venerdì 15 giugno 2012

Icone






Quando fu alla riva udì una compagnia di fanciulle ridenti che scherzavano tra loro e la loro voce era una gioia di rondini in cielo.
S’adagiò sulla sabbia e sui ciottoli, e, nel blando tepore del tramonto, fu colto ancora da un profondo torpore simile a un sonno inquieto.
Nell’acque scorgeva il volto di mille uomini e donne, che lo miravano, inchiusi in quell’utero. Ed era un seguito di donne denudate, dai fluenti capelli neri, dal corpo pallido e saldo quasi avorio o candido marmo in cui sbocciavano le rose del grembo e neri crini velavano l’inguine. Ed ecco una donna dalla copiosa forma, dalla selvosa criniera rossa intrecciata di viole, che sorrideva ammaliante attorcendo le ciocche fulve tra le agili dita. Ecco una donna pingue, dalla capellatura adorna di preziosi, e ricca d’anelli, d’armille e di collane, dalla larga gola, dai seni flosci, dall’andatura imponente, dal cipiglio sovrano. E poi una vecchia, vizza e sul capo una trina di fili d’argento, dall’orbite incavate, dalle guance affossate, senza labbra. Una stoffa nerastra le copriva la sagoma, ma le si intravedeva un seno, un bulbo duro.
Una figura abbagliante, quale ambra irradiata, gli rivolgeva un sorriso e nel contempo si ravvolgeva nell’oscurità d’una selva buia e selvaggia, che solo un chiarore di luce aurorale timidamente violava.
Un leone gigantesco era ai suoi piedi, immerso nel sopore. Le grandi zampe giacevano immobili, soffici adornamenti in un tappeto vivente, la folta giuba si offriva come un morbido cuscino. Ella vi depose il suo candore, che tanto contrastava con l’irsuto pelo della fiera, e si addormentò, mentre la folta e lunga chioma si fondeva con la pelliccia brunastra.
Una nube fiottò da un incensiere. Una donna, vestita d’una stola bianca che le celava i piedi, si dispose poco discosto. E curiosamente lo guardava, maliziosamente, quasi che per la prima volta vedesse un uomo. Aveva un viso rotondo, le guance rosee, gli occhi neri e grandi, le sopracciglia lunate. La capellatura era raccolta e nera come la notte.
Sopra marmi puri, statuaria nella perfezione della sua nudità, una donna bellissima, dai crini crespi d’ebano, dalle ciglia ombreggiate di sopra al lungo taglio degli occhi, dal collo cinto da un colletto di triplice giro, sorreggeva con il braccio sinistro, all’altezza del capo, un pomo di bronzo, sul quale era infitta una vittoria alata, anch’essa di bronzo, che suscitava una singolare impressione, così com’era sollevata dal biancore di quella mano.
In un’altra icona, una femmina rossa, cui due bande di rubra criniera nascondevano le spalle e la parte superiore del petto, tranne le mammelle, nuda, nella mano destra una lente dal manico argenteo, lo fissava, appena svelando l’avorio dei denti tra tenui labbra avare. L’iride grigia sotto i sopraccigli era pervasa d’una luce crudele. Un pitone le vorticava intorno alle gambe.
In una seconda icona, in primo piano sovra uno sfondo d’alberi d’oro, una signora magra e leggiadra, dalla capigliatura cotonata, dalla carne delicatamente olivastra, dalle gote toccate da un soffio di rosa, socchiudeva gli occhi quasi in estasi. Le si vedevano gl’incisivi eburnei tra labbra un po’ riarse. Il collo era chiuso da un monile spesso, dorato e ingemmato, ma suggeriva il collare d’una schiava.
In un’altra icona, una dama semicurva, dalla chioma nera raccolta ma leggermente slacciata, schiudeva a metà palpebra, come una morta, l’iride castanea risaltata dall’ombretto. Un falso neo era apposto sullo zigomo sinistro. Il profilo del viso era mirabile, il naso sottile, lievemente incurvato, e un poco all’in sù sopra le narici voluttuose. Un’abbondante stoffa di tinta fosca di cenere calda, quale piumaggio di fagiano, le lasciava scoperte le coppe delle mammelle, corrette sotto da una striscia di seta. Quanto al resto, si mostravano solo le mani sottili e nervose, con i polsi inanellati, e la sinistra reggeva tra le dita attorcigliati i capelli d’un capo mozzo, dalle palpebre recluse. Alla base dell’icona era scritto : “ Giuditta “.
In un’alcova intima, tappezzata di velluto grigio piombo, impresso di fantasie verdecupo, dalla volta in lacunari, era un divano mascherato da una ricca copertura a fiorami, e sopra era una giovane dall’opulenta chioma, scriminata e rattenuta da fermagli in figura di conchiglia. Aveva orecchini di corallo che assorbivano l’incarnato delle labbra, collegate al naso breve da un breve solco. Gli occhi, grandi e grigioverdi, risaltavano sotto morbide ciglia non lunghe, com’è proprio del tipo biondo, e sotto una fronte seminascosta dalla fronda castana. Tra le spalle e il collo delicato, una lunga collana di coralli rifletteva il fascino dei labbri, posando sopra una pelle luminosa che s’alimentava del calore di quella chioma. Una veste, che pareva aver colore dal corpo che ospitava, se ne allontanava in doviziose pieghe ed enfiature eleganti, le maniche erano strette all’omero da un nastro, sul quale erano fiori di stoffa dal pistillo rosa e dai petali color seppia. Il tessuto era disegnato di larghe foglie di piante ignote che rifrangevano nel loro smalto la malìa di quel viso fatato e di quella fronda prodigiosa. Da esso uscivano tenui dita, l’una inanellata d’una pietra cinerea, l’altra d’un castone di rubini splendenti.
Gli pareva così di posare tra fiori rossi, immerso in una trama di steli, di respirarne il profumo e sognare.


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