mercoledì 1 gennaio 2020

Il ritorno di Misandra ( cap. I )


I


Giunto a quarantasei anni, aveva ormai raggiunto l’acme. Ed era nel pieno della giovinezza e della creatività.
Sovente gli appariva l’immagine d’una montagna assolata durante una gita fatta subito dopo gli studi, molto tempo prima, e aveva la sensazione che il tempo non fosse trascorso, ma fosse sempre quello presente.
E quando osservava da casa sua il panorama tra i due promontori, rivolto verso il mare, rivedeva i sogni passati come i ricami di un ampio manto che coprisse la sua dea, la dea sorta dalle acque e dalla brezza e dalla scorza degli alberi e dal cielo azzurro, dal sole e dalla luna incantatrice.
Aveva, negli anni della prima giovinezza, conosciuto il figlio d’un pittore, un ragazzo ammirato dalle fanciulle per l’avvenenza del portamento, un misto d’introversione e d’arditezza, sì che la sua ritrosia attraeva, quasi un cavaliere misterioso le cui eclatanti imprese sono velate da improvvise fughe in foreste impenetrabili.
E aveva conosciuto un giovane artista, coetaneo di costui, ambedue erano più giovani di alcuni anni, il quale frequentava l’Accademia di Belle Arti ed era entusiasta della filosofia estetica. Egli aveva nella fisionomia, nel contempo forte ed elegante, nella sicurezza e nell’intelligenza dello sguardo, nell’energia che da lui promanava, la sembianza di Leonardo in età novella.
E la memoria lo attraeva nella corrente sinfonica di Bruckner, che lo incantava più di altri, in un viaggio senza meta, in una dolce ondata di malinconia, e alternandosi i momenti di abbandono al vigore, alla forza maestosa che interpretava la lotta incessante, universale, si smarriva in un labirinto, in un mondo irreale, ma assai più autentico di quello in cui vivono le ombre sicure degli uomini, un mondo di impeti ciechi e funesti, di esaltazioni sublimi, di vera vita. Quella vita che, pur fatta di passioni, non appartiene alla volgare folla delle brame né alle deviazioni e agli smarrimenti propri alle condizioni del corpo, ma, tramata di sogni e di desideri luminosi come luci dell’alba o raggi di sole fulgente in un chiaro giorno di giovinezza, ci seduce senza requie e ci sprona a inseguire le sue irresistibili, incantevoli visioni.
Procedevano allora, egli e i suoi amici, per un sentiero nella campagna, e discorrevano d’argomenti seri o futili, a seconda dell’estro. I due gli erano in realtà compagni in rari momenti e più per curiosità che per ammirazione sincera. Ognuno infatti percorreva la propria strada nella vita, senza badare troppo agli eventuali incontri. Ma certo la curiosità non poteva che condurli, in quei rari momenti, a cercare la sua presenza. Egli infatti pareva sancire un misterioso patto e appariva quale un antico idolo peruviano, il suo incarnato olivastro dava risalto agli occhi grandi ma spesso socchiusi, infastiditi dalla luce. La bocca era sovente serrata in un’espressione di disprezzo. La fronte era ampia e lucente e i capelli neri la coronavano; le palpebre, quando non offese dai raggi diurni, sotto i neri sopraccigli, si rilassavano e si aprivano, lasciando scorgere il colore dell’iride, che non era nerastra, ma chiara e fulva e macchiata di verde, con un alone cinereo.
Suggeriva l’idea d’un Montezuma avvezzo a sacrificare vite sugli altari delle piramidi, sacre a divinità sanguinarie. La rigidezza dello sguardo sembrava tradire un profondo rimpianto e nostalgia per un bene perduto o un amore inesplicabile. Nella statura mediocre, ma protesa in atti nervosi per la tensione interna, era talora temibile, sempre all’erta. Egli era circonfuso da un’aura di autorevolezza, che stimolava a cercarne l’assenso o a contrapporgli un’azione che in qualche modo potesse intaccarne l’orgoglio. Quel suo volto, sia nel bene sia nel male, era un punto di riferimento cui ci si volgeva con un moto spontaneo del cuore.
E così, parlando, i giovani si voltavano verso di lui, ma non ricevevano la risposta desiderata. Egli avvolgeva in digressioni o in preamboli il deciso rifiuto del pensiero altrui, lo calpestava anzi, sotto una maschera di falsa modestia, incolpandosi di scarso acume.
Perciò, alla fine della passeggiata pomeridiana, tra gli ulivi e tra i lauri e i canneti del vicino rivo a lato del percorso, lo salutarono congedandosi, ed egli si trovò solo.
E così da allora la vita scorse solitaria, per tutti gli anni della giovinezza. Ma non avvertiva la solitudine. La ricchezza della fantasia, gli orizzonti del mondo interiore non avevano confini, erano vasti quanto l’oceano.
Egli si recava spesso alla riva del mare, ove le onde irrompevano, e il vento, gelido nell’inverno, lo scuoteva sino alle ossa.
L’agone marino non aveva requie. Gli alitava contro il suo respiro sferzante, una lama di ghiaccio. La massa plumbea s’agitava, pesante, intorpidita dalla senescente stagione. Cavalloni s’avviluppavano in spire serpentine e si struggevano sulle rupi sibilando e aprendosi in un ventaglio di spume, subito risucchiate insieme ai ciottoli e alle sabbie.
Ma, nonostante anche per lui fosse prossimo il freddo e l’autunno della vita, riusciva a rinascere insieme al flusso impetuoso della primavera e ancora, chi sa però per quanto ancora, s’esaltava nell’ardore dell’estate.
Così egli pensava, nella propria solitudine, al suo corpo avido d’amore che s’immergesse nel vasto abbraccio del mare, per la carezza della madre marina, dell’amante marina, unito a lei come Peleo, a lei devoto come Achille. Sentiva che le membra del suo corpo s’aprivano come le scorze degli alberi eruttando resina nella primavera, e che era veramente un albero abbarbicato alla terra, era quell’albero che salutava sempre con lo sguardo, laggiù verso la montagna, durante le sue passeggiate abituali.
Non mai la potenza generatrice gli si era rivelata così forte, in tutta la sua terribilità, come in quell’anno. Era egli quasi in preda a un invasamento bacchico, a un’ebbrezza sensuale mai provata prima, come se lo stesso Diòniso, tornato sulla terra, avesse voluto scegliere per primo proprio lui tra i suoi misti.
E nell’ardore dell’estate, puntualmente ogni anno, si recava sulla spiaggia non lontano da casa sua e nell’ebbra freschezza del mattino s’immergeva nel mare e s’inoltrava fra le spume, che un tempo avevano cinto e carezzato le membra splendenti della dea sorta dalle acque. E poi, riposandosi sulla spiaggia, contemplava la distesa placida e luminosa delle onde che si avvicendavano quietamente, morbidamente sulla battigia, e allora ricordava la stessa scena ( quante volte vissuta ! ) di anni ormai remoti e coglieva l’eternità dell’attimo.
Gli si poneva allora innanzi un frammento di vita altrui, di quel Foscolo che amava tanto. Esso diceva : “ Io cerco il mio cuore ma non lo trovo più – Oh !  mia giovinezza ! “
Così aveva scritto un giorno il poeta dell’eterna bellezza. E lo stesso altrove aveva scritto :
O voluttà madre della natura
Bella Venere, …”
Quanto aveva invidiato il sentimento profondo di quell’uomo prodigioso ! Sentiva di non esserne all’altezza, di essere immensamente più basso e volgare, ahi, sentiva di non sentire, ma di essere tratto in ogni direzione, e perciò distratto, da ogni sensazione, da qualsivoglia lusinga dei sensi. La sua sensualità lo intimoriva, gli dispiaceva. Ne coglieva la colpa.
Eppure dentro di lui s’agitava non meno l’ardore della lotta, dell’agone, della gloria, e quando alzava lo sguardo verso la montagna, mentre camminava non lontano da casa sua, i suoi pensieri volavano subito verso solari olimpi o nebbiose cime solcate dalle folgori di Zeus e gli alberi si trasformavano in dimore di dei. E sognava allora, quando il mare era in tempesta e il vento devastava le colline e travolgeva le nuvole che s’inseguivano forsennate nel cielo, sognava il cupo canto delle fanciulle guerriere planare sui loro cavalli alati e inalzarsi come un inno sopra le onde vorticose.
Egli udiva la voce profonda della natura che lo chiamava dalle vette lontane, brillanti ancora di neve, dalla montagna sacra degli avi, donde l’inverno franavano a valle enormi massi travolgendo selve di pini. Laggiù, in un tempo remoto, colava sulle rocce il sangue dei tori, offerto al tonante dio dei monti.
Sognava allora la riva di un fiume. Intorno sotto i pioppi s’estendeva un mosaico di piante multicolori, la corrente spumeggiava tra i sassi e lanciava spruzzi e gocce d’acqua montana, le libellule svolazzavano sopra l’acqua sfiorandola e soffermandosi sulle foglie di menta. I fiori dei ranuncoli acquatici sorgendo a fior dell’elemento, laddove il fiume stazionava in ampie conche, apparivano quali minute sfere di cristallo, avvolti in bollicine d’aria, e accanto galleggiavano le lenticchie palustri. E quando il fiume s’allargava e si riposava in curve e dolci insenature sì da formare quasi un lago, la luce del sole vi si specchiava liberamente, e il riverbero delle acque, unendosi alla luminosità aerea, si versava sui fianchi arborati dei monti, più vivamente rilucendo nelle zone spoglie e rocciose, e così l’acque e le foreste parevano d’oro e gli abeti meravigliose vampe ardenti. E la terra assolata ammutoliva nel vasto silenzio di Pan.
Sulle rive crescevano cedri giganteschi che protendevano le fronde sulle acque mormoranti e adombravano larghe foglie verdecupo di piante ignote dal fiore violaceo, profumato, schiuso come una coppa pronta a ricevere la pioggia del cielo, alte canne ondeggiavano alla brezza e nascondevano nidi di alati pescatori. Gigli variopinti, bianchi, rossi ornavano il prato, mentre dove la corrente cessava e si formavano piccoli porti d'acque quiete, le ninfee mostravano i fiori bianchi e gialli accanto alle larghe foglie natanti. Ma più innanzi il fiume precipitava per cascate aperte sull'abisso, e come sprigionanti scintille dal colpo del maglio, le spume si frangevano su rocce millenarie nell'urto incessante, fragoroso e possente, quindi il corso scendeva inesorabile per canali maggiori e minori, scavati nei macigni e qual fiume di lava incandescente si gettava a capofitto di rupe in rupe fino a gorgogliare alla base della montagna e a placarsi in un diverso e solenne cammino.
E nella selva fitta, oscura e cieca si mise dentro, in segreti meandri. Un'aria greve inumidiva i tronchi e si diffondeva l'odore della vegetazione putrescente, quasi il sudore della foresta, e i vapori si mescevano alla nebbia che s'estendeva sulla valle e che, ruotando su se stessa, veniva inghiottita da un'apertura inattesa della roccia muschiosa, e che, precipitando nel gorgo, si condensava sulle pareti petrose in gocce pesanti come un balsamo. La grotta echeggiava, a intervalli, di un mugolio rabbioso, un ruggito, proveniente dall'oscurità. Seguiva un rantolo sommesso, un respiro minaccioso, e l'immane belva usciva all'aperto in una luce opaca, sotto un cielo plumbeo, foriero di tempesta. Gli occhi fulvi e lucidi risaltavano nella penombra, colpiti dai raggi che penetravano fra le cime degli alberi, simili a bagliori di fiamma, la pupilla si dilatava nell'ira, e l'iride era un vortice di voluttà crudele. Il leone si posò innanzi, immenso, con le fauci aperte in un ruggito, pronto a dilaniare. Le zampe poggiavano sul suolo potenti, gli artigli protesi come uncini.



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