FUORI
ALLA CERTOSA DI BOLOGNA
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Oh caro a
quelli che escon da le bianche e tacite case
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de i morti il
sole! Giunge come il bacio d'un dio:
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bacio di luce
che inonda la terra, mentre alto ed immenso
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cantano le
cicale l'inno di messidoro.
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Il piano
somiglia un mare superbo di fremiti e d'onde:
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ville, città,
castelli emergono com'isole.
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Slanciansi
lunghe tra 'l verde polveroso e i pioppi le strade:
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varcano i ponti
snelli con fughe d'archi il fiume.
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E tutto è
fiamma ed azzurro. Da l'alpe là giú di Verona
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guardano
solitarie due nuvolette bianche.
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Delia, a voi
zefiro spira da 'l colle pio de la Guardia
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che incoronato
scende da l'Apennino al piano,
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v'agita il
candido velo, e i ricci commove scorrenti
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giú con le
nere anella per la superba fronte.
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Mentre domate i
ribelli, gentil, con la mano, chinando
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gli occhi onde
tante gioie promette in vano Amore,
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udite (a voi de
le Muse lo spirito in cuore favella),
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udite giú
sotterra ciò che dicono i morti.
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dormono a piè
qui del colle gli avi umbri che ruppero primi
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a suon di scuri
i sacri tuoi silenzi, Apennino:
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dormon gli
etruschi discesi co 'l liuto con l'asta con fermi
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gli occhi ne
l'alto a' verdi misterïosi clivi,
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e i grandi
celti rossastri correnti a lavarsi la strage
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ne le fredde
acque alpestri ch'ei salutavan Reno,
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e l'alta stirpe
di Roma, e il lungo-chiomato lombardo
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ch'ultimo
accampò sovra le rimboschite cime.
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Dormon con gli
ultimi nostri. Fiammeggia il meriggio su 'l colle:
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udite, o Delia,
udite ciò che dicono i morti.
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Dicono i morti
- Beati, o voi passeggeri del colle
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circonfusi da'
caldi raggi de l'aureo sole.
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Fresche a voi
mormoran l'acque pe 'l florido clivo scendenti,
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cantan gli
uccelli al verde, cantan le foglie al vento.
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A voi sorridono
i fiori sempre nuovi sopra la terra:
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a voi ridon le
stelle, fiori eterni del cielo. -
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Dicono i morti
- Cogliete i fiori che passano anch'essi,
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adorate le
stelle che non passano mai.
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Putridi
squagliansi i serti d'intorno i nostri umidi teschi:
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ponete rose a
torno le chiome bionde e nere.
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Freddo è qua
giú: siamo soli. Oh amatevi al sole! Risplenda
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su la vita che
passa l'eternità d'amore. -
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sabato 28 dicembre 2013
Giosue Carducci, dalle Odi barbare.
venerdì 27 dicembre 2013
Stendhal, Le rouge et le noir.
Stendhal
Le rouge et le noir
Paris, Larousse, s. d.
(
1831 )
Cap.
I e inizio del II, descrizione del paese di Verrières improntata al
realismo, non mancano sfumature di tono romantico : la scena
naturalistica delle montagne e della passeggiata costeggiata dai
platani.
Cap.
V : Julien è un cultore del mito di Napoleone. Legge Rousseau ( Les
confessions ) e il Mémorial
de Sainte Hélène. E' un
romantico dall'immaginazione fervida ed esaltata, soprattutto è un
ambizioso che si propone, come Bonaparte, di ascendere da una
condizione oscura alla celebrità grazie al proprio ingegno. Ricorda
il personaggio di Raskòlnikov del Delitto e castigo
( 1866 ) di Dostoevskij, a cui somiglia anche nell'aspetto, anche se
più piccolo di statura, è infatti pallido, dagli occhi
febbricitanti, ha i capelli castano scuro, il suo sguardo talvolta
esprime ferocia. Inoltre anche Raskòlnikov è infatuato di
Napoleone, tanto che concepisce tutto il suo piano delittuoso sulla
base di una sua teoria del superuomo, di cui appunto il Bonaparte
costituisce un modello. A tal proposito vedi Leopardi, Pensieri,
LXXIV : “ Spesso, come nelle donne, l'amore verso questi tali è
maggiore per conto ed in proporzione del disprezzo che essi mostrano,
dei mali trattamenti che fanno, e dello stesso timore che ispirano
agli uomini. Così Napoleone fu amatissimo dalla Francia, ed oggetto,
per dir così, di culto ai soldati, che egli chiamò carne da
cannone, e trattò come tali. … Anche una sorta di brutalità e di
stravaganza piace non poco in questi tali, come alle donne negli
amanti. … “ pag. 325 ( ed. Meridiani, Mondadori ).
Pag.
33, segni premonitori della fine cruenta di Julien : le finestre
della chiesa coperte di drappi color crèmisi, l'annuncio della morte
di un certo Louis Jeurel ( anagramma del suo ) e l'acqua sparsa sul
pavimento dall'acquasantiera, che appare color del sangue per il
riflesso provocato dalle tende rosse alle finestre. Così viene di
fatto annunciata la tragedia.
Pag.
47, sadismo di Julien ( atteggiamento mentale simile in Flaubert ) :
conversa con madame de Renal per la prima volta liberamente e parla “
d'opérations chirurgicales; elle palit et le pria de cesser “.
Pag.
48, condanna dell'ipocrisia clericale e della società
postnapoleonica ( su Napoleone vedi Nietzsche, Genealogia della
morale, pag. 602, vol II, Newton ).
Il
Pensiero n. LXXV ( pag. 325 ) di Leopardi a proposito delle donne e
del mondo ( “ E il mondo è, come le donne, di chi lo seduce, gode
di lui, e lo calpesta. “ ) rivela una misoginia assai simile a
quella di Nietzsche ( Così parlò Zarathustra, “ Di
donnicciuole vecchie e giovani “ : Vai dalle donne ? Non
dimenticare la frusta ! “ ).
Pag.
54 : sensazione di piena libertà di Julien a contatto della natura.
Ingenuità d'animo. Sentimento del sublime : grandi precipizi, rocce
tagliate a picco sovrastanti il fiume. In fondo alla pagina : “
Certaines choses que Napoléon dit des femmes … “ vedi i Pensieri
di Leopardi citati in precedenza. E' costante l'ossessione per l'eroe
Napoleone.
Vedi
nel frontespizio del capitolo VIII la citazione ( queste citazioni
ricorrono in più capitoli ) dal Don Juan di Byron.
Leopardi,
Pensiero LXXXII : superiorità dell'uomo d'azione e quindi esperto
del mondo sugli altri che bambineggiano. L'uomo d'azione è “ …
forse non più felice, ma per dir così, più potente di prima, cioè
più atto a far uso di sé e degli altri. “ Richiama alla mente la
concezione nietzscheana della volontà di potenza. Ma chi è il
modello di riferimento ? Non potrebbe essere l'uomo d'azione per
eccellenza, cioè Napoleone ?
Pag.
64 : iconografia dell'eroe romantico : Julien in alto sulla rupe
osserva i boschi sotto di lui e il volo dello sparviero nel cielo
limpido, naturalmente pensa a Napoleone, di cui l'uccello, come
l'aquila, è un simbolo. Tutta la scena richiama l'idea della Volontà
di potenza nietzscheana ( si pensi anche al celebre quadro “
Viandante sul mare di nebbia “ di Friedrich ).
Per
quanto possa apparire anacronistico o fuori luogo, il disprezzo per
la ricchezza e la borghesia è manifesto nel pensiero aristocratico
degli storici antichi, vedi Tito Livio, Ab urbe condita, III,
26, che riferendo il celeberrimo episodio di Cincinnato, afferma : “
Operae pretium est audire qui omnia prae divitiis humana spernunt
neque honori magno locum neque virtuti putant esse, nisi ubi effuse
affluant opes. “ E' incredibile come tutto il meccanismo delle
lotte sociali si rispecchi in Tito Livio.
Cap.
XI, pag. 67 : dopo la conquista di madame de Renal, Julien pensa alle
vittorie di Napoleone e alla propria , sino quasi a identificarsi col
Buonaparte. Questa megalomania è tipicamente romantica e avvicina
curiosamente il tipo romantico a Nietzsche che, come dimostra
Verrecchia, era megalomane in modo patologico.
Cap.
XII ( “ Un voyage “ ) pag. 71 : l'attraversamento del bosco sino
alla grande montagna sopra Vergy, il rifugio nella grotta,
l'esaltazione di Julien innanzi al sentimento della libertà, tutto
questo prelude all'esaltazione romantica di Nietzsche quale si
ritrova nel suo Così parlò Zarathustra. Questo spiega perché
i lettori del “ filosofo “ tedesco siano stati così ammaliati.
Nietzsche, infatti, è decisamente un puro romantico ( genio e follia
) che ha sintetizzato nella propria vita la forza passionale,
irrazionale e superomistica propria della tradizione letteraria
precedente oltre alla morbosità contemporanea ( Baudelaire, Flaubert
). Non dimentichiamo Swinburne, e la Tentation de Saint Antoine
di Flaubert.
Pag.
72, notare due parole : “ folie “ e “ Bonaparte “, si pone
sempre in evidenza la megalomania o il culto dell'eroe vittorioso
tipico del protagonista. Anche Raskòlnikov ha le stesse idee, vuol
farsi una fortuna col denaro della vecchia usuraia per aver successo
nella società o mostrare le sue eccezionali facoltà.
Julien
è un ribelle in un'epoca di reazionari bigotti e di “ filistei “,
si veda il pensiero CIV di Leopardi a proposito dell'educazione al
suo tempo impartita ai giovani, essa è definita : “ … un formale
tradimento ordinato dalla debolezza contro la forza, dalla vecchiezza
contro la gioventù. “ La cultura del tempo è “ malefica “ e “
intende al profitto del cultore con rovina della pianta “. In
questi intellettuali si agita un moto di ribellione, più che
giustificata, ora contro l'età opprimente della Restaurazione, ora (
Nietzsche ) contro lo scientismo accademico e la sicumera
positivistica che riduce lo studioso ad una macchina da studio. Il
Nietzsche, per quanto lo si dica pazzo, ha se non altro avuto il
merito di introdurre la passione ( anche morbosa ! ) nei suoi studi (
La nascita della tragedia ) che attirano il lettore ancora
oggi, altrimenti sarebbe stato un arido espositore di dati o di
illazioni e di lui oggi non parlerebbe più nessuno.
Cap.
XVII, pag. 87 : di nuovo il mito di Napoleone, ritenuto “ l'homme
envoyé de Dieu pour les jeunes Français ! “ Le considerazioni di
Julien sono quelle di un piccolo borghese ambizioso.
Cap.
XVIII, pag. 93. Julien a cavallo, vestito da guardia d'onore per il
passaggio d'un re straniero, si comporta come un giovane eroe (
naturalmente pensa a Napoleone ) e un dandy ( “ Il voyait dans les
yeux des femmes qu'il était question de lui. “ ) L'incontro con il
giovane vescovo d'Agde sottolinea la morale del dandy, il vescovo
prova e riprova ogni mossa davanti allo specchio e si preoccupa della
sua mitra ammaccata come un indossatore prima della sfilata di moda.
E' questo culto delle nuances che abbaglia Julien.
Cap.
XXII, pag. 124-125. Invitato a un pranzo da Valenod, Julien dietro la
maschera dell'ipocrisia nasconde i propri sentimenti di disprezzo nei
confronti della viltà borghese, avida di denaro e volta allo
sfruttamento del prossimo, Napoleone fece fortuna grazie al valore
militare, non strozzando i poveri.
Cap.
XXII ( pag. 131 ) allusioni all'avidità del clero. In questo
Stendhal appare un degno seguace di Voltaire ( vedi Dizionario
filosofico ).
Cap.
XXV : tutto l'episodio dell'entrata a Besançon è di un realismo
straordinario. L'ingresso in seminario è accompagnato da un sentore
di cimitero e di avversione alla vita che caratterizza l'ambiente e i
suoi abitanti, i due preti che quivi incontra hanno in effetti un
aspetto odioso.
Cap.
XXVI, pag. 155-157. Giudizio fortemente negativo dell'autore nei
riguardi del clero e della religione. Dei preti sottolinea
l'ipocrisia, l'ignoranza e l'avidità.
Vol.
II, “ Les plaisirs de la campagne “ ( pag. 10 ) : solito
rimpianto per Napoleone : “ … jamais la France n'a été si haut
dans l'estime des peuples que pendant les treize ans qu'il a régné.
Alors il y avait de la grandeur dans tout ce qu'on faisait. “ Chi
parla è un compagno di viaggio di Julien verso Parigi, un certo
Falcoz che conversa con l'amico Saint-Giraud.
Pag.
11, Julien è dotato d'un animo sentimentale ( un'anima come quella
di J. è seguita da tali ricordi per tutta una vita ).
Vol.
II, pag. 30, cap. IV, “ L'hotel de La Mole “. Al ricevimento nel
palazzo del marchese de La Mole è invitato un personaggio, il conte
Chalvet, citato nel Mémorial de Sainte Hélène, opera
prediletta da tutti gli ammiratori di Napoleone ( anche D'Annunzio ).
L'espressione seguente del conte Chalvet : “ En ce cas mon opinion
serait mon tyran “, e il suo atteggiamento cinico fanno pensare a
certe affermazioni di Nietzsche in Umano, troppo umano, pag.
676, aforisma 483 della “ Parte nona. L'uomo solo con se stesso “
: “ Le convinzioni sono nemiche della verità più pericolose delle
menzogne “.
L'autore
mostra di stimare i giansenisti, pag. 35, vol. II, cap. V. Vedi in
particolare la considerazione da parte di Julien di un certo conte
Altamira, liberale esule condannato a morte nel suo paese e cattolico
giansenista. Pagg. 41-42, cap. VI : episodio del duello col futuro
amico, il cavaliere de Beauvoisis. In seguito a questo episodio si
divulga la falsa notizia che Julien sia il figlio naturale di un
nobile della Franca Contea, amico di M. de La Mole. Notare che
Stendhal sembra avere una “ predilezione “ per i figli naturali,
perché anche riguardo a Fabrizio del Dongo sorge sin dall'inizio del
romanzo il sospetto ch'egli sia figlio naturale di un generale
francese ( v. La certosa di Parma ).
Pag.
46 ( cap. VII ). Julien è stato inviato per affari a Londra dal
marchese de La Mole, di cui è segretario. Qui incontra dei nobili
russi che lo ammirano molto per il suo atteggiamento da vero dandy :
“ faites toujours le contraire de ce qu'on attend de vous. Voilà,
d'honneur, la seule religion de l'époque … “
Cap.
VIII ( “ Quelle est la décoration qui distingue ? ). La
descrizione del ballo pone in primo piano Mathilde de La Mole. La
fanciulla è attratta dall'unica cosa che non si può comprare : la
condanna a morte. Profondamente annoiata dalla società dell'epoca,
ella scorge nello scandalo e nella violazione delle regole l'unica
via di fuga dall'ennui. In questo senso Julien le appare come un
anticonformista e rimane ammirata e sedotta.
Cap.
IX ( “ Le bal “ ), Mathilde cerca di riconoscere in Julien i
tratti che esprimono quelle alte qualità che possono valere la
condanna a morte. Inconsapevolmente ella indovina il destino di
Julien, come una Cassandra.
Pag.
66 “ La reine Marguerite “. NB si narra la storia di Boniface de
La Mole che ebbe la testa troncata dal boia segretamente destinata
alla cura funebre della sua amante la regina Margherita di Navarra (
a tal proposito leggere di A. Dumas, La regina Margot ).
Pag.
68 : “ L'histoire de leurs aieux les élève au-dessus des
sentiments vulgaires, … “ etc. Considerazioni molto appropriate
sulla condizione psicologica dei meno abbienti, che giocoforza è
meschina.
Pag.
72 ( “ L'empire d'une jeune fille “ ). Letture di Mathilde :
Manon Lescaut, la Nouvelle Héloise, le Lettres
d'une Religieuse portugaise.
Pag.
83, “ Un complot “. La frase “... chacun pour soi, dans ce
désert d'égoisme qu'on appelle la vie. “ denota una concezione
dell'esistenza profondamente pessimistica, nonché il motivo della
solitudine dell'individuo e della incomunicabilità umana presente in
tante opere di scrittori successivi.
Pag.
85. Frase che delinea la fisionomia del ribelle : “ C'était
l'homme malheureux en guerre avec toute la societé. “
Cap.
XVI, pag. 99. Dopo l'incontro segreto nella camera di Mathilde,
Julien si reca a cavallo nelle foreste solitarie intorno a Parigi.
Quivi medita sulla sua recente impresa amorosa. La meditazione
solitaria alla ricerca dei propri veri sentimenti oltre che del
proprio sé ricorda Rousseau.
Pag.
100, cap. XVII ( “ Une vieille épée “ ). Anche mademoiselle de
La Mole ha un carattere eroico : “ Le courage était la première
qualité de son caractère. Dieu ne pouvait lui donner quelque
agitation et la guérir d'un fonds d'ennui sans cesse renaissant, que
l'idée qu'elle jouait à croix ou pile son existence entière. “
Pag.
107, cap. XVIII, da sottolineare la frase : “ … mais un des
caractères du génie est de ne pas trainer sa pensée dans l'ornière
tracée par le vulgaire. “
I
cap. XXII e XXIII mostrano chiaramente l'anticlericalismo
dell'autore, d'altronde, penso, pienamente giustificato. La
controrivoluzione in Vandea sarebbe stata dovuta all'oro di S.
Pietro.
Pag.
147 ( cap. XXVI “ L'Amour moral “ ) citazione dal Don Juan
di Byron.
Pag.
149. L'eroismo romantico ha un fondamento sostanzialmente ascetico :
“ Si, coprire di ridicolo questo essere così odioso, che si chiama
Io, mi divertirà. Se me ne credessi capace, commetterei qualche
crimine per distrarmi. “
Cap.
XXXV, “ Un orage “. Julien si convince di essere in realtà
figlio di un nobile rifugiatosi sulle montagne di Verrières e non
figlio del carpentiere Sorel. Soltanto questo potrebbe giustificare
il profondo odio verso suo padre ( vedi anche cap. VI, vol. II, pagg.
41-42, dove si anticipa questa credenza che Julien sia un figlio
naturale ).
Pag.
184. Prima di sparare a madame de Renal, nella chiesa nuova del
villaggio appaiono nuovamente i drappi rossi ( crèmisi ), simbolo di
sangue e di morte già incontrato all'inizio del romanzo ( vol. I,
pag. 33 ).
Pag.
188. Pensieri di Julien in carcere. Alla notizia che madame de Renal
è sopravvissuta all'attentato, Julien ritrova la fede. “ In quel
momento supremo era credente. Che importa delle ipocrisie dei preti ?
Possono sottrarre qualcosa alla verità e alla sublimità dell'idea
di Dio ? “ Qui si nota l'influsso del deismo sull'autore ( basta
pensare a Voltaire ). I pensieri di Julien in carcere sono veramente
la sintesi della vita umana e dei rimpianti o rimorsi degli uomini
nella solitudine.
Pag.
193. In prigione, dopo la visita dell'abate Chélan e dell'amico
Fouqué, Julien prova orrore al pensiero d'una possibile visita di
suo padre. Julien lo odia profondamente, ed è questo un sentimento
proprio dell'autore che in Julien trasfonde un po' di se stesso.
Pag.
194, cap. 38. Mathilde in visita a Julien nel carcere vede in lui un
eroe : “ Boniface de La Mole lui semblait ressuscité, mais plus
héroique “, ella vive sempre nel suo sogno d'amore romantico.
Cap.
XL, pag. 202: misoginia dell'eroe romantico. Quando è solo nel
carcere Julien pensa : “ Dans le fait, je suis plus heureux seul
que quand cette fille si belle ( Mathilde ) partage ma solitude … “
Cap.
XL, pag. 203. Egotismo dell'eroe romantico ( e del superuomo ) : “
Lasciatemi la mia vita ideale. I vostri piccoli fastidi, i vostri
dettagli della vita reale, più o meno urtanti per me, mi
trascinerebbero giù dal cielo. Si muore come si può; quanto a me
non voglio pensare alla morte che a mio modo. Che m'importa degli
altri ! Le mie relazioni con gli altri saranno troncate bruscamente.
Di grazia, non mi parlate più di quelle persone … “
Cap.
XLII ( pag. 211 ). Considerazioni di Julien sulla religione. Tutto
sommato appare un romantico, crede in un Dio del sentimento e
dell'amore, il Dio di Fénelon. A proposito del Dio della Bibbia dice
: “ Non l'ho mai amato non ho mai neppure voluto credere che lo si
amasse sinceramente. E' senza pietà ( E si ricordò numerosi
passaggi della Bibbia ). “ Più avanti la sua affermazione rammenta
Dostoevskij. Il personaggio di Raskòlnikov sembra in gran parte
modellato su questo Julien. Julien infatti dice a se stesso : “
Veramente l'uomo ha due esseri dentro di sé. “ Il protagonista di
Delitto e castigo è assillato dalla volontà d'espiare il
proprio crimine esattamente come Julien e come per Julien la
motivazione del proprio delitto è l'ambizione.
Cap.
XLIII ( pag. 215 ). Reminiscenza del “ Belfagor “ di Machiavelli
? O forse di un autore medievale ?
Pag.
222, cap. XLIV. Socialismo giacobino di Julien : gli uomini dei
salotti non si alzano mai al mattino col pensiero fisso di come
riuscire a sopravvivere senza morire di fame.
Pag.
223 ( XLIV ). Se Julien ritrovasse la fede potrebbe credere soltanto
nel Dio di Voltaire ( vedi Dizionario filosofico del Voltaire,
sue aspre critiche alla Bibbia ).
Pag.
229. Ultimo cap. (XLV ). Mathilde bacia sulla fronte la testa di
Julien decapitato. Sua somiglianza con l'atteggiamento di Salomé
nella Salomé di O. Wilde ( o nell'Erodiade del
Flaubert ). Siamo in presenza della donna fatale del Romanticismo.
N.
72 dello Zibaldone di G. Leopardi : “ Anche il delitto bene
spesso è un eroismo “, queste considerazioni si addicono proprio
al delitto di J. Sorel nei confronti di madame de Renal. N. 262 : la
teoria del superuomo è solo in apparenza di Nietzsche, qui Leopardi
mostra un atteggiamento di assoluta predilezione nei confronti delle
società formate da individui forti sia nel carattere che nel corpo .
NB “ uomini vigorosi e atti alla guerra “ : dunque la guerra
assume un valore positivo.
mercoledì 25 dicembre 2013
Leopardi, Zibaldone, 660
L’invenzione e l’uso delle armi
da fuoco, ha combinato perfettamente colla tendenza presa dal mondo
in ordine a qualunque cosa, e derivata naturalmente dalla
preponderanza della ragione e dell’arte, colla tendenza, dico, di
uguagliar tutto. Così le armi da fuoco, hanno uguagliato il forte al
debole, il grande al piccolo, il valoroso al vile, l’esercitato
all’inesperto, i modi di combattere delle varie nazioni: e la
guerra ancor essa ha preso un equilibrio, un’uguaglianza che
sembrava contraria direttamente alla sua natura. E l’artifizio,
sottentrando alla virtù, [660] ed agguagliandola, e anche
superandola, e rendendola inutile, ha pareggiato gl’individui,
tolta la varietà, spento quindi anche nella guerra, l’entusiasmo
quasi del tutto, spenta l’emulazione, e toltale la materia, spento
l’eroismo, giacchè tanto vale un soldato eroe, quanto un Martano,
o se anche non l’ha spento, l’ha confuso colla viltà, e reso
indistinguibile, e quindi senza eccitamento e senza premio: in fine
ha contribuito sommamente anche per questa parte a mortificare il
mondo e la vita. Tanto è vero che il bello, il grande, il vario,
non si trova se non che nella natura, e si perde subito appena si
esce da lei, appena sottentrano l’arte e la ragione, in qualunque
cosa.
(14 Feb. 1821.)
sabato 14 dicembre 2013
Thomas Hobbes, Leviathan, II, 21.
L’obbligazione dei sudditi verso il sovrano è intesa durare
fintantoché - e non più di quanto – dura il potere con cui quegli è in grado di
proteggerli.
domenica 8 dicembre 2013
domenica 1 dicembre 2013
Autunno
Autunno planava, stanco
gabbiano,
sull’ultime onde della bionda
estate,
le ore passate,
uguali, si confondevano in un
ricordo vano.
Piano, piano
un quadro di colori e di
suoni una eco
si stemperava sulla luce
querula
dell’acqua,
uno sciacquìo e una fuga
d’ombre,
e tutto se ne andava.
domenica 24 novembre 2013
Leopardi, Zibaldone, 647 – 650.
La somma della teoria del
piacere, e si può dir anche, della natura dell’animo nostro e di qualunque
vivente, è questa. Il vivente si ama senza limite nessuno, e non cessa mai di
amarsi. Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene, e si desidera il bene
senza limiti. Questo bene in sostanza non è altro che il piacere. Qualunque
piacere ancorchè grande, ancorchè reale, ha limiti. Dunque nessun piacere
possibile è proporzionato ed uguale alla [647]misura dell’amore che il
vivente porta a se stesso. Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente. Se
non lo può soddisfare, nessun piacere, ancorchè reale astrattamente e
assolutamente, è reale relativamente a chi lo prova. Perchè questi desidera
sempre di più, giacchè per essenza si ama, e quindi senza limiti. Ottenuto
anche di più, quel di più similmente non gli basta. Dunque nell’atto del
piacere, o nella felicità, non sentendosi soddisfatto, non sentendo pago il
desiderio, il vivente non può provar pieno piacere; dunque non vero piacere,
perchè inferiore al desiderio, e perchè il desiderio soprabbonda. Ed eccoti la
tendenza naturale e necessaria dell’animale all’indefinito, a un piacere senza
limiti. Quindi il piacere che deriva dall’indefinito, piacere sommo possibile,
ma non pieno, perchè l’indefinito non si possiede, anzi non è. E bisognerebbe
possederlo pienamente,
e al tempo stesso indefinitamente, perchè l’animale fosse pago, cioè felice, cioè l’amor proprio suo che
non ha limiti, fosse definitamente soddisfatto: cosa [648]contraddittoria
e impossibile. Dunque la felicità è impossibile a chi la desidera, perchè il
desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità,
è senza limiti necessariamente, perchè la felicità assoluta è indefinita, e non
ha limiti. Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter
essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può
dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della
vita, in quell’ordine di cose che esiste, e che noi concepiamo, e altro non
possiamo concepire, ancorchè possa essere, ancorchè fosse realmente. Dunque
ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera
assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è
impossibile, e quindi il desiderio suo non può esser soddisfatto) perciò
stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice. E la felicità ed il
piacere è sempre futuro, cioè non esistendo, nè potendo esistere realmente,
esiste solo nel desiderio del vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne
segue. Le [649]présent n’est jamais
notre but; le passé et le présent sont nos moyens; le seul avenir est notre
objet: ainsi nous ne vivons pas, mais nous espérons de vivre, dice Pascal. Quindi segue che il più felice possibile, è il più
distratto dalla intenzione della mente alla felicità assoluta. Tali sono gli
animali, tale era l’uomo in natura. Nei quali il desiderio della felicità
cangiato nei desiderii di questa o di quella felicità, o fine, e soprattutto
mortificato e dissipato dall’azione continua, da’ presenti bisogni ec. non
aveva e non ha tanta forza di rendere il vivente infelice. Quindi l’attività
massimamente, è il maggior mezzo di felicità possibile. Oltre l’attività,
altri mezzi meno universali o durevoli o valevoli, ma pur mezzi, sono gli altri
da me notati nella teoria del piacere, p.e. (ed è uno de’ principali) lo
stupore 1. di carattere e d’indole: gli uomini così fatti sono i più felici:
gli uomini incapaci di questa qualità, sono i più infelici: sii grande e infelice, detto
di D’Alembert, Éloges de l’Académie Françoise (così, Françoise) dice la natura agli uomini grandi, agli uomini
sensibili, passionati ec.: il senso vivo del desiderio di felicità li tormenta:
questo desiderio[650]bisogna sentirlo il meno possibile, quantunque
innato, e continuo necessariamente. 2. derivato da languore o torpore ec.
artefatto, come per via dell’oppio, o proveniente da lassezza ec. ec. 3.
derivato da impressioni straordinarie, dalla maraviglia di qualunque sorta, da
avvenimenti, da cose vedute, udite ec. insomma da sensazioni straordinarie di
qualsivoglia genere: 4. dalla immaginazione, dall’estasi che deriva dalla
fantasia, da un sentimento indefinito, dalla bella natura ec. e v. la teoria
del piacere. Notate che l’immaginazione la vivacità, la sensibilità, le quali
nocciono alla felicità per la parte dello stupore, giovano per la parte
dell’attività. E perciò sono piuttosto un dono della natura (ancorchè spesso
doloroso), di quello che un danno; perchè effettivamente l’attività è il mezzo
di distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente e
generale e realizzabile nella vita. (12. Feb. 1828.).
sabato 16 novembre 2013
Leopardi, Zibaldone, 645 – 646.
Non c’è forse persona tanto indifferente per te, la quale
salutandoti nel partire per qualunque luogo, o lasciarti in qualsivoglia
maniera, e dicendoti, non ci
rivedremo mai più, per poco d’anima che tu abbia, non ti commuova, non ti
produca una sensazione più o meno trista. L’orrore e il timore che l’uomo ha,
per una parte, del nulla, per l’altra, dell’eterno,
si manifesta da per tutto, e quel mai
più non si può udire
senza un certo senso. Gli effetti naturali bisogna ricercarli nelle persone
naturali, e non ancora, o poco, o quanto meno si possa, alterate. Tali sono i
fanciulli: quasi l’unico soggetto dove si possano esplorare, notare, e
notomizzare oggidì, le qualità, le inclinazioni, gli affetti veramente
naturali. Io dunque da fanciullo aveva questo costume. Vedendo partire una
persona, quantunque a me indifferentissima, considerava [645]se era possibile o probabile
ch’io la rivedessi mai. Se io giudicava di no, me le poneva intorno a
riguardarla, ascoltarla, e simili cose, e la seguiva o cogli occhi o cogli
orecchi quanto più poteva, rivolgendo sempre fra me stesso, e addentrandomi
nell’animo, e sviluppandomi alla mente questo pensiero: ecco l’ultima volta, non lo vedrò mai
più, o, forse mai più. E così la morte di qualcuno ch’io conoscessi, e non
mi avesse mai interessato in vita, mi dava una certa pena, non tanto per lui, o
perch’egli mi interessasse allora dopo morte, ma per questa considerazione
ch’io ruminava profondamente: è
partito per sempre - per sempre? sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo
vedrò mai più: e nessuna cosa sua avrà più niente di comune colla mia vita.
E mi poneva a riandare, s’io poteva, l’ultima volta ch’io l’aveva o veduto, o
ascoltato ec. e mi doleva di non avere allora saputo che fosse l’ultima volta,
e di non [646]essermi
regolato secondo questo pensiero.
(11. Feb. 1821.)
sabato 9 novembre 2013
Leopardi, Zibaldone, 630 – 633, sull’immortalità della materia.
Alla p.605. fine. Ma quando anche si supponga lo spirito,
assolutamente semplice e senza parti, non segue ch’egli non possa perire.
Conosciamo noi la natura di un tal essere cosiffatto, per poter pronunziare
s’egli è immortale o mortale? Non c’è che una maniera di perire, cioè il
disciogliersi? Nella materia non ce n’è altra, e però noi non conosciamo se non
questa maniera; ma parimente non conosciamo altra maniera d’essere che quella
della materia. Se una cosa può essere in maniera a noi del tutto [630]ignota e inconcepibile, anche
può perire in maniera del tutto ignota e inconcepibile all’uomo. Dico può
perire, non dico perisce, perchè non posso, come non si può dire umanamente il
contrario, non perisce, ovvero, non può perire perchè la materia perisce in
altro modo, ed ella non può perire come la materia. Dico può perire, perchè non
è più difficile nè inverisimile una tal maniera di perire, che una tal maniera
di essere; (una maniera, dico, inconcepibile all’uomo) una tal morte, che una
tale esistenza. Tutte due sono ugualmente fuori della nostra portata, la quale
non si estende una mezza linea al di là della materia.
Vo anche più avanti, e dico, che se la semplicità è
principio necessario d’immortalità, neanche la materia può perire. Se la
materia è composta, sarà composta di elementi che non sieno composti. Non cerco
ora se questi elementi sieno quelli de’ chimici, o altri più remoti e
primitivi; ma andiamo pur oltre quanto vogliamo, dovremo sempre arrivare e
fermarci in alcune sostanze veramente semplici, e che non abbiano in se quidquam admistum dispar [631]sui, atque dissimile.
Queste sostanze dunque, se non c’è altra maniera di perire, fuorchè il
risolversi, in che si risolveranno, o si possono risolvere? Dunque non potranno
perire. Direte, che anche queste, essendo pur sempre materia, hanno parti, e
quindi sono divisibili e risolvibili, e possono perire, ancorchè tutte le parti
sieno tra loro uguali, e di una stessa sostanza. Bene; ma queste parti come
possono perire? - Anch’esse avranno parti, finattanto che sono materia - Or
via, suddividiamo queste parti, quanto mai si voglia; se non si arriverà mai a
fare ch’elle non abbiano altre parti, e non sieno materia (come certo non si
arriverà); neanche si arriverà a fare che la materia perisca. Perchè questa
ancorchè ridotta a menomissime parti, una di queste minime particelle, è si può
dir tanto lontana dal nulla, quanto tutta la materia o qualunque altra cosa
esistente, cioè tra essa e il nulla, ci corre un divario, e uno spazio
infinito: chè dall’esistenza nel nulla, come dal nulla nell’esistenza, non si
può andar mica per gradi, ma solamente per salto, e salto infinito.
[632]Dunque in un essere semplicissimo e senza parti,
non c’è maggior principio nè ragione d’immortalità, di quello che sia nella
materia, e nell’essere il più composto possibile.
Ma se per principio d’immortalità in un ente semplice e
senza parti, intendono l’impossibilità di cangiar natura, e per perire non
intendono l’annullarsi, giacchè neanche la materia si può naturalmente
annullare, e tanta materia esiste oggi nè
più nè meno, quanta è mai esistita; ma intendono il risolversi nei suoi
elementi; dico io che quelle semplicissime sostanze delle quali la materia e
qualunque cosa composta, deve necessariamente costare, non possono neppur esse
risolversi, nè cangiar natura, ancorchè divise in quante parti, e quanto menome
si voglia. E la quantità di queste parti sarà sempre la stessa, e però di quelle
primitive sostanze, ancorchè materiali ancorchè divise quanto si voglia,
esisterà sempre la stessissima quantità, o divisa o congiunta che sia; e tutta
questa quantità, e perciò tutta quella sostanza sarà sempre della stessissima
natura. In maniera che anche per questa parte, una sostanza supposta
semplicissima e immateriale, non può contenere [633]maggiore immortalità, cioè
immutabilità e incorruttibilità che i principii della materia, i quali non sono
una supposizione, ma debbono necessariamente e realmente esistere.
(9. Feb. 1821.)
venerdì 1 novembre 2013
G. Leopardi, Alla sua donna.
Cara beltà che amore
Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne' campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l'innocente
Secol beasti che dall'oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai
Nulla speme m'avanza;
S'allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s'anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.
Fra cotanto dolore
Quanto all'umana età propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg'io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne' prim'anni
L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.
Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m'abbandona;
E per li poggi, ov'io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de' giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess'io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L'alta specie serbar; che dell'imago,
Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.
Se dell'eterne idee
L'una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l'eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s'altra terra ne' superni giri
Fra' mondi innumerabili t'accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T'irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d'ignoto amante inno ricevi.
sabato 26 ottobre 2013
Hymn to Intellectual Beauty By Percy Bysshe Shelley (1792–1822)
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