lunedì 25 giugno 2012

Gabriele D’Annunzio, " Il piacere "





Gabriele D’Annunzio      Il piacere                Milano, Mondadori, 1987


L’autore è imbevuto della lettura dei romanzi francesi di Gautier e di Flaubert, il cui stile prende a modello, inoltre mostra di avere assimilato la lezione di Schopenhauer ( Il mondo come volontà e rappresentazione ).
Andrea Sperelli ama due donne che sono l’una l’opposto dell’altra. Elena Muti è la “vampira”, bellissima e perversa, ama d’un amore egoistico, possessivo, distruttivo. Maria Ferres è la donna angelicata, pura, bella d’una bellezza verginale, altruista come una santa, casta come una suora.
Per il gusto dell’arredamento lo scrittore ha ampiamente attinto alla sua attività di giornalista mondano, ora raccolta in Cronache romane. I ritratti di gentildonne del Piacere sono già ad es. nella “ Cronachetta delle pellicce “ o nell’articolo “ In casa Orsini “, una vera e propria galleria di ritratti in pompa magna di nobildonne bellissime e “flave”.

Cap. II

Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, ultimo discendente d’una razza intelettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a’venti anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e potè compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre a punto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo alli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s’era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l’Europa.
L’educazione d’Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura ma anche dall’esperimento; e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sè; poichè la grande forza sensitiva, ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un’altra forza, della forza morale che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d’intorno, inesorabilmente se ben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: “Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui.„
Anche, il padre ammoniva: “Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: ― Habere, non haberi.
Anche, diceva: “Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni.„
Ma queste massime volontarie, che per l’ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.
Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell’animo di Andrea: il seme del sofisma. “Il sofisma„ diceva quell’incauto educatore “è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell’oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui per l’uomo d’intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono in fatti i più squisiti goditori dell’antichità. I sofismi fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso.„
Un tal seme trovò nell’ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso li altri quanto verso sè stesso divenne un abito così aderente alla conscienza ch’egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sè stesso il libero dominio.
Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d’una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balìa delle sue passioni e de’ suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d’Alessandro Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d’Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto in torno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d’Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda “Che vorreste voi essere?„ egli aveva scritto “Principe romano.„
Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabilì il suo home nel palazzo Zuccari, alla Trinità de’ Monti, su quel dilettoso tepidario cattolico dove l’ombra dell’obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze furono ornate e pronte, ebbe nella nuova casa alcuni giorni d’invincibile tristezza. Era una estate di San Martino, una primavera de’ morti, grave e soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quanta d’oro come una città dell’Estremo Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che si specchiano ne’ mari australi.
Quel languore dell’aria e della luce, ove tutte le cose parevano quasi perdere la loro realità e divenire immateriali, mettevano nel giovine una prostrazione infinita, un senso inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine, di vacuità, di nostalgia. Il malessere vago proveniva forse anche dalla mutazione del clima, delle abitudini, delli usi. L’anima converte in fenomeni psichici le impressioni dell’organismo mal definite, a quella guisa che il sogno trasforma secondo la sua natura gli incidenti del sonno.
Certo egli ora entrava in un novello stadio. ― Avrebbe alfin trovato la donna e l’opera capaci d’impadronirsi del suo cuore e di divenire il suo scopo? ― Non aveva dentro di sè la sicurezza della forza nè il presentimento della gloria o della felicità. Tutto penetrato e imbevuto di arte, non aveva ancóra prodotto nessuna opera notevole. Avido d’amore e di piacere, non aveva ancóra interamente amato nè aveva ancor mai goduto ingenuamente. Torturato da un Ideale, non ne portava ancóra ben distinta in cima de’ pensieri l’imagine. Aborrendo dal dolore per natura e per educazione, era vulnerabile in ogni parte, accessibile al dolore in ogni parte.
Nel tumulto delle inclinazioni contraddittorie egli aveva smarrito ogni volontà ed ogni moralità. La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Ma codesto senso estetico a punto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio; così che si poteva dire che la sua vita fosse una continua lotta di forze contrarie chiusa ne’ limiti d’un certo equilibrio. Li uomini d’intelletto, educati al culto della Bellezza, conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezion della Bellezza è, dirò così, l’asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le loro passioni gravitano.


 


Cap. VI

Il giovine, disteso all’ombra o addossato a un tronco o seduto su una pietra, credeva di sentire in sè medesimo scorrere il fiume del tempo; con una specie di tranquillità catalettica, credeva sentir vivere nel suo petto l’intero mondo; con una specie di religiosa ebrietà, credeva posseder l’infinito. Quel ch’ei provava era ineffabile, non esprimibile neppur con le parole del mistico: “Io sono ammesso dalla natura nel più secreto delle sue divine sedi, alla sorgente della vita universa. Quivi io sorprendo la causa del moto e odo il primo canto delli esseri in tutta la sua freschezza.„ La vista a poco a poco mutávaglisi in visione profonda e continua; i rami delli alberi sul suo capo gli parevan sollevare il cielo, ampliare l’azzurro, risplendere come corone d’immortali poeti; ed egli contemplava ed ascoltava, respirando col mare e con la terra, placido come un dio.
Dov’eran mai tutte le sue vanità e le sue crudeltà e i suoi artifici e le sue menzogne? Dov’erano gli amori e gli inganni e i disinganni e i disgusti e le incurabili ripugnanze dopo il piacere? Dov’erano quegli immondi e rapidi amori che gli lasciavan nella bocca come la strana acidezza di un frutto tagliato con un coltello d’acciajo? Egli non si ricordava più di nulla. Il suo spirito avea fatto una grande renunziazione. Un altro principio di vita entrava in lui; qualcuno entrava in lui, segreto, il quale sentiva la pace profondamente. Egli riposava, poichè non desiderava più.
Il desiderio aveva abbandonato il suo regno; l’intelletto nell’attività seguiva libero le sue proprie leggi e rispecchiava il mondo oggettivo come un puro soggetto della conoscenza; le cose apparivano nella lor forma vera, nel lor vero colore, nella vera ed intera lor significazione e bellezza, precise, chiarissime; spariva ogni sentimento della persona. In questa temporanea morte del desiderio, in questa temporanea assenza della memoria, in questa perfetta oggettività della contemplazione appunto era la causa del non mai provato godimento.

Die Sterne, die begehrt man nicht,
Man freut sich ihrer Pracht.

“Le stelle, uom non le desidera, ― ma gioisce del lor fulgore.„ Per la prima volta, infatti, il giovine conobbe tutta l’armoniosa poesia notturna de’ cieli estivi.
Erano le ultime notti d’agosto, senza luna. Innumerevoli, nella profonda conca, palpitava la vita ardente delle constellazioni. Le Orse, il Cigno, Ercole, Boote, Cassiopea riscintillavano con un palpito così rapido e così forte che quasi parevano essersi appressati alla terra, essere entrati nell’atmosfera terrena. La Via Lattea svolgevasi come un regal fiume aereo, come un adunamento di riviere paradisiache, come una immensa correntía silenziosa che traesse nel suo “miro gurge„ una polvere di minerali siderei, passando sopra un álveo di cristallo, tra falangi di fiori. Ad intervalli, meteore lucide rigavano l’aria immobile, con la discesa lievissima e tacita d’una goccia d’acqua su una lastra di diamante. Il respiro del mare, lento e solenne, bastava solo a misurare la tranquillità della notte, senza turbarla; e le pause eran più dolci del suono.
Ma questo periodo di visioni, di astrazioni, di intuizioni, di contemplazioni pure, questa specie di misticismo buddhistico e quasi direi cosmogonico, fu brevissimo. Le cause del raro fenomeno, oltre che nella natura plastica del giovine e nella sua attitudine alla oggettività, eran forse da ricercarsi nella singolar tensione e nella estrema impressionabilità del suo sistema nervoso cerebrale. A poco a poco, egli incominciò a riprender coscienza di sè stesso, a ritrovare il sentimento della sua persona, a rientrare nella sua corporeità primitiva. Un giorno, nell’ora meridiana, mentre la vita delle cose pareva sospesa, il grande e terribile silenzio gli lasciò vedere dentro, d’improvviso, abissi vertiginosi, bisogni inestinguibili, indistruttibili ricordi, cumuli di sofferenza e di rimpianto, tutta la sua miseria d’un tempo, tutti i vestigi del suo vizio, tutti gli avanzi delle sue passioni.
Da quel giorno, una malinconia pacata ed uguale gli occupò l’anima; ed egli vide in ogni aspetto delle cose uno stato dell’anima sua. Invece di transmutarsi in altre forme di esistenza o di mettersi in altre condizioni di conscienza o di perdere l’esser suo particolare nella vita generale, ora egli presentava i fenomeni contrarii, involgendosi d’una natura ch’era una concezion tutta soggettiva del suo intelletto. Il paesaggio divenne per lui un simbolo, un emblema, un segno, una scorta che lo guidava a traverso il labirinto interiore. Segrete affinità egli scopriva tra la vita apparente delle cose e l’intima vita de’ suoi desiderii e de’ suoi ricordi. “To me ― High mountains are a feeling.„ Come nel verso di Giorgio Byron le montagne, per lui erano un sentimento le marine. Chiare marine di settembre! ― Il mare, calmo e innocente come un fanciullo addormentato, si distendeva sotto un cielo angelico di perla. Talvolta appariva tutto verde, del fino e prezioso verde d’una malachite; e, sopra, le piccole vele rosse somigliavano fiammelle erranti. Talvolta appariva tutto azzurro, d’un azzurro intenso, quasi direi araldico, solcato di vene d’oro, come un lapislázuli; e, sopra, le vele istoriate somigliavano una processione di stendardi e di gonfaloni e di pavesi cattolici. Anche, talvolta prendeva un diffuso luccicore metallico, un color pallido di argento, misto del color verdiccio d’un limone maturo, qualche cosa d’indefinibilmente strano e delicato; e, sopra, le vele erano pie ed innumerevoli come le ali de’ cherubini ne’ fondi delle ancóne giottesche.
Il convalescente rinveniva sensazioni obliate della puerizia, quell’impression di freschezza che dánno al sangue puerile gli aliti del vento salso, quegli inesprimibili effetti che fanno le luci, le ombre, i colori, gli odori delle acque su l’anima vergine. Il mare non soltanto era per lui una delizia delli occhi, ma era una perenne onda di pace a cui si abbeveravano i suoi pensieri, una magica fonte di giovinezza in cui il suo corpo riprendeva la salute e il suo spirito la nobiltà. Il mare aveva per lui l’attrazion misteriosa d’una patria; ed egli vi si abbandonava con una confidenza filiale, come un figliuol debole nelle braccia d’un padre onnipossente. E ne riceveva conforto; poichè nessuno mai ha confidato il suo dolore, il suo desiderio, il suo sogno al mare in vano. Il mare aveva sempre per lui una parola profonda, piena di rivelazioni subitanee, d’illuminazioni improvvise, di significazioni inaspettate. Gli scopriva nella segreta anima un’ulcera ancor viva sebben nascosta e glie la faceva sanguinare; ma il balsamo poi era più soave. Gli scoteva nel cuore una chimera dormente e glie la incitava così ch’ei ne sentisse di nuovo le unghie e il rostro; ma glie la uccideva poi e glie la seppelliva nel cuore per sempre. Gli svegliava nella memoria una ricordanza e glie l’avvivava così ch’ei sofferisse tutta l’amarezza del rimpianto verso le cose irrimediabilmente fuggite; ma gli prodigava poi la dolcezza d’un oblio senza fine. Nulla entro quell’anima rimaneva celato, al conspetto del gran consolatore. Alla guisa che una forte corrente elettrica rende luminosi i metalli e rivela la loro essenza dal color della loro fiamma, la virtù del mare illuminava e rivelava tutte le potenze e le potenzialità di quell’anima umana.
In certe ore il convalescente, sotto l’assiduo dominio d’una tal virtú, sotto l’assiduo giogo d’un tal fascino, provava una specie di smarrimento e quasi di sbigottimento, come se quel dominio e quel giogo fossero per la sua debolezza insostenibili. In certe ore aveva dal colloquio incessante tra la sua anima e il mare un senso vago di prostrazione, come se quel gran verbo gli facesse troppa violenza all’angustia dell’intelletto avido di comprendere l’incomprendibile. Una tristezza delle acque lo sconvolgeva come una sventura.
Un giorno, egli si vide perduto. Vapori sanguigni e maligni ardevano all’orizzonte, gittando sprazzi di sangue e d’oro sul fosco delle acque; un viluppo di nuvoli paonazzi ergevasi da’ vapori, simile a una zuffa di centauri immani sopra un vulcano in fiamme; e per quella luce tragica un corteo funebre di vele triangolari nereggiava su l’ultimo limite. Erano vele d’una tinta indescrivibile, sinistre come le insegne della morte; segnate di croci e di figure tenebrose; parevano vele di navigli che portassero cadaveri di appestati a una qualche maledetta isola popolata di avvoltoi famelici. Un senso umano di terrore e di dolore incombeva su quel mare, un accasciamento d’agonia gravava su quell’aria. Il fiotto sgorgante dalle ferite de’ mostri azzuffati non restava mai, anzi cresceva in fiumi che arrossavano le acque per tutto lo spazio, sino alla sponda, facendosi qua e là violaceo e verdastro come per corruzione. Di tratto in tratto il viluppo crollava, i corpi si deformavano o si squarciavano, lembi sanguinosi pendevano giù dal cratere o sparivano inghiottiti dall’abisso. Poi, dopo il gran crollo, rigenerati, i giganti balzavan di nuovo alla lotta, più atroci; il cumulo si ricomponeva, più enorme; e ricominciava la strage, più rossa, finchè i combattenti rimanevan esangui tra la cenere del crepuscolo, esanimi, disfatti, sul vulcano semispento.
Pareva un episodio d’una qualche titanomachia primitiva, uno spettacolo eroico, visto, a traverso un lungo ordine di età, nel cielo della favola. Andrea, con l’animo sospeso, seguiva tutte le vicende. Abituato alle tranquille discese dell’ombra, in quella declinazion serena dell’estate, ora si sentiva dall’insolito contrasto riscuotere e sollevare e intorbidare con una strana violenza. Da prima, fu come un’angoscia confusa, tumultuaria, piena di palpiti inconsapevoli. Affascinato dal tramonto bellicoso, egli non anche giungeva a veder chiaramente in sè medesimo. Ma, quando la cenere del crepuscolo piovve spegnendo ogni guerra e il mare sembrò un’immensa palude plumbea, egli credè udire nell’ombra il grido dell’anima sua, il grido d’altre anime.
Era dentro di lui, come un cupo naufragio nell’ombra. Tante tante voci chiamavano al soccorso, imploravano aiuto, imprecavano alla morte; voci note, voci ch’egli aveva un tempo ascoltate (voci di creature umane o di fantasmi?); ed ora non distingueva l’una dall’altra! Chiamavano, imploravano, imprecavano inutilmente, sentendosi perire; s’affievolivano soffocate dall’onda vorace; divenivano deboli, lontane, interrotte, irriconoscibili; divenivano un gemito; s’estinguevano; non risorgevano più.
Egli restava solo. Di tutta la sua giovinezza, di tutta la sua vita interiore, di tutte le sue idealità non restava nulla. Dentro di lui non restava che un freddo abisso vacuo; d’intorno a lui, una natura impassibile, fonte perenne di dolore per l’anima solitaria. Ogni speranza era spenta; ogni voce era muta; ogni áncora era rotta. A che vivere?




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