualsiasi vita ?
Il corpo suo non prometteva la gioia sensuale soltanto, ché il senso maschile non avrebbe potuto godere appieno del contatto di quella beltà così appariscente e misteriosa, così maestosa e tenera. Come ogni capolavoro dell’ingegno umano od ogni meraviglia della natura, ella induceva alla contemplazione della sua forma piuttosto che a violare e a scomporre il fascino della spontanea espressione del viso e dell’atteggiarsi delle membra con un assalto avido e brutale.
L’ecclesiastico quindi restava a lungo, nonostante l’annosa astinenza, fermo, anzi impietrito, catturato dal brivido dell’ammirazione, timoroso, si sarebbe detto, come innanzi ad una reliquia dei luoghi santi, e, per la sensibilità propria delle persone colte, rapito in un gaudio che soddisfaceva ogni sogno errabondo dell’immaginazione.
E tuttavia l’istinto cieco e virile ebbe sin dalla prima notte, dopo un lasso di tempo che parve un’eternità, il sopravvento necessario e, del resto, voluto, sì che la bella dama ricevette ripetutamente il caldo ospite, per la cui consistenza ebbe motivo più volte di compiacersi, lievemente sorridendo. E trascorsero quindi numerose notti, nelle quali il saggio prete poté ben pensare di aver recuperato il tempo perduto durante la giovanile insensatezza.
Ma anche un papa non può sottrarsi alle leggi di natura, e, a forza di corroboranti applicazioni, ebbe il suo frutto. O meraviglia delle umane vicende, o forza invincibile delle passioni ! Ella ingrossava, ma l’abito talare era fatto apposta e la nascondeva bene sotto i paramenti. Né se n’avvedevano i cardinali, che non erano smilzi, né il popolo che stava troppo a distanza. E la gravidanza procedendo, sventura volle che ella avesse fatto male i suoi conti e che non sapesse che s’avviava oramai al parto.
E sognava pure e progettava imprese favolose pari a quelle di Semiramide, regina di Babilonia.
Quante volte aveva vagheggiato un palazzo simile a quello della divina guerriera ! Sovra un basamento di sessanta stadii incominciava la scalinata dei leoni di granito che sorreggevano colonne dal capitello in figura di palma, le quali colonne procedevano sempre più su fino ad un secondo ripiano di quaranta stadii arrossato di draghi di giada vomitanti fiamme, il quale limitava un torrione di trenta stadii con bassorilievi di tori alati e di grifi di giaietto, che conteneva una montagna di costruzioni accumulate l’una sopra l’altra e fregiate di colonnati e d’architravi e di arcate e di terrazze colme di arbusti, di fiori e di alberi, tutte folgoranti di mille lampade, che illuminavano migliaia e migliaia di corridoi e di sale e di segrete, e poi sempre più su scale di marmo che adducevano a giardini pensili e a padiglioni e a velarii fra boschetti ameni, tra il canto di uccelli variopinti e la musica soave dei musici e il dolce rumoreggiare di ruscelli.
E poi un esercito di schiavi e di servi, di paggi e di maggiordomi, e il gran coppiere e il capo degli eunuchi, il logoteta e il comandante dei pretoriani e il custode dei guatteri, il maestro delle cerimonie, il nomofilace e il nomoteta, il gran camerlengo, il gran camerotto, il protonotario e il protospatario e il protomedico, una fiumana innumerabile di cortigiani e gialdonieri, pronti a prosternarsi ai piedi della sovrana.
Il trono di Semiramide era uno scanno d’oro innervato di rabescature gemmee, sovrastato da un’aquila di smeraldo e sovrapposto ad un tappeto afghano color giallo cromo. Attorno ossequiavano i flabelliferi, oscillando flessuosi flabelli di occhiute penne caudali di pavone, e i musici sonatori di flauto e di sistri, e le suonatrici d’arpa dalle fragili dita, e i trombettieri e i suonatori di cornamusa e di timpano, i citaristi e i clarinettisti, i clavicembalisti e i clavicordisti. Una folla di ministri e di uffiziali digradava verso l’ultimo gradino del basamento piramidale, con loro era tutto il personale della casa, dalle vivandiere alle dame di compagnia. Al vertice sfolgorava sul trono Semiramide.
Ella indossava una corazza aurea al centro della quale, tra i seni, era una testa di medusa che saettava bagliori da lontano. Sul capo, dalla doviziosa chioma corvina, era un elmo dal folto cimiero sanguineo, ed ella reggeva nella destra lo scettro fulgido di rubini e nella sinistra il fior di loto. Il viso rimaneva in ombra, e quasi sottratto alla curiosità dei profani, sì che innanzi alla sua maestà invano il principe di Persia, venuto a recarle omaggio dopo un viaggio periglioso, tentava il gaudimento della bellezza.
Ma dopo che fu degnamente omaggiata ed ebbe i doni rarissimi del principe che si prosternò umilmente prima dell’ultimo grado della vertiginosa scalea, allora ella lo ricevette in separata sede con tutti gli onori di cui può essere capace una gran dama di mondo.
Tra il canto degli alati sovra gli aranci e i melagrani e le tamerici, essi si disposero su divani di taffettà e su eleganti cuscini di velluto cremisi; allato erano esili caraffe di cristallo che ospitavano un vino violetto e speziato, e vassoi di dolciumi e fruttiere e catini d’argento empiti d’acqua di rose. Il padiglione era vieppiù ravvivato da rami di rose rosse, e la regina ne aveva colto una e la sfoggiava tra i seni, ancora gocciante di rugiada.
Semiramide indossava una tunica lieve, di seta, ricamata di segni che rappresentavano un roseto stilizzato, le spalle candidissime erano scoverte e su di queste i riccioli capricciosi contrastavano come la notte al cospetto dell’alba.
La rosa, tesoro di primavera, troneggiando su quelle mobili sponde mostrava davvero d’essere il fiore di Venere, ed esprimeva un sentimento d’amore, di gioia, ed una sensazione di freschezza, di profumo, di luce e di grazia. Pregiata essa è più della beltà, da che possiede, come Afrodite, la grazia più bella ancora della bellezza. Veramente senza la rosa svanisce l’incanto delle Cariti, e Venere stessa se n’adorna nella stagione cara agli amori. Essa tinge le dita dell’Aurora, così dicono i poeti, e l’incarnato incantevole delle ninfe deve a lei lo splendore, ché s’abbellano con i petali odorosi, tanto che pare il suo sentore fragranza di dolce grembo.
L’irresistibile aroma della regina dei fiori ammaliava il principe, ch’era inebriato già della regina delle donne, e quasi n’era stordito, quanto dall’eccessivo desiderio, sì che, tra i fumi del vino, egli giacque con la chioma insertata di zàgare sul camice che racchiudeva il di lei chiomato germoglio.
E cantavano le ancelle in un boschetto vicino i versi divini del divin poeta Izzouddin El
Mouqeddessi e coppie di tortore e di colombe si libravano di ramo in ramo, alle note malinconiche.
Egli dormiva come Endimione vagheggiato da Diana, e appariva sospirare chi sa quali danze nell’ètere, mentre gli anelli della capigliatura gli ombravano leggiadramente il collo, impallidito al lume della sorgente luna.
Sognava la papessa Giovanna e il tempo se ne fuggiva coi sogni, rovina degli uomini.
Un giorno, mentre in processione incedeva dal Gianicolo al Laterano, le vennero le doglie e, senza l’aiuto di alcun’ostetrica, partorì un figlio nel mezzo dei cardinali e della folla.
Il popolo vagiva di stupore e già volavano i motti osceni, quando i porporati, fatto quadrato, si disposero come uno squadrone di valenti soldati armati d’alabarde, o una cornuta mandra di buoi colle terga solidali e la fronte franca, e in questo modo sottrassero l’evento agli occhi del mondo ed evitarono lo scandalo, mentre il segretario e fiduciario pontificio dalle versatili risorse teneva con ambe le braccia alta la mitra, per dare l’impressione che nulla fosse accaduto. Intanto gli svizzeri erano piombati sulla puerpera e avevano provveduto a espellerla dal regno insieme al neonato.
E così ella ritornò nell’umida Anglia, dove, sotto mentito nome, divenne abbadessa di un convento molto famoso ove s’indottrinò a fondo nelle arti del trivio. 

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